Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Pisistrato solo.

Oh com’è l’uomo a variar soggetto!

Come si piega ad ogni soffio, a ogni urto!
Io quello fui che Farnabaze al trono
Invitò della Caria, ora son quello
Che la via tenta che deluso ei parta.
Ma chi ad Eumene immaginar poteva
L’onor ceduto del paterno impero?
Parve mai sempre di regnar gelosa
Artemisia dolente, e in mezzo ai pianti
La maestà non le spiacea del trono.
Or si cambia ad un tratto.... Ah chi mi accerta

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Che duri in donna il cambiamento un giorno?

Pentir si può, se il Persïan si parte,
E s’egli resta, ogni avventura è incerta.
Veglierò ad ogni evento. I miei disegni
Terrò celati ai più fedeli amici;
Che della rotta fè si lagna a torto,
Chi in sè l’arcano custodir non seppe.

SCENA II.

Eumene con Guardie, e detto.

Eumene. Ah consolati meco; la regina

Che non soffre minaccie e non le teme,
Del Perso in faccia e dei nemici ad onta,
Vuol di sua mano coronarmi il crine.
Pisistrato. Dove? Quando?
Eumene.   Nel tempio; ed a momenti
Compier dee la grand’opra; ordin mi diede
I ministri, i custodi, e queste guardie
Distribuir per sicurezza intorno.
Pisistrato. E Clorideo, cui appartiene il dritto
Del prim’onor degli ordini reali,
Non si scuote all’insulto?
Eumene.   Ei Farnabaze
Ad onorare e a coltivar si è dato.
Lungi tuttora dal real palagio
Stassi col Perso, e la regina impone
Che altri supplisca al primo ministero.
Pisistrato. Puoi disporre di me.
Eumene.   Sì, sta in mia mano
Sceglier colui che dall’altar fumante
Prender dee la corona ai piè del Nume
Da Artemisia deposta, e alla mia fronte
Offrirla in nome degli Dei, del regno.

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Va, prepara le vittime e gl’incensi,

Ardano l’are, e di Sabei profumi
S’empia l’aere d’intorno. I sacerdoti
L’auree tiare ed i gemmati arnesi
Vestan pomposi, e d’oricalchi il suono
Gii spettatori alla grand’opra inviti.
Pisistrato. Ubbidita sarai. Lascia ch’io possa
Darti primiero di regina il nome,
E la destra baciar che dee lo scettro
Stringere e regolar di Caria il freno.
A quest’atto solenne ah non ritardi
Succeder l’altro, che prometta al regno
Con le tue nozze il successor bramato.
Eumene. Oda il Cielo i tuoi voti.
Pisistrato.   Al trono ascesa
Non ti scordar di chi ti piacque un giorno.
Eumene. Farmi non dee la mia fortuna ingrata.
Pisistrato. Posso dunque sperar?
Eumene.   Colui disperi
Che non ha merto; il tuo bel cor m’è noto.
Pisistrato. Basta così; tanto di speme acquisto,
Che alimento non perde il cor bramoso.
Volo i tuoi cenni ad adempir. Seguite,
Guardie, i miei passi. Ah della Caria il fato
Fausto risponda ai tuoi desiri e ai miei.
(parte con le Guardie, ed entrano nel tempio

SCENA III.

Eumene sola.

Ma come in me questo desìo di regno

Nacque e crebbe in un punto! Io fino ad ora
Lungi fui tanto dal pensier del trono,
Quanto l’un polo dal contrario è lungi;

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Ed ora appena favellare intesi,

Già mio lo credo, e indugiar m’incresce.
Questo dir vuol ch’hanno lor prezzo i beni
Sol dalla nostra opinïon; che spesso
In distanza da noi si crede un peso
Quel che d’appresso conseguir ci alletta,
E sperato piacer d’impazïenza
Empie, e di brama e di timori il petto.

SCENA IV.

