Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Farnabaze e Lisimaco.

Farnabaze. Come? Sugli occhi a Farnabaze istesso

Del suo regno Artemisia ora dispone?
Lisimaco. Vedi, signor, di Alicarnasso il tempio,
Ove Artemisia di sua mano istessa
Di Eumene sopra il crin dee porre il serto.
Farnabaze. Tentisi penetrar... (in atto di avanzarsi verso il tempio
Lisimaco.   Lo speri invano.
Chiesi testè per altra via l’ingresso,
E negato mi fu. Da doppie guardie
Son difese le porte, e il tempio è folto
Di popol misto e di guerrieri armati.

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Farnabaze. Trovami Clorideo.

Lisimaco.   Questo fedele
Amico suo, che in suo poter fidando
Te mosse a dura, perigliosa impresa,
Or lungi teme dal desìo l’effetto.
Vede dal meditar quant’è diverso
Le macchine eseguir. Que’ stessi amici
Che promesso gli aveano armi ed armati,
Avviliti si sono, e, sia l’affetto
Per la loro regina od il timore
Di cader sotto a giusta ira possente,
La maggior parte altro partito ha preso.
Tardi prevede Clorideo dolente
De’ mal diretti suoi consigli il danno.
Pensa alla tua salvezza; ei queste chiavi
Per mia mano t’invia. S’apre con esse
Segreto varco in quella tomba ascoso,
E una porta dischiusa all’altra è guida,
Che può al periglio agevolar lo scampo.
Farnabaze. Non penso a fuga, ma a vendetta e strage.
(prendendo le due chiavi
Sia regina Artemisia o regni Eumene,
L’una e l’altra al mio piè dovrà deporre
Lo scettro e il vacillante diadema.
Lisimaco. Tu minacci, signor, fra’ tuoi nemici,
E al tuo periglio provveder non pensi?
Farnabaze. Va, Lisimaco, tosto, e i cenni adempi
Di uno, cui se tuo re mirar ti è dato,
Larga mercede alla tua fede avrai.
Esci cauto all’aperto. I miei guerrieri
Sparsi ad arte in più luoghi al piano e al monte
Raccogli, unisci, e al declinar del sole
Movano il piè d’Alicamasso ai muri.
Io cinquecento che introdur potei
Col falso nome di compagni e servi,

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Col favor della notte a quattro, a dieci,

Venir farò della gran porta intorno.
Assalita la guardia, aperto il varco
Entrar potrà l’esercito raccolto,
Ed io medesmo, nei maggior perigli
Guiderò l’oste fra le stragi e il sangue.
Lisimaco. Ma perdona, signor...
Farnabaze.   Vanne, eseguisci.
Lisimaco. (Oh infelice condizion de’ servi,
Un tradimento a favorir costretti!) (parte

SCENA II.

Farnabaze solo.

Questa si tenti risoluta impresa;

Ma l’altra pur non si abbandoni. Amore
Tra gl’insulti e gli sdegni in me non langue.
Amo la donna per affetto insana,
Che disprezza fortuna, odia la vita,
E cede un regno per seguire un’ombra.
La passione che l’opprime è degna
Più di pietà che di vendetta, e provo
Dolor, usando violenza seco;
Ma se ostinata le ripulse adopra,
A che gettar della clemenza i doni?1
Invan sperai, del giovane pastore
Per me piegasse la regina ai voti.
O far nol seppe, o m’ingannò l’audace,
O non prestogli la superba orecchio.
Si pentirà chi d’abusare ardisce...
Escon le guardie. Il mormorio festoso
L’atto fatal già consumato addita.

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Ma qual pro? Vendicar saprò gl’insulti

E strappar la corona ove io la trovi.
Giovi per ora d’apparente calma
L’ira coprir. Veggasi con qual fronte
Artemisia m’incontra, e qual costanza
Della nuova regina animi il petto.
(si ritira in un canto della scena

SCENA III.

Artemisia preceduta da Guardie e Popolo, conducendo Eumene alla dritta, seguitate 2 da Pisistrato ed Euriso, e Farnabaze in disparte.

