Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo V

Capo V.

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CAPO QUINTO


Straniero al mondo, alle sue ambizioni o alle sue bassezze, compiuti i doveri di religione e del suo stato, Frà Paolo passava il tempo o allo studio o in mezzo a dotto circolo d’amici.

Sorgeva ordinariamente coll’alba, e suo primo pensiero era Dio. Non mai nella sua vita passò giorno che non celebrasse la messa; sempre intervenne al canto corale come l’ultimo frate, toltene poche volte dopochè fu fatto consultore quando là gravità degli affari lo tratteneva al palazzo ducale. Convinto per coscienza degli obblighi del suo stato, ne adempiva persino le pratiche più indifferenti; e benchè a lui non piacessero le continue innovazioni che si andavano ad ogni tratto facendo nei riti dell’Ordine, era non pertanto il primo ad assoggettarvisi. Osservava rigidamente i digiuni, persino nelle malattie, e le astinenze sino all’età di 69 anni, ed ogni altro dovere di frate, di cristiano, di filosofo, fino allo scrupolo. V’ha chi la dice ipocrisia; ma sarebbe un fenomeno unico nella storia morale dell’uomo, un ipocrita che per oltre 70 anni di vita, e per quasi 20 spiato accuratamente da astuti e poco caritatevoli esploratori, sia riuscito a non mai tradire sè stesso, e a nascondere con tant’arte i suoi difetti, ed abbagliare una generazione intera e fino i suoi nemici con una spuria santità di costumi. [p. 86 modifica]Questo artifizio di malignare le più occulte intenzioni degli uomini, è quanto la viltà, l’invidia e la vera ipocrisia hanno potuto inventare di più reprobo contro il genere umano. Il più religioso non è quello che dice più Pater nostri, ma quello che più gli mette in pratica; e se con questa regola si misurasse la pietà, il mondo sarebbe assai meno girandolato dalla furfanteria de’ falsi divoti.

Quello di che i pinzocheri possono rimproverare il Sarpi, è che, toltene i primi anni del suo sacerdozio, non volle mai brigarsi di confessionario: ottimo esercizio invero, ma troppo spesso degradato da pettegolezzi, da avarizia e da rigiri profani. Altronde non mancando in questo particolare chi supplisse alle sue veci, poteva occupare il suo tempo molto più utilmente che non ad ascoltare le cianciafruscole di qualche donnicciuola.

Otto ore impiegava quotidianamente a scrivere o a leggere, e leggeva quanti libri gli capitavano alle mani. In ogni genere di lettura notava le cose memorabili, statuiva confronti e faceva sui libri osservazioni e richiami.

Le matematiche erano più amorevolmente da lui accarezzate, e quasi non passava giorno che non se ne occupasse o sciogliendo problemi, o delineando figure astronomiche o mappe geografiche, o studiando le produzioni de’ più recenti autori e commentandole o rischiarandole.

Il dopo pranzo lo passava di solito in esperimenti di fisica o di chimica o di anatomia o di meccanica, perfezionando macchine ed istrumenti. [p. 87 modifica]

Quando leggeva, s’immergeva talmente che pareva insensibile agli oggetti esterni. La sua memoria gli era così fedele che anco lungo tempo si ricordava non pure di ciò che letto aveva; ma del libro, dell’edizione e fin anco della pagina. Non recitava a mente dieci mila volumi come si narra di Magliabecchi; ma quella facoltà era in lui più preziosa perchè più distinta, e scompagnata da quella confusione di idee e scarsezza di genio inventivo che troppo spesso si associa a cotai mostri di memoria. Insomma non ella dominava lui, ma egli la dominava e facevala servire al suo vantaggio.

