Artaserse/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA I
Giardino interno nel palazzo del re di Persia, corrispondente a vari appartamenti. Vista della reggia. Notte con luna.
Mandane ed Arbace.
Arbace. Addio.
Mandane. Sentimi, Arbace.
Arbace. Ah! che l’aurora,
adorata Mandane, è giá vicina;
e, se mai noto a Serse
fosse ch’io venni in questa reggia, ad onta
del barbaro suo cenno, in mia difesa
a me non basterebbe
un trasporto d’amor che mi consiglia;
non basterebbe a te d’essergli figlia.
Mandane. Saggio è il timor. Questo real soggiorno
periglioso è per te, ma puoi di Susa
fra le mura restar. Serse ti vuole
esule dalla reggia,
ma non dalla cittá. Non è perduta
ogni speranza ancor. Sai che Artabano,
il tuo gran genitore,
regola a voglia sua di Serse il core;
che a lui di penetrar sempre è permesso
ogn’interno recesso
dell’albergo real; che ’l mio germano
Artaserse si vanta
dell’amicizia tua. Cresceste insieme
di fama e di virtú. Voi sempre uniti
vide la Persia alle piú dubbie imprese;
e l’un dall’altro ad emularsi apprese.
Ti ammirano le schiere,
il popolo t’adora, e nel tuo braccio
il piú saldo riparo aspetta il regno:
avrai fra tanti amici alcun sostegno.
Arbace. Ci lusinghiamo, o cara. Il tuo germano
vorrá giovarmi invano. Ove si tratta
la difesa d’Arbace, egli è sospetto
non men del padre mio: qualunque scusa
rende dubbiosa alla credenza altrui
nel padre il sangue e l’amicizia in lui.
L’altra turba incostante
manca de’ falsi amici, allor che manca
il favor del monarca. Oh, quanti sguardi,
che mirai rispettosi, or soffro alteri!
Onde che vuoi ch’io speri? Il mio soggiorno
serve a te di periglio, a me di pena:
a te, perché di Serse
i sospetti fomenta; a me, che deggio
vicino a’ tuoi bei rai
trovarmi sempre e non vederti mai.
Giacché il nascer vassallo
colpevole mi fa, voglio, ben mio,
voglio morire o meritarti. Addio. (in atto di partire)
Mandane. Crudel! come hai costanza
di lasciarmi cosí?
Arbace. Non sono, o cara,
il crudel non son io. Serse è il tiranno;
l’ingiusto è il padre tuo.
Mandane. Di qualche scusa
egli è degno però, quando ti niega
le richieste mie nozze. Il grado... Il mondo...
La distanza fra noi... Chi sa che a forza
non simuli fierezza, e che in segreto
pietoso il genitore
forse non disapprovi il suo rigore?
Arbace. Potea senza oltraggiarmi
negarti a me; ma non dovea da lui
discacciarmi cosí, come s’io fossi
un rifiuto del volgo, e dirmi vile,
temerario chiamarmi. Ah! principessa,
questo disprezzo io sento
nel piú vivo del cor. Se gli avi miei
non distinse un diadema, in fronte almeno
lo sostennero a’ suoi. Se in queste vene
non scorre un regio sangue, ebbi valore
di serbarlo al suo figlio. I suoi produca,
non i merti degli avi. Il nascer grande
è caso e non virtú; ché, se ragione
regolasse i natali e desse i regni
solo a colui ch’è di regnar capace,
forse Arbace era Serse, e Serse Arbace.
Mandane. Con piú rispetto, in faccia a chi t’adora,
parla del genitor.
Arbace. Ma, quando soffro
un’ingiuria si grande, e che m’è tolta
la libertá d’un innocente affetto,
se non fo che lagnarmi, ho gran rispetto.
Mandane. Perdonami: io comincio
a dubitar dell’amor tuo. Tant’ira
mi desta a meraviglia.
Non spero che ’l tuo core,
odiando il genitore, ami la figlia.
Arbace. Ma quest’odio, o Mandane,
è argomento d’amor. Troppo mi sdegno,
perché troppo t’adoro, e perché penso
che, costretto a lasciarti,
forse mai piú ti rivedrò; che questa
fors’è l’ultima volta... Oh Dio, tu piangi!
Ah! non pianger, ben mio. Senza quel pianto
son debole abbastanza. In questo caso
io ti voglio crudel. Soffri ch’io parta:
la crudeltá del genitore imita. (in atto di partire)
Mandane. Ferma, aspetta! Ah! mia vita,
io non ho cor che basti
a vedermi lasciar: partir vogl’io.
Addio, mio ben.
Arbace. Mia principessa, addio.
Mandane. Consèrvati fedele;
pensa ch’io resto e peno,
e qualche volta almeno
ricòrdati di me:
ch’io per virtú d’amore,
parlando col mio core,
ragionerò con te. (parte)
SCENA II
Arbace, poi Artabano con ispada nuda insanguinata.
Arbace. Oh comando! Oh partenza!
Oh momento crudel, che mi divide
da colei per cui vivo, e non m’uccide!
Artabano. Figlio! Arbace!
Arbace. Signor.