Artemisia. Arresta il passo, e a quella tomba. Eumene,

La fronte inchina e rinnovella3 i voti.
Prendi del regno i fortunati auspicj
Da quell’anima grande. Ella t’infonda
E giustizia e pietà, virtù gemelle,
Dai Numi elette a regolar gl’Imperi.
E voi popoli, amici, e voi del regno
Ornamento, decoro, e braccio e scudo,
Ecco in Eumene la regina vostra,
L’unica erede del monarca estinto.
Rispettate quel sangue a voi sì caro,
Amate lei con quell’amore istesso
Che me soffriste di regnar mal paga.
Ecco che i voti della patria udendo,
Dar puote al trono il successor bramato,
E s’io finor per mio destin niegando
Prestar orecchio alle odiate nozze,
Fui de’ torbidi vostri aspra cagione,
Un merto almeno il rinunziar mi acquisti
A sì degna regina il nome e il grado.

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Eumene. No, tu non perdi di regina il nome,

Nè il grado eccelso, nè il poter sovrano.
Cedesti a me della corona il peso,
Non la gloria e l’onor. Tu regnar devi
Sul trono e sul mio cor. Qualunque sposo
Il tuo consiglio o il tuo voler mi doni,
Divider dee con due regine il serto.
Nulla il dritto di sangue o di natura
Varrebbe in me, se l’amor tuo non fosse
Prodigo in mio favor. Conosco il dono,
Grata ti sono, e lo sarà. Le leggi
Prenderò dal tuo labbro. I miei vassalli
Sol da sì grande protettrice avranno
E le grazie e gli onori. A te si aspetta
Il comandar, mio l’eseguir fia sempre.
Artemisia. Questa bella umiltà non far che scemi
Con l’uso di regnar. Serbala intatta
Non per me sola, ma pe’ tuoi vassalli;
Chè la superbia ogni grandezza oltraggia,
E l’umiltate ogni altro pregio abbella.
Pisistrato. Dubbioso è sempre, se più gloria acquisti
Chi cede il trono, o chi l’accetta umile.
Euriso L’una e l’altra virtù d’applauso è degna.
Farnabaze. Lice recar da uno straniero omaggio (avanzandosi
Di due regine al maestoso aspetto?
Artemisia. Principe, a che venisti? a far maggiore
Con la presenza tua la regal pompa,
O a lagnarti di me? Nel primier caso
Grata ti son di tua bontà; nell’altro
Scusa ti chiedo, se di usar mi piacque
La potestà, che mi han concessa i Numi.
Non rispondi, signor? Sarebbe forse
Un’occulta minaccia il tuo silenzio?
Se tal pensi, t’inganni. Osserva, osserva:
Questo che miri è il novero minore

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Di color che giuraro ai Numi in faccia

Obbedienza alla regina Eumene.
Avvezza è Caria a rispettar chi regna,
E chi d’interna ribellion ti parla,
Credi, invan ti lusinga, e al debil voto
D’Alicarnasso non vacilla il trono.
Farnabaze. Male finora interpretasti i moti
Del mio piè, del mio cor. Nè van desìo
Guidami a te d’encomiar tal atto,
Nè pensier di lagnarmi, e molto meno
Quello di minacciar. Lo sai ch’io t’amo,
Nè pon gl’insulti cancellar l’affetto.
Quella corona che dal crin ti togli,
Non scema in te nè la virtù, nè il vezzo;
Questo è il regno che io cerco. Il tuo bel core
Vale del mondo a equiparar l’impero.
Artemisia. Grande è la tua bontà. Maggior sarebbe
Se non fosse sospetta.
Farnabaze.   Chi mal pensa,
Ragione in sè del rio pensar ritrova.
Sai che tu m’insultasti; un cuor non vile
Atto non credi a sofferire i torti,
E l’ira temi, ch’eccitar ti piacque.
Ma fra sdegno ed amore ho il cuor diviso.
L’un vendetta mi chiede, e l’altro tenta
Disarmar le giust’ire. Io non so dirti
Qual de’ due vincerà.
Artemisia.   Vinca chi puote,
L’amor non curo e l’ire tue non temo.
Farnabaze. Ti pentirai del tuo soverchio orgoglio.
Artemisia. Olà, rispetta le persone e il loco.
Farnabaze. Taccio per or; ma il mio tacer ti accresca
La ragion di temer. Soverchio, il vedo,
Di un ospite è l’ardir, ma in me perdona
L’amor, lo zelo, la verace brama

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Di vederti felice, e il timor giusto

Che su te cada la rovina estrema.
Odimi; forse l’ultima ora è questa,
Che parlo amico d’Artemisia in faccia:
Mi soffristi abbastanza. Al nuovo sole
Non sarò qual mi vedi. Addio, regina;
Se il fulmin cade che nell’aria pende,
Non dolerti di me, nè del destino. (parte

SCENA IV.