Artemisia con seguito, e detta.

Artemisia. Sì lenta Eumene ad eccitare all’opra

I ministri del tempio?
Eumene.   Il regal cenno
Or Pisistrato adempie. A lui la cura
Del grand’atto commisi. Entriam, regina.
Artemisia. Va, mi precedi. In ogni mio consiglio,
In ogn’opra, in qualunque alto disegno
Implorar soglio del mio re gli auspici;
Nè parto mai da quella tomba augusta
Senza una salda confidenza in seno.
Eumene. Oimè, regina, il consigliar con l’ombre
Empie sovente di fantasmi l’alma.
Artemisia. D’un german l’ombra sì oltraggiare ardisci?
Eumene. Perdona.... Ubbidirò.
Artemisia.   La principessa
Voi seguite nel tempio. (alle Guardie
Eumene.   (Ah voglia il Cielo
Non venga meno alla grand’opra il tempo).
(entra nel tempio, seguita da Guardie

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SCENA V.

Artemisia sola.

Oh dell’eterno imperscrutabil fato

Invisibile autor, manda dall’etra
Un di que’ raggi, che alle menti il lume
Recan divino e fan presaghi i cuori.
E tu, Mausolo mio, mio re, mio Nume,
(accostandosi al Mausoleo
Sposo mio, che ancor vivi entro al mio seno,
Parlami al core. Oh fortunato avello,
Oh tomba augusta che il miglior monarca
Della terra rinchiudi, i sacri marmi
Divota inchino e riverente io bacio.
Deh da quell’urna, dove il cener giace
Dell’amato signor, rapido emerga
Elisio spirto che il valor m’infonda
Del chiaro lume e del miglior consiglio.
Non mai sì incerto e sì tremante il piede
(si scosta dal Mausoleo
Mossi all’alitar. Si dee d’una corona
Giustamente dispor. Se a me la tolgo
Per donarla ad Eumene, adempio al dritto
Di natura, e a me tolgo inutil peso
Che il patrio regno ed il mio cor minaccia.
Ma se me stessa sollevar pensando,
Guido la suora dello sposo al trono,
E tolgo al figlio inavveduta il regno?
Viver Nicandro non potrebbe ancora?
Viver Nicandro? Qual lusinga insana,
Dopo tre lustri mi discende in petto?
Nol vidi, è ver, fra gli ultimi singulti
Spirar l’alma innocente. Serpere udissi
Tacito mormorio che amor tiranno,

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Per me salvar dal minacciato eccesso,

Movesse il padre ad esiliare il figlio.
Ma farei torto alla memoria illustre
Di un sì amabile re, qualor temessi
Stato gli fosse al sangue suo sì crudo.
Ma geloso il suo cor del mio destino
Non poteva fra i due scegliere il peggio,
Perdendo il figlio per salvar la sposa?
Se trovata mi fossi io nel cimento
Di dovermi privar di figlio o sposo,
Sul mio tenero cor chi vinto avrebbe?
Ahimè! nol so. Più che ragioni io cerco
Per disperar, più mi lusingo e tremo.
Ecco colui che (sia per arte o caso)
Mi risvegliò l’amara speme in seno.
(guardando fra le scene
E pur m’alletta il rivederlo in volto.
Quasi direi che di natura i moti
Presagissero in lui l’amato figlio....
Ma qual vana lusinga il sen m’ingombra?

SCENA VI.

Euriso e detta.