Artabano. Dammi il tuo ferro.
Arbace. Eccolo.
Artabano. Prendi il mio: fuggi, nascondi
quel sangue ad ogni sguardo.
Arbace. (guardando la spada)Oh dèi! qual seno
questo sangue versò?
Artabano. Parti: saprai
tutto da me.
Arbace. Ma quel pallore, o padre,
quei sospettosi sguardi
m’empiono di terror. Gelo in udirti
cosí con pena articolar gli accenti.
Parla! Dimmi! Che fu?
Artabano. Sei vendicato:
Serse morí per questa man.
Arbace. Che dici!
Che sento! Che facesti!
Artabano. Amato figlio,
l’ingiuria tua mi punse:
son reo per te.
Arbace. Per me sei reo? Mancava
questa alle mie sventure! Ed or che speri?
Artabano. Una gran tela ordisco:
forse tu regnerai. Parti: al disegno
necessario è ch’io resti.
Arbace. Io mi confondo in questi
orribili momenti.
Artabano. E tardi ancora?
Arbace. Oh Dio!
Artabano. Parti; non piú: lasciami in pace.
Arbace. Che giorno è questo, o disperato Arbace!
Fra cento affanni e cento
palpito, tremo e sento
che freddo dalle vene
fugge il mio sangue al cor.
Prevedo del mio bene
il barbaro martíro,
e la virtú sospiro,
che perde il genitor.
Mentre Arbace canta l’aria, Artabano, che non l’ode, va sospettoso, spiando intorno ed ascoltando, per poter regolarsi a seconda di quello che veda o senta. Dopo l’aria, Arbace parte.
SCENA III
Artabano, poi Artaserse e Megabise con guardie.
Artabano. Coraggio! o miei pensieri. Il primo passo
v’obbliga agli altri. Il trattener la mano
sulla metá del colpo
è un farsi reo senza sperarne il frutto.
Tutto si versi, tutto
fino all’ultima stilla il regio sangue.
Né vi sgomenti un vano
stimolo di virtú. Di lode indegno
non è, come altri crede, un grande eccesso.
Contrastar con se stesso,
resistere a’ rimorsi, in mezzo a tanti
oggetti di timor serbarsi invitto,
son virtú necessarie a un gran delitto.
Ecco il principe: all’arte!
Qual’insolite voci!
qual tumulto!... Ah! signor, tu in questo luogo
prima del dí? Chi ti destò nel seno
quell’ira che lampeggia in mezzo al pianto?
Artaserse. Caro Artabano, oh quanto
necessario mi sei! Consiglio, aiuto,
vendetta, fedeltá!
Artabano. Principe, io tremo
al confuso comando:
spiégati meglio.
Artaserse. Oh Dio!
Svenato il padre mio
giace colá sulle tradite piume.
Artabano. Come!
Artaserse. Nol so. Di questa
notte funesta infra i silenzi e l’ombre
assicurò la colpa un’alma ingrata.
Artabano. Oh insana, oh scellerata
sete di regno! E qual pietá, qual santo
vincolo di natura è mai bastante
a frenar le tue furie?
Artaserse. Amico, intendo:
è l’infedel germano,
è Dario il reo.
Artabano. Chi mai potea la reggia
notturno penetrar? Chi avvicinarsi
al talamo real? Gli antichi sdegni,
il suo torbido genio avido tanto
dello scettro paterno... Ah! ch’io prevedo
in periglio i tuoi giorni:
guárdati per pietá. Serve di grado
un eccesso talvolta a un altro eccesso.
Vendica il padre tuo; salva te stesso.
Artaserse. Ah! se v’è alcun che senta
pietá d’un re trafitto,
orror del gran delitto,
amicizia per me, vada, punisca
il parricida, il traditor.
Artabano. Custodi,
vi parla in Artaserse
un prence, un figlio; e, se volete, in lui
vi parla il vostro re. Compite il cenno:
punite il reo. Son vostro duce; io stesso
reggerò l’ire vostre, i vostri sdegni.
(Favorisce fortuna i miei disegni.)
Artaserse. Ferma! Ove corri? Ascolta.
Chi sa che la vendetta
non turbi il genitor piú che l’offesa?
Dario è figlio di Serse.
Artabano. Empio sarebbe
un pietoso consiglio:
chi uccise il genitor non è piú figlio.
Sulle sponde del torbido Lete,
mentre aspetta riposo e vendetta
freme l’ombra d’un padre e d’un re.
Fiera in volto la miro, l’ascolto,
che t’addita l’aperta ferita
in quel seno che vita ti die’. (parte)
SCENA IV
Artaserse e Megabise.
Artaserse. Qual vittima si svena! Ah! Megabise...
Megabise. Sgombra le tue dubbiezze. Un colpo solo
punisce un empio e t’assicura il regno.
Artaserse. Ma potrebbe il mio sdegno
al mondo comparir desio d’impero.
Questo, questo pensiero
saria bastante a funestar la pace
di tutt’i giorni miei. No, no; si vada
il cenno a rivocar... (in atto di partire)
Megabise. Signor, che fai?
È tempo, è tempo ormai
di rammentar le tue private offese.