A ricreare lo spirito frequentava alcuni dotti convegni, in casa dello storico Andrea Morosini dove correvano i più begli ingegni di Venezia, fra’ quali Lionardo Donato e Nicolò Contarini che furono dogi; il celebre Domenico Molino, senatore autorevolissimo per disinteresse e patriotismo, e di svariata letteratura; Antonio Querini che anni dopo difese la Repubblica dall’interdetto; Giovanantonio Veniero che sopravvissuto al Sarpi gli fece un assai bello epitaffio latino; Ottaviano Bono e Marco Trevisano, amicissimi a Frà Paolo, e più altri fra i primi dell’ordine patrizio e cittadinesco. O in casa di Bernardo Secchini mercatante all’insegna della Nave d’oro in Merceria, dove si accoglievano assai forestieri che per commerci avevano navigato a paesi lontani, e persino l’India o l’America. E fu ivi che si amicò Pietro Asselineau d’Orleans, uomo erudito e medico non volgare; nè facevano ostacolo le diverse credenze essendo Pietro calvinista: chè i saggi non si misurano coi pregiudizi del volgo e sanno [p. 88 modifica]che la vera religione non si definisce per astruserie metafisiche e formole meccaniche che ogni tristo può praticare senza essere migliore; ma dall’esempio di sode virtù e di quella carità senza la quale, a detta del grande apostolo, nissuno può essere cristiano.

In casa Morosini si ragionava di scienze o di lettere, e in quest’altra delle cose del mondo. Frà Paolo si dilettava di raccogliere dai viaggiatori notizie sui costumi, le leggi, le religioni de’ popoli, varietà di climi, produzioni della natura ed altre erudite curiosità. E si compiaceva ancora di udire le cose di politica, le vicende delle guerre, lo spirito delle corti, l’ingegno dei ministri e ciò che succedeva nei paesi d’oltremonti o nella Italia: gusto ch’egli ebbe sempre fin presso al termine di sua vita. E fu osservato essere lui così penetrativo che di rado sbagliava i giudizi intorno a ciò che fossero per partorire i tali o tali andari della sempre girevole diplomazia.

Di volta in volta faceva alcune gite scientifiche a Padova, dov’erano suoi amici il professore Gerolamo Fabricio di Acquapendente, il Galileo, Sartorio Sartori medico riputatissimo, allora allievo, poi professore nella università medesima, e Gianvincenzo Pinelli letterato di estesa erudizione. Nella casa del quale imparò a conoscere e divenne amico strettissimo di Marino Ghetaldi gentiluomo di Ragusi e matematico profondo. Andava il Sarpi a visitare il Pinelli, che, crogiolato da gota, si alzò per incontrarlo; e tutti i presenti fecero l’istesso. E posciachè fu partito chiese Marino chi fosse il [p. 89 modifica]frate degno di tanta onorevole accoglienza. —Un grande ingegno. —In che?— In che più vi piace. Voi siete gran matematico: pensateci sopra, scegliete qualche difficile problema da imbrogliarlo; lo inviterò qui a pranzo e sentirete. — Venne Frà Paolo all’invito: Marino fece di tutto per avvilupparlo, ma il frate fu così pronto alle risposte, le questioni risolse con tanta facilità, che il Raguseo ebbe a restarne attonito.

E già la fama soverchiando la sua ritiratezza e modestia lo vantava anco di lungi, di forma che molti forestieri capitati a Venezia l’andavano a visitare: fu tra questi l’inglese Guglielmo Gilbert e il celebre Claudio Peiresc, francese, di enciclopedico sapere, che allora studiava a Padova. Altri dotti corrispondevano con lui per lettere, e lo stesso governo veneto lo adoperò più volte a servire di compagnia ad illustri personaggi. Fra i quali fu il de Maisse nominato di sopra, tornato a Venezia nel 1595 col vescovo di Evreux, poi cardinale di Perron. Spediva questo prelato a Roma Enrico IV re di Francia onde trattare col papa la sua riconciliazione; ma ebbe ordine di fermarsi prima a Venezia a conferire col senato, coll’aiuto e interponimento del quale riuscì infatti nella sua missione. Ora il governo volendo onorare in lui il monarca che lo mandava, non credette di dargli migliori compagni del Sarpi e di Luigi Lollino suo amico, poi vescovo di Belluno, dotto grecista. Il quale Perron cervellino leggieri e sprezzante, come talvolta i Francesi sono, disse di avere trovato in Italia nissun dotto, eppure ve n’erano a quel tempo, alcuni: e del Sarpi parlando [p. 90 modifica]aggiunse che aveva molto spirito, che era un po’ più che frate; ma erudito niente. Il che era, come risponde il Morofio, negare la luce del sole, e che Frà Paolo non pur era un po’ più che frate, ma molto più che il cardinale.