Artemisia, Eumene, Pisistrato, Euriso, Guardie e Popolo come sopra.

Euriso Fa che s’arresti il temerario audace, (ad Artemisia

Artemisia. La ragion delle genti oltraggiar vieta
Ospite, ancor nemico.
Euriso   Ah, chi ti accerta
Ch’egli usi teco d’onestate il dritto?
Artemisia. Vegliate, amici, alla comun difesa.
Tu vanne, Eumene, ad occupar la reggia,
Che impaziente rivederti aspetta.
Eumene. Reggi tu i passi miei.
Artemisia.   No, mi precedi.
Tua sia la pompa, e il popolo a te sola
Alzi le grida e gli amorosi voti.
Sia Pisistrato teco; ei non mi sembra
Compagnia a te discara.
Eumene.   A me fia sempre
Caro quel che a te piace. Il merto, il pregio,
Con la tua stima e il tuo voler misuro.
Pisistrato. (Le mie speranze non tradisca il fato).
Artemisia. Precedetela, guardie; e voi, servite
(a’ Grandi del regno i quali con le Guardie si pongono in marcia
Della vostra sovrana ai regal cenni.

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Eumene. Deh, non mi abbandonar. Consiglio, aiuto

Porgimi nel grand’uopo. Ah come tosto
Apprende il cor della grandezza il peso!
(parte, seguita da Pisistrato

SCENA V.

Artemisia ed Euriso.

Artemisia. Non segui tu della regina i passi?

Euriso Non apprezza un pastor chi sale al trono.
Artemisia. Un pastor vago d’ammirar grandezze,
Può dilettar nella corona il guardo.
Euriso Te sol miramdo il mio desir si appaga.
Artemisia. In me non vedi che un lugubre oggetto
Di pietà, di dolor.
Euriso   Veggo ed ammiro
Una donna regal, che più del trono
Del proprio cor la libertade apprezza.
Veggo un’anima grande ad opre intenta
Di pietade, d’amor. Veggo un esempio
Di costanza e di fè. Chi veder brama
Sogli, scettri, grandezze, e gemme ed oro,
Nel vasto mondo può saziar il guardo;
Ma chi di gloria e chi d’onor si pasce
Vegga Artemisia, e la virtute onori,
Artemisia. Guardie, attendete sulle soglie il cenno.
(le Guardie si allontanano
Mi ami, Euriso?
Euriso   Tel dissi.
Artemisia.   Hai tu coraggio
Di assicurarmi dell’amor che vanti?
Euriso Imponi pur. Che non farei, regina,
Spinto dal sommo rispettoso affetto?
Artemisia. Odi il mio cenno, e ad obbedir ti appresta.

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Se ti cale cambiar capanna umile

In più comodo tetto, e miglior sorte
Procacciare a te stesso, e all’umil padre
E alla tenera madre, agio bastante
Offroti in questo regno, e se d’onori
Vago tu sei, non mancheratti un fregio.
Ma dei sfuggir di rivedermi in volto,
Non far più che io ti miri; a questo patto
Il mio favor, la tua fortuna eleggi.
Euriso Sì, regina,-l’intendo, e il tuo comando
Più che dolente mi può far superbo.
Tu mi scacci da te perchè mi temi,
E il tuo timor di tenerezza è figlio.
Ti ubbidirò, ma al cenno tuo permetti,
Che un maggior freno a me medesmo aggiunga.
Se in Corte io resto, il mio rispetto espongo
A colpevole azzardo. Il caso, il fato,
E l’audace mio cor violar potrebbe
Il divieto regal. Per esser grato
Ai doni tuoi, di ricusarli è forza.
Partirò dalla reggia; al patrio albergo
In umil stato finirò i miei giorni,
E più degli agi e degli onori offerti
Fiami caro il saper che tu mi amasti.
Regina, addio.
Artemisia.   Fermati; invan pretendi
Interpretar del mio comando i sensi.
Euriso E tu invano celar pretendi il core.
Artemisia. Ardito sei se per te amor presumi.
Euriso Ebben, non m’ami? Il mio partir concedi.
Artemisia. (Che turba, oh Dio! di sconosciuti affetti
Ma si affolla nel cor!)
Euriso   Rendi la calma
Al tuo spirto, o regina. Audace troppo
Tentai finor d’indebolirti il core.