Euriso Regina, intesi un ragionar confuso

Che mi fa dubitar di tua salvezza.
Par che alcuno cospiri ad usurparti
La corona o la vita. In più d’un labbro
Senti il tuo nome risuonar con sdegno.
Per le vie, per le piazze, e fin nel centro
Della stessa tua reggia il popol misto
Unirsi io vidi e favellar segreto,
E alzar le mani e minacciar col guardo.
Credimi, avuto avrei coraggio in petto

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Per penetrar nei circoli sospetti,

E forzar il silenzio e far contrasto
A cento destre con la destra mia.
Ma il tuo cenno mi manca; e il tuo periglio
Temei, parlando, accelerare io stesso.
Pensai meglio avvertirti. Il tuo consiglio
Può regolar del mio coraggio i moti.
Eccomi; imponi pur. Co’ tuoi più fidi
Mandami, o solo a raffrenar gli arditi;
Versar son pronto in tuo soccorso il sangue.
Artemisia. Ah no, non nutre tal pensier uom vile.
Un pastore non sei. Mi celi il grado,
O a te stesso lo cela il fato avverso.
Sì, mel predice il cor. Tu sei...(Oh stelle!
Dove il labbro trascorre? Ah pria si cerchi
Qualche traccia più certa al mio sospetto).
Euriso Ma che pensi di me?
Artemisia.   Dimmi, tuo padre
Veramente è pastor?
Euriso   Da che l’etade
Sprigionò i sensi e la ragion confusa,
Vidi il mio genitor guidar gli armenti.
Visse in Corte, egli è ver, ne’ suoi prim’anni,
Ma in offizio volgare, e di sua sorte
Men contento di pria tornò alle selve.
Artemisia. Visse in corte Zeontippo?
Euriso   Ei stesso il disse.
Artemisia. Hai tu ragion di dubitar che ad arte
Figlio suo ti chiamasse?
Euriso   Un tal sospetto
Ingiurioso sarebbe al mio buon padre.
Vidi la culla che i primier vagiti
Dolce temprò dell’età mia nascente,
E le ruvide fasce e i tristi avanzi
Degl’innocenti puerili arredi.

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Artemisia. Tutto ciò non mi appaga. Ah dimmi, Euriso,

(Tremo nel domandarlo) hai conosciuto
La tua tenera madre? (dolente e con timore
Euriso   Ella ancor vive.
Artemisia. Vive la madre tua? (con agitazione
Euriso   Così la serbino
Lungamente gli Dei. Vive Lisaura,
Rustica sì, ma saggia madre e pia.
Artemisia. (Oh perduta mia speme! Oh folle inganno
Che sedur mi volea!)
Euriso   Di che t’affliggi?
Forse il nome di madre a te rammenta
Che ti tolsero i fati un sì bel nome?
Spera, chi sa?
Artemisia.   No, più sperar non voglio.
E tu, per quanto il mio favor t’è caro,
Non parlarmi mai più di madre o figlio.
Euriso Ti ubbidirò. Ma non negarmi almeno,
Che a tua pietade il grato cor risponda.
Lascia che al tuo periglio il braccio mio
Porga pronto riparo.
Artemisia.   Il tuo coraggio
Usa per altri, se ti punge il petto.
Voglion la mia corona? Altrui la cedo.
Vogliono il sangue mio? Mi si conceda
Spirar sull’urna del consorte estinto,
E il verserò senza schivare il colpo.
Euriso Ah no, regina, tollerar non posso
Che tu parli di morte. (con trasporto
Artemisia.   E qual t’accende
Disdegnosa pietà? Qual franco ardire,
Più di me stessa, de’ miei giorni ha cura?
Euriso Pietà m’inspira e mi fa ardito amore.
Artemisia. Amor? Tant’oltre un vil pastor si avanza?
Euriso Vile son io, se di viltade il nome

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Dassi al basso natal; vil non mi sento