Frà Paolo era estremamente sobrio. Pochi legumi, un poco di pane abbrostito e un bicchiere di vino bianco costituivano il suo pasto ordinario. Anzi vino non bebbe se non dopo i trent’anni; prima dei 55 non gustò quasi mai carne; poscia ne usò, ma in così scarsa misura che era meraviglia. Non mangiava mai in camera, neppure quando fu Consultore che aveva comodi, mezzi ed autorità di farlo; ma sempre in refettorio comune, e dalla comune cucina. Poco dava al sonno, le intiere notti passava allo studio in orazione, e stanco si gettava vestito sopra una cassa. Così poco logorava il letto che due paia di lenzuoli gli durarono oltre vent’anni e ne fu fatto espresso ricordo ne’ registri del convento.

Curava le mondizie della persona colla decenza di un filosofo e trascurava la eleganza del vestire colla gravità di un ecclesiastico, non con l’affettata sudiceria di un cinico. Non ebbe mai più di un abito, a tal che ove fosse caduto in acqua gli sarebbe convenuto aspettare che fosse asciutto per vestirsi. Nissun pensiero di sè, fidava nelle paterne cure di un buono e vecchio frate per nome Giulio, che lo amava sin da fanciullo; il quale riceveva dal convento i danari per vestimento e calzatura e biancheria, e a tempo lo provvedeva. Ei lo chiamava suo padre.

Fatto poi Consultore e fornito di generosi stipendi, non fu più di alcuno aggravio alla comunità, cui anzi sovvenne largamente del proprio. [p. 91 modifica]

Nella sua cella risplendette mai sempre la più rigida semplicità claustrale; e dopo morto, assai curiosi andati a vederla stupirono come un uomo, oggetto di tanti amori e di tanti odii, visitato da principi, liberalmente provisionato dalla repubblica, fosse vissuto così poveramente. Un letticciuolo, una cassa dove teneva le sue scritture e che spesso gli serviva da letto, un tavolino, una scranna, un crocifisso, un teschio umano, un quadretto rappresentante Cristo nell’orto, erano i soli mobili; i suoi libri, quelli del convento e i prestati o donati.

Avvegnachè i monaci facessero professione di umiltà, non hanno mai saputo esimersi dall’orgoglio dei titoli fastosi. Nella Tebaide e nella Siria, culla del monachismo, nacque l’uso di dare il nome di Abba padre ad ogni capo di comunità monastica, poi ad ogni monaco distinto, indi a tutti; ma i Greci mutarono questo titolo per un altro, Calogeros o buon vecchio, ancor più reverendo stante il rispetto che hanno i Levantini per la vecchiaia. In Occidente il titolo originario di abate restò ai capi del monastero, e la sua traduzione, cioè Padre, diventò comune a tutti i monaci. San Francesco non volle che i suoi seguaci si chiamassero Padri, ma Frati, che nella lingua italiana di quel secolo suonava fratelli; ma non perseverarono, nè guari andò che tutto il mondo fu pieno di padri che non erano mariti. La voglia di superbire sotto veste di umiltà aggiunse in appresso il titolo di maestro; a tal che ogni fraticciuolo che sapeva quattro parole di teologia si enunciava fastosamente un padre-maestro. Ma il Sarpi amante della semplicità, e da tali ridicoli [p. 92 modifica]orgogli abborrente, usò mai sempre, e dalla sua prima giovinezza, di denominarsi e sottoscriversi Fra Paolo veneto; nella guisa istessa che il buon papa Clemente XIV finchè fu frate non si chiamò nè si fece mai chiamare altrimenti che Frate Ganganelli. Nè è questo il solo punto di approssimazione fra que’ due grandi uomini, pari essendo stata in loro altresì la bontà dell’animo, la pietà spregiudicata e sincera, la schiettezza delle opinioni, l’odio alle divote puerilità, lo spirito di tolleranza, l’amore agli studi, il cuore vacuo da ambizioni, e il pensiero che si sublima al di là delle prevenzioni umane, e considera la religione non quale viene impicciolita da minute pratiche volgari, ma dalle grandi virtù che inspira e dagli innumerevoli effetti morali da lei prodotti nella società.

