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220 ATTO TERZO

SCENA VII.

Talete e detti.

Talete. A che tardi, o regina? Ardon gli altari,

Son le vittime pronte. I sacerdoti
D’odorosi bitumi han sparso il tempio.
Stassi Eumene tremante appiè del trono,
E il gran momento impazïente aspetta.
Artemisia. Di’, tu, quai furo i sagrifizj al tempio
Del mio Nicandro alla memoria offerti?
Talete. Fur quegli usati ad onorar gli estinti.
Artemisia. Del figlio mio che favellasti a Euriso?
Talete. Pianta avrò seco la comun sventura.
Artemisia. Che ti par? (ad Euriso
Euriso   Non intendo i detti oscuri.
Talete. (Ah il finger sempre è periglioso incarco).
Artemisia. Se ti salvino i Dei, svelami il vero. (a Talete
Talete. Invan, regina, ti lusinghi e peni.
Dietro l’ombra ten vai del figlio estinto,
E la cognata trascurar non temi?
Artemisia. Sì sì, l’atto si adempia, ed abbian cura
Della nuova regina i sommi Dei.
Euriso Deh perdona l’ardir. Di qual reina
Intendesti parlar?
Artemisia.   Non sai ch’Eumene
Devesi incoronar? Che dal mio trono
I prosontuosi pretensori arditi
Avvilir penso, e me sottrar dal vile
Insidïoso meditar degli empi?
Passi sul crin della donzella illustre
La corona di Caria. Al mio volere
Tutti non si opporran; contare io posso
Dieci amici per me contro un nemico.
Difeso è il tempio: la città, la reggia