Negli affetti del cor. Ti amo, o regina,
E chi può far che un pastoreli non t’ami?
Tu sei degna d’amor, d’amor capace
Mi crearo gli Dei. Può la distanza
Fra il tuo grado ed il mio far ch’io rispetti
Il tuo grado real, non ch’io non t’ami.
Di quest’amor che arditamente io svelo
Non sarò il primo che avvampar si senta,
E tu, se me dell’amor tuo degnassi,
L’unico esempio non saresti al mondo.
Artemisia. A me parli d’amor? La tua sovrana
Osi sperar d’una viltà capace?
Va, che indegno tu sei di mia clemenza;
Togliti al guardo mio.
Euriso   No, mia regina;
No, non temer che l’amor mio ti offenda;
Amo la gloria tua, darei per essa
La mia vita, il mio sangue. Amor ti chiedo
Di materna pietà; ti offro l’amore (tenero
Di vassallo fedel, di figlio umile.
Artemisia. Ohimè quegli atti! Ohimè la flebil voce
Dell’amante mio sposo udir mi parve.
Torna, torna a ridir.
Euriso   Comanda, imponi,
Tutto farò per te.
Artemisia.   No, acconcia il labbro
In più teneri modi.
Euriso   Ah non presumo
Oltre il dover, nè del favor mi abuso.
Basta che tu mi soffri, e darti io possa
Prove d’amore e di rispetto insieme. (come sopra
Artemisia. (No, non avea quel risoluto ardire
Il mio tenero sposo. Oh come tosto
Quello che brama il cor, lusinga il guardo!)

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SCENA VII.

Talete e detti.

Talete. A che tardi, o regina? Ardon gli altari,

Son le vittime pronte. I sacerdoti
D’odorosi bitumi han sparso il tempio.
Stassi Eumene tremante appiè del trono,
E il gran momento impazïente aspetta.
Artemisia. Di’, tu, quai furo i sagrifizj al tempio
Del mio Nicandro alla memoria offerti?
Talete. Fur quegli usati ad onorar gli estinti.
Artemisia. Del figlio mio che favellasti a Euriso?
Talete. Pianta avrò seco la comun sventura.
Artemisia. Che ti par? (ad Euriso
Euriso   Non intendo i detti oscuri.
Talete. (Ah il finger sempre è periglioso incarco).
Artemisia. Se ti salvino i Dei, svelami il vero. (a Talete
Talete. Invan, regina, ti lusinghi e peni.
Dietro l’ombra ten vai del figlio estinto,
E la cognata trascurar non temi?
Artemisia. Sì sì, l’atto si adempia, ed abbian cura
Della nuova regina i sommi Dei.
Euriso Deh perdona l’ardir. Di qual reina
Intendesti parlar?
Artemisia.   Non sai ch’Eumene
Devesi incoronar? Che dal mio trono
I prosontuosi pretensori arditi
Avvilir penso, e me sottrar dal vile
Insidïoso meditar degli empi?
Passi sul crin della donzella illustre
La corona di Caria. Al mio volere
Tutti non si opporran; contare io posso
Dieci amici per me contro un nemico.
Difeso è il tempio: la città, la reggia

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Son difese abbastanza. Il Perso audace,

Clorideo che il protegge, e i congiurati
Che macchinar la temeraria impresa,
Chinar dovranno al mio voler la fronte.
Scorre nel cor d’Eumene il regio sangue
Dell’adorato mio consorte estinto;
Questo Nume m’inspira, e la grand’opra
A dispetto de’ rei compier m’affretto.
(parte, ed entra nel tempio

SCENA VIII.

Talete ed Euriso.

Euriso Ah la regina al precipizio espone

Se stessa. Eumene, e la cittade e il regno.
Va, Talete, consiglia, anima e scuoti
Dell’infelice la ragione oppressa.
Talete. Vana è l’impresa, se fissato ha il chiodo,
E a far che chiuda alla ragion l’orecchio
Basta la falsa immagine sognata
Che da quell’urna esca il fatal consiglio.
Euriso La secondino i Dei. Deh tu frattanto
Che alla grand’opra la regina è chiusa,
La promessa rammenta, e il ricco avello
A me, se lice, penetrar concedi.
Talete. Non vuoi veder della reali funzione
L’apparato pomposo?
Euriso   Il cor mi sprona
A veder pria di Mausolo la tomba.
Talete. Va, tei concedo; ma all’uscir sii presto,
Che la regina ad isdegnar non s’abbia.
Euriso Brievi momenti impiegherò.
Talete.   Ti aspetto.
(Euriso 1 entra nel Mausoleo

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SCENA IX.