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Lascia che io paghi dell’ardir la pena.

Dirti non so se alla capanna in vita
Giunger farammi il mio dolor. Ma certo
Son di morir se, qui restando, io deggio
Viver senza mirarti. Ah non prometto
Ubbidirti, regina. Il cor talvolta
Sai che disprezza di ragion l’impero.
Deh permetti che io parta; e se dubbiosa
Ti trattien forse un importuno affetto,
Volgi lo sguardo a quell’illustre avello,
E a regolar i tuoi consigli impara.
Artemisia. (Alza gli occhi al Mausoleo, sospira, poi sostenuta dice:
Vanne.
Euriso   Lode agli Dei. Sciogliesti alfine
La sentenza fatal dal cor, dal labbro.
Permetti almen... (vuol baciare la mano
Artemisia.   No, quell’avello illustre
Il consiglio mi addita. Addio per sempre.
(Si accosta al Mausoleo, a cui si appoggia con la mano e col capo, non mirando più Euriso.
Euriso Facciasi core. Una regina insegna
I propri affetti a superar. Pietosi
La proteggano i Dei. Scemi lo stame
A’ miei giorni la Parca, e a lei lo accresca.
Perano i suoi nemici; arte non vaglia,
Nè forza ostil per atterrirla. Invano
Fremano i rei vassalli, e in pace miri
Frutto dell’amor suo regnare Eumene.
Numi, udite i miei voti. Il duolo atroce
Che l’afflisse finor termini o scemi,
E non fia mai che a rattristarla arrivi
La memoria di me, sia vivo o estinto. (parte

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SCENA VI.

Artemisia, poi Talete.

Artemisia. (Dopo qualche tempo ch'è partito Euriso, si va movendo; poi nel rivolgersi:

L’aere di lui più risuonar non sento.
Chi sa mai se partì? Stelle! Nol veggo.
Scevra, lode agli Dei, dal mio periglio,
Non sentirò rimproverarmi il core.
Ma che sì tosto abbandonato ei m’abbia?
Noi credo ancor. Forse nel tempio entrato
E a pregare gli Dei ch’io cambi il cenno.
Olà, custodi. (chiama verso il tempio
Talete.   Al tuo voler son pronto.
Artemisia. Vedesti Euriso?
Talete.   Da che teco è uscito,
Nol vidi più.
Artemisia.   Non entrò or or nel tempio?
Talete. No, di ciò ti assicura.
Artemisia.   Ah l’infelice
Miseri giorni ad incontrar sen vola.
Talete. Dunque Euriso, o regina...
Artemisia.   Ah sì, partìo,
E il crudel cenno dal mio labbro è uscito. (piangendo
Talete. Ed un rozzo pastor ti muove al pianto?
Artemisia. Tu non conosci in quelle rozze spoglie
Qual’alma grande abbian locato i Dei,
Nè sai tu quanto a sua virtute io debba.
Ah mio sposo, ah mio re, fra quanti il duolo
(verso il Mausoleo
Sacrifici ti feo, questo è il maggiore.
Deh tu l’accetta dall’amor di sposa,
E all’innocente passion perdona. (parte

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SCENA VII.

Talete, poi Zeontippo.

Talete. Qual mistero in que’ detti? Io non intendo

Della regina il ragionar confuso.
Scoperto ha forse in un pastor ignoto
Qualche arcano celato? Oh Dei! Sarebbe
Nicandro? il figlio suo? Ma se tal fosse,
Perchè scacciarlo crudelmente? Avrebbe
L’oracol forse paventato in esso?
Mille ho sospetti, e non ne abbraccio alcuno.
Ma il sol sen vola all’occidente in seno,
E la regina, or che la notte imbruna,
Tardar non deve ai sacrifizi usati.
Cercherò s’ella torna... Un vecchio parmi
Tentar dell’atrio penetrar le soglie.
Eccolo ch’ei s’avanza.
Zeontippo.   Oh provvidenza
Dell’eterno motor, fa ch’io rinvenga
Lo smarrito garzon.
Talete.   Sì tardo al tempio?
Zeontippo. Tardo non fora il mio venir, se i Numi
Han de’ miei voti e del mio duol pietade.
Talete. Qual sventura ti opprime? (a Zeontippo
Zeontippo.   Il caro figlio,
L’unico mio conforto, all’umil tetto
Volse rapido il tergo, e me infelice
E l’afflitta sua madre in pianto, in lutto,
Mesti lasciò del suo destino in forse.
Le prime traccie del garzon fuggiasco
Mi additar le seconde, e a passo a passo
Qua giunsi alfin, dove trovarlo io spero.
Vasta è l’ampia città, declina il giorno;
Al nuovo sole rintracciarlo aspetto,

