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84 capo iv.

geva, quando poteva procurarsegli, e, scrivendo ai suoi amici ne diceva il parer suo: e acuta era la sua critica e laconica. Per esempio parlando delle Vite degli uomini illustri di Plutarco tradotte in francese da Giacomo Amiot reca il seguente giudizio: «Io mi trattengo a leggere Plutarco di Jaces Amiot che mi pare più bello di Plutarco stesso, e mi dolgo che non sii tradotto talmente da un Italiano (Non era ancora l’elegante traduzione del Pompei): siamo in gran mancamento senza quel libro. L’altro giorno feci un poco di comparazione con l’italiano del Gandino e col latino che abbiamo, così lontani da questi come la notte dal giorno. Si vede bene che il tradur non è solo di chi sappia ambedue le lingue; ma di chi sii trasformato nell’ingegno dell’autore».

Trascurò lo studio della lingua volgare, forse perchè i Toscani ne avevano fatto un monopolio e imbarazzatala di minute pedanterie grammaticali piuttosto che assodatala a regole costanti e filosofiche. Ma dopo che si accinse alla sua Istoria del Concilio Tridentino, gli venne il pensiero di crearsi una lingua sua propria italiana sì, ma una nuova, originale e più robusta di quella usata dagli altri scrittori di storie: attingendo le regole e la purezza del discorso non dai grammatici, ma dagli scritti di Machiavelli, Guicciardini, Varchi e altri buoni scrittori del Cinquecento; e le voci non dal Vocabolario della Crusca, surto appunto a quei tempi a tiranneggiare gli scrittori, ma dalla lingua usuale d’Italia, che non è invero così elegante come la toscana ma ha più nerbo e significazione.