Frà Paolo non patì mai di essere ritratto, comunque grandi fossero le istanze fatte da principi e da eminenti personaggi e più specialmente dal suo amico Domenico Molino; quindi poca fede meritano le medaglie che si spacciano di lui, e sono menzogneri coloro che asserirono averne dal Sarpi medesimo ricevuto il ritratto. Nè l’avremmo senza lo zelo di Giorgio Contarini, patrizio veneto, che appena spirato il grand’uomo ne fece levare la maschera in gesso, poi la fece effigiare in tela, indi intagliare in rame, indi scolpire in madreperla; e o fosse gusto incontentabile del Contarini o difficoltà vera negli artisti ad esprimere i tratti caratteristici di quella maschia fisionomia, il generoso patrizio pensò anco a farlo scolpire in busto di marmo: ma ignoro se abbia dato esecuzione a quest’ultimo desiderio. [p. 93 modifica]

Ritratti di Frà Paolo intagliati sul rame ne girano vari, e diversi anco nelle forme; è imperciò difficile a scernere il migliore. Il dipinto in tela si crede quello che ora conservasi nella biblioteca di San Marco, attribuito a Leandro da Ponte, mezzo busto di grandezza naturale, e seduto. Lo sculto in madreperla, lavoro egregio di Gaspare Becelio, l’allievo migliore del celebre Sansovino, legato in forma di cammeo e ornato di preziosissime gioie appartenne lungamente a casa Molino; finchè disgemmato (s’intende) cadde in possesso della Marciana anzidetta dove tuttora si vede; e questa io ritengo la più somigliante effigie del Sarpi, quantunque l’erudito Emanuele Cicogna sentenzi in favore del dipinto in tela.

Frà Paolo era di statura comune, la testa aveva ben fatta ma all’avvenente del corpo, grossa; la fronte spaziosa, indizio di grandi pensieri, intersecata nel mezzo da grossa e ben distinta vena; le ciglia inarcate; gli occhi grandi, neri e vivaci, e nell’arcata orbicolare dell’occhio il frenologo Gall avrebbevi di leggieri ravvisato l’organo dei numeri; la vista acutissima sino a 55 anni quando cominciò a scapitarne da usare gli occhiali, non mai però alla messa, che i riti sapeva a memoria; il naso piuttosto grosso e lungo, ma ben fatto; rada la barba, ma senza deformità; graziosa la bocca, colorite le labbra; bei denti cui sempre conservò; bella sommamente la mano e le dita, ma grande quella e lunghe assai queste; il colorito tra il bianco e l’olivastro con qualche tintura di rossore. [p. 94 modifica]

Era magrissimo, comechè la mole della testa e la grossezza dei collo lo presentassero anzi muscoloso che no, e che l’abito fratesco nascondesse l’esilità del rimanente; ma sotto panni era sì stremo che pareva una testura di ossa. Gracile ancora la complessione: pativa spessi dolori di capo che degeneravano in febbri, talvolta anco lunghe; di ritenzione d’orina, infermità comune a’ letterati di troppo sedentaria vita; e di emorroidi che gli cagionarono una procidenza dell’intestino retto che qualche volta fu per troncargli la vita; ma si era fabbricato da sè uno strumento, col quale facilissimamente lo rimetteva a suo posto, dopo di che questa infermità molesta non gli recò più che un lieve disturbo. Prima del 1605 era così male andato di salute, che egli stesso contava ogni anno per l’ultimo, e tutti quelli che lo praticavano, non ne facevano giudizio diverso; ma succeduto l’affare dell’Interdetto, l’occupazione dello spirito congiunta a quella del corpo, il muoversi continuo, quell’andare ogni giorno o più volte al giorno dal convento al palazzo, una vita meno uniforme, un conversare più svariato, il trovarsi, benchè solitario, in un mondo di viventi e in mezzo ai grandi affari, e il carteggiare assiduo ora col governo, ora coi più grandi letterati d’Europa, gli restituirono talmente la buona salute che non patì più se non se pochi incomodi, ed una sol volta per innormale natura fu obbligato a letto.