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E pria che il tempio ai peregrin fia chiuso,

Pietà mi sprona a venerar gli Dei.
Talete. (Nuova all’orecchio non mi par tal voce).
Zeontippo. Dimmi, è questa la tomba al nome alzata
Del Cario re dalla consorte afflitta?
Talete. Sì; che ti par? Potea con maggior pompa
Spiegar l’affetto e la real grandezza?
Zeontippo. Misera vanità! Cener coniuso
Sarà un giorno il gran re col vil pastore.
Talete. (Anche il sembiante riconoscer parmi).
Dimmi, qual nome ha il figlio tuo smarrito?
Zeontippo. Euriso.
Talete.   Euriso? Ah fossi tu qui giunto
Poco prima, buon vecchio! Il caro figlio
Stringer potevi fra le braccia.
Zeontippo.   Oh Numi!
Lo vedesti? Ti è noto?
Talete.   Il vidi, e seco
Usai pietà più che non credi. Ha un’alma
Sì gentile nel sen, sì dolce ha il tratto,
Che a sua volgar condizlon contrasta.
Zeontippo. (Oh amabile garzon!)
Talete. Qual’è il tuo nome?
Zeontippo.   Zeontippo.
Talete. Eppure io giurerei che il nome
Mentisce il padre, e l’ha mentito il figlio.
Zeontippo. E chi sei tu che sospettando insulti?
Talete. Son un che ti conosce, e la memoria
Dopo tre lustri non perdeo d’Aminta.
Impallidisci? Lo celarti è vano.
Zeontippo. (Assistetemi, o Dei).
Talete.   Talete io sono.
Guardami meglio, e in me colui ravvisa
Che a parte fu dell’amoroso inganno
Dal re tessuto alla dolente sposa.

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Zeontippo. La debil vista di vecchiezza è frutto.

Or ti ravviso. Ah mio Talete, il Cielo
Stanco tem’io di custodir l’arcano.
Nicandro è in Corte; lo conosci; il fato
Delle gelose nostre cure ad onta
Lo avvicina alla madre, e ai Dei non piaccia
Che il minaccioso oracolo s’avveri.
L’ha veduto Artemisia?
Talete.   Il vide, e parve
La sua pietade un amoroso incanto.
Zeontippo. Oh loquace natura! Oh forza ignota
Di recondito amor! Ma dove il prence
Ritrovare poss’io?
Talete.   Noi so; poc’anzi
La regina confusa Euriso pianse
Miseri giorni ad incontrar condotto.
Zeontippo. Numi, il tristo presagio ah non si compia!
Fin che lungi alla madre il figlio visse,
Fu remoto il periglio; or si avvicina
La temuta sventura; e quanto meno
Si conoscon fra lor, maggior può farsi
L’onta fatal del minacciato amore.
M’inspira il Ciel; vuo’ palesar l’arcano.
Riconoscansi entrambi, e il buon consiglio
Vaglia la forza ad evitar de’ fati.
Dove Nicandro rintracciar si puote?
Talete. La regina il saprà. Se l’uso adempie,
Verrà la tomba a visitar fra l’ombre
Della notte vicina. Al regio piede
Ti condurrò.
Zeontippo.   Vogliano i Dei pietosi
Che opportuno riparo a recar venga.
Talete. Vien meco al tempio, e narrami in qual guisa
Celar potesti per tanti anni il prence.
Zeontippo. Oh lagrimosa, miserabil vita

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Che la fede e l’amor menar mi fece!

Povera moglie mia, con quante cure
Il non suo figlio custodir s’indusse!
Quante inospite selve e alpestri balze,
Variando cammin per render vani
Gli altrui sospetti, trapassar convenne.
Per gir in parte ai cittadin più oscura!
Ma che giova ai mortali uman consiglio
Dove il destino inevitabil domina?
Nicandro è in Corte, e su nel Ciel sta scritto
L’occulto fin di questo nodo arcano.
(parte con Talete


Fine dell’Atto Quarto.


Note

  1. Nell’unico testo che abbiamo di questa tragedia, nell’ed. Zatta, manca qui il punto interrogativo.
  2. Così il testo.
  3. Nel testo: rinovella.