Talete solo.

Quanto più tratto il pastorel gentile,

Più di piacere al suo desir m’invoglio.
Nè strano è in me quest’amoroso incanto,
Se par che l’ami la regina istessa.
Porta taluno i fortunati auspicj
Di benefica stella in volto impressi;
E quindi avviene che ad amar siam mossi
Un più che l’altro; e sconosciuto oggetto
Sovente il cor di chi lo mira, impegna.
Ma dalla tomba sì veloce ei riede?

SCENA X.

Euriso e detto'.

Euriso Ahi qual terror, ahi quale orror m’ingombra!

Talete. Deh, che ti agita, Euriso? Il tuo coraggio
Ti abbandonò nei tetri luoghi oscuri?
Euriso Talete, ohimè! Qual tardo gel m’intesi
Invader l’alma sbigottita, attonita!
Sull’alterata fronte il crin rizzossi.
Tremar le membra, ed oscurossi il ciglio.
Credei morir; chieder voleva ai Numi
Pietà, soccorso, e balbettando il labbro
Articolare non sapea gli accenti.
Reggermi non potea; la mano incerta
Alla grand’urna vacillante adatto,
E sorger sento da quell’urna un foco
Che il gel discioglie e a sospirar m’induce,
E a forza spreme dalle luci il pianto.
Mi ritorna il vigor; ritento il varco,
Fuggo l’urna fatal, ma tremo ancora....

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E... oh Dio... non so che fia... mi manca il fiato.

Talete. Dir lo volea, che di un garzon lo spirto
Mal retto avria nella magione oscura.
La cupa tenebrìa, l’incerto lume
Delle pallide faci, i trofei sparsi
Dell’orribile morte, e più di tutto
L’animo forse dell’idea ricolmo
Di un re giacente fra que’ marmi in polve,
Alterato del sangue il corso usato,
In te produsse il non inteso effetto.
Euriso No, t’inganni, Talete; alma non chiudo
Debol cotanto, e mal accorta in seno.
Trattar coll’ombre, e non curar gli estinti
Saprei ben anco in mille tombe e mille,
E di morte sprezzar gl’insulti e il nome.
Per più forte cagion dal cener freddo
Emerse quel terror. Sentomi ancora
Gl’interni moti e l’agitato spirto
Altronde scosso che da vil timore.
Talete. Che pensi tu di così strani effetti?
Che ha che far con quell’urna un uom straniero?
Euriso No, straniero non son. Di Caria è parte
La remota mia terra. Il re ai vassalli
Padre è comune, e tutti noi siam figli.
Vede Mausolo estinto il regno oppresso,
Vede la sposa nel periglio estremo,
E la germana e il popolo suo fido
Ch’è vicino a perir. Da me richiede
Forse ciò che sperar dai servi ingrati
Reo costume gli vieta. Arder mi sento
D’alto desìo di segnalar miei giorni
Co’ miei trionfi, o col mio sangue almeno.
Andiam, Talete, a confortar nel tempio
L’una e l’altra regina. Il Ciel m’inspira,
Il Ciel sorgente del beato vero. (entra nel tempio

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Talete. Non mente il Cielo, è ver, quando favella,

Ma a chi capire il suo linguaggio è dato?
L’uom di saper soverchio ognor presume,
E l’uom sovente da ignoranza oppresso.
Gonfio d’orgoglio che alla sua mente addoppia2
La nera benda, nell’error s’immerge. (entra nel tempio


Fine dell’Atto Terzo.


Note

  1. Manca qui il nome nell’ed. Zatta.
  2. Così si legge nel testo.