Nelle malattie, come ancora negli abituali suoi acciacchi, era solito medicarsi da sè. Portava opinione che il consueto metodo di medicare con una [p. 95 modifica]subita e totale mutazione nel vivere e nelle azioni, e con tante purghe, non vale altro che a prolungare la convalescenza; e che, massime negli uomini di grave età, il tralasciare per molti giorni le azioni solite deteriorava di molto l’uso delle parti del corpo loro, e che il solo mettersi a letto mutando improvvisamente vitto ed occupazione era un volere ammalarsi. E perciò bisognava bene che il male fosse violentissimo perchè al letto potesse obbligarlo. Le sue medicine erano sostanze semplici, cassia, manna, polpa di tamarindo; o se composte, le preparava da sè. Del resto lo stesso genere di vita come in ogni altra occasione, e solo regolava la qualità degli alimenti dal più al meno; e se travagliato da febbre, solo nel forte degli accessi si sdraiava sopra la sua cassa. Con questo metodo severo seppe conservare ad un corpo gracile oltre a 70 anni di vita e resistere a lunghe vigilie e a studi faticosissimi. Quando infermo, anzichè avvilirsi o muover lamenti e querele, diventava più del solito ilare e giocoso, e le facezie gli abbondavano sì che moveva spesso i circostanti a riso.

Era dotato di una passibilità, o vogliam dire facoltà sensitiva, straordinaria: squisitissimi i suoi sensi; e specialmente il palato, non corrotto mai da cibi artificiali, sapeva distinguere tutti i sapori, di forma che era solito dire che di veleno non l’avrebbero ucciso. Infatti una volta gli fu recato nel refettorio del biscotto; il quale, assaggiato appena, rigettò, e le poche bricciole inghiottitegli cagionarono indisposizione per alcuni giorni. [p. 96 modifica]

Questa sensilità si estendeva sino alla memoria, in lui costante, tenacissima. Andato in un luogo una volta, si ricordava anco lunga pezza dappoi dei minimi oggetti vedutivi, e gli descriveva con tale minutezza come se ancora gli stessero sotto gli occhi. Uomini eruditissimi a Roma a studiare quell’emnporio di monumenti antichi che ivi si conservano, storia parlante dei secoli che più non sono, ebbero spesso a meravigliare di Frà Paolo nell’udirlo descrivere alcuno di quei monumenti, e ricordare particolarità sfuggite a meno attenti osservatori.

Perspicacissimo, e di rado erroneo ne’ suoi giudizi, sapeva conoscere a prima vista l’indole e l’ingegno degli uomini, e il suo occhio penetrativo e sagace s’inoltrava persino nelle più occulte intenzioni, e possiedeva in sommo grado l’artifizio di far parlare altrui, e in via d’interrogazioni obbligarli ad esternare i loro pensieri; il che egli usando l’espressione di Socrate, chiamava far da levatrice e aiutare altrui a partorire.

Parlava poco, udiva molto, più atto a scoprire gli intendimenti di altri che a rivelare i propri. Cogli stranieri al sommo guardingo, e più ufficioso che libero; ingenuo cogli amici, in ogni cosa modesto, e poco sopportatore di elogi, i quali benchè giusti lo facevano arrossire e lo imbarazzavano. Avverso ad ogni frivolezza, la sola vista del giuoco, anco di passatempo (cui stimava occupazione di talento avaro), gli dava noia. Ciò nulla ostante la sua conversazione era amena, il parlare sentenzioso e vibrato, e sparso a proposito di motti faceti, pieni [p. 97 modifica]di sale e di sentimento. Passava con molta facilità sopra ogni sorte di argomenti, il che doveva principalmente alla vastità delle sue cognizioni e alla sua profonda pratica delle cose e degli uomini. Parlava di tutto, ma sempre richiesto, non mai o di rado chiedente. La prontezza della sua memoria nel citare autori e tempi e testimonianze faceva ammirare persino i più destri. La sua eloquenza, tal quale nelle sue opere; più nei pensieri che nelle parole. Nella conversazione famigliare usava il dialetto natio; possiedeva perfettamente il latino, il francese, lo spagnuolo, il greco antico e moderno; nell’ebreo era profondo, nel caldeo più che mediocre, aveva pratica del dialetto rabbinico, e degli altri idiomi semitici aveva più o meno leggiera tinta. E con tanto sapere era così umile e così poco smanioso di farsi conoscere, che a chi già saputo non lo avesse, gli bisognava una lunga conversazione per misurare gli spazi infiniti abbracciati dal suo genio.

La continua pratica con principi e signori aveva dato alle sue maniere una certa dignità e non curata eleganza, che riusciva ancor più attraente sotto la modestia dell’abito e del discorso, e nella povertà della cella.

Era disinteressatissimo e praticava la povertà monastica, non apparente, fallace, insidiosamente avara, ma con lealtà evangelica. Roba, libri, danari, tutto ad uso comune; nulla custodiva, e lasciava che ciascuno pigliasse ciò che voleva. A chi prestanzava da lui diceva: Serviti, finchè io lo richiedo; e quando voleva rendere rispondeva: Non mi abbisogna per [p. 98 modifica]adesso, fanne ancora il piacer tuo. Non chiedeva restituzione, non verificava il restituito; i ringraziamenti sdegnava, i regali abborriva, solo a lui grato dono un libro fattogli dall’autore o da mano amica, o memoria di amico defunto. E a chi rimproveravagli tanta generosità, rispondeva: Imitiamo Dio e la natura che danno e non prestano. Per converso poco esigeva da altri e non chiedeva servizio senza, in quel miglior modo che potesse, rimunerarlo. Colla quale magnanimità si rese la delizia del suo convento, e l’amore di tutti che lo avvicinavano, ed era impossibile di trattare una volta con lui e non affezionarsi ad uomo che possiedeva sì alte virtù di mente e di cuore e faceva ogni sforzo per occultarle.

Austero per sè, sopportatore benigno degli altri, amava di sentirsi rimproverare i propri difetti e tosto dava opera ad emendarli. Con ciò giunse a cattivarsi una illimitata benevolenza de’ suoi confratelli che le sue parole tenevano in conto di oracoli, la sua presenza rispettavano come un santuario: amore tramandato da loro ai succedenti, e il nome di Frà Paolo divenne il più nobile orgoglio dei Serviti veneziani, e ancora ne serbavano pia rimembranza quando quel convento fu da Napoleone soppresso nel 1810.

Non fu mai veduto andare in collera, la calma del suo spirito non lo abbandonò mai neppure nelle più ardue circostanze. E benchè gaio e frizzante, era così ritenuto e grave che non che gli sfuggisse mai parola indecente, si astenne persino da quelle interiezioni famigliarissime al dialetto veneziano, [p. 99 modifica]alla fè, vi giuro da amico, e simili. Nel consigliare, non autorevole, ma insinuante, ed aveva l’arte diffile di far gradire i suoi consigli come se propri fossero di quelli a cui gl’indirizzava.

Che se fra tante perfezioni morali Frà Paolo non seppe esimersi da una tal quale acerbità avverso la corte di Roma, ciò vuol dire ch’egli ancora era uomo. E se i papi che si dicono santissimi e beatissimi e per soprassoma anco infallibili, nutrirono avverso di lui e si tramandarono come per fedecomesso un odio implacabile, come pretendere che un frate, con tutte le imperfezioni umane, dopo tanti torti, tante calunnie, tanti attentati contro la vita e l’onore dovesse essere più infallibile di loro? Chi ha meno ragione di accusarlo sono i Curiali, essi che mai non si stancarono di perseguitarlo vivo e di vilipenderne il nome e la memoria posciachè scese nel sepolcro. Aveva ragione Erasmo quando disse che Lutero non sarebbe mai stato un eretico se non toccava il ventre ai frati e la tiara al papa: due peccati che non si rimettono mai nè in questo secolo nè nel futuro. E Frà Paolo sarebbe stato un santo, avrebbe fatto miracoli, e sarebbe onorato di culto e di altari se non avesse scritto contro le pretese temporali de’ pontefici. Tanto è vero che in molti la religione non è altro che l’idolo delle loro passioni, e che se non esistesse un modello eterno per distinguere la virtù, troppo spesso sarebbe calunniata come specie del vizio.