Il barbaro germano
ad essere inumano
piú volte t’insegnò.
Artaserse. Ma non degg’io
imitarlo ne’ falli. Il suo delitto
non giustifica il mio. Qual colpa al mondo
un esempio non ha? Nessuno è reo,
se basta a’ falli sui
per difesa portar l’esempio altrui.
Megabise. Ma ragion di natura
è il difender se stesso. Egli t’uccide,
se non l’uccidi.
Artaserse. Il mio periglio appunto
impegnerá tutto il favor di Giove
del reo germano ad involarmi all’ira.
(in atto di partire)
SCENA V
Semira e detti.
Semira. Dove, principe, dove?
Artaserse. Addio, Semira.
Semira. Tu mi fuggi, Artaserse?
Sentimi: non partir.
Artaserse. Lascia ch’io vada:
non arrestarmi.
Semira. In questa guisa accogli
chi sospira per te?
Artaserse. Se piú t’ascolto,
troppo, o Semira, il mio dovere offendo.
Semira. Va’ pure, ingrato: il tuo disprezzo intendo.
Artaserse. Per pietá, bell’idol mio,
non mi dir ch’io sono ingrato:
infelice e sventurato
abbastanza il ciel mi fa.
Se fedele a te son io,
se mi struggo a’ tuoi bei lumi,
sallo Amor, lo sanno i numi,
il mio core, il tuo lo sa. (parte)
SCENA VI
Semira e Megabise.
Semira. Gran cose io temo. Il mio germano Arbace
parte pria dell’aurora. Il padre armato
incontro, e non mi parla. Accusa il cielo
agitato Artaserse, e m’abbandona.
Megabise, che fu? Se tu lo sai,
determina il mio core
fra tanti suoi timori a un sol timore.
Megabise. E tu sola non sai che Serse ucciso
fu poc’anzi nel sonno?
che Dario è l’uccisore? e che la reggia
fra le gare fraterne arde divisa?
Semira. Che ascolto! Or tutto intendo.
Miseri noi! misera Persia!
Megabise. Eh! lascia
d’affliggerti, o Semira. Hai forse parte
fra l’ire ambiziose e fra i delitti
della stirpe real? Forse paventi
che un re manchi alla Persia? Avremo, avremo
pur troppo a chi servir. Si versi il sangue
de’ rivali germani, inondi il trono:
qualunque vinca, indifferente io sono.
Semira. Ne’ disastri d’un regno
ciascuno ha parte, e nel fedel vassallo
l’indifferenza è rea. Sento che immondo
è del sangue paterno un empio figlio,
che Artaserse è in periglio; e vuoi ch’io miri
questa vera tragedia,
spettatrice indolente e senza pena,
come i casi d’Oreste in finta scena?
Megabise. So che parla in Semira
d’Artaserse l’amor. Ma senti: o questo
del germano trionfa, e, asceso in trono,
di te non avrá cura; o resta oppresso,
e l’oppressor vorrá vederlo estinto:
onde lo perdi o vincitore o vinto.
Vuoi d’un labbro fedele
il consiglio ascoltar? Scegli un amante
uguale al grado tuo. Sai che l’amore
d’uguaglianza si nutre. E se mai porre
volessi in opra il mio consiglio, allora
ricordati, ben mio, di chi t’adora.
Semira. Veramente il consiglio
degno è di te; ma voglio
renderne un altro in ricompensa, e parmi
piú opportuno del tuo: lascia d’amarmi.
Megabise. È impossibile, o cara,
vederti e non amarti.
Semira. E chi ti sforza
il mio volto a mirar? Fuggimi, e un’altra
di me piú grata all’amor tuo ritrova.
Megabise. Ah! che ’l fuggir non giova. Io porto in seno
l’immagine di te; quest’alma, avvezza
dappresso a vagheggiarti, ancor da lungi
ti vagheggia, ben mio. Quando il costume
si converte in natura,
l’alma quel che non ha sogna e figura.
Sogna il guerrier le schiere,
le selve il cacciator,
e sogna il pescator
le reti e l’amo.
Sopito in dolce obblio,
sogno pur io cosí
colei, che tutto il dí
sospiro e chiamo. (parte)
SCENA VII
Semira.
Voi, della Persia, voi,
deitá protettrici, a questo impero
conservate Artaserse. Ah! ch’io lo perdo
se trionfa di Dario! Ei questa mano
bramò vassallo e sdegnerá sovrano.
Ma che? Sí degna vita
forse non vale il mio dolor? Si perda,
purché regni il mio bene e purché viva.
Per non esserne priva,
se lo bramassi estinto, empia sarei:
no, del mio voto io non mi pento, o dèi.
Bramar di perdere
per troppo affetto
parte dell’anima
nel caro oggetto,
è il duol piú barbaro
d’ogni dolor.
Pur fra le pene
sarò felice,
se il caro bene
sospira e dice:
Troppo a Semira
fu ingrato Amor. (parte)
SCENA VIII
Reggia.
Mandane, poi Artaserse.
Mandane. Dove fuggo? ove corro? E chi da questa
empia reggia funesta
m’invola per pietá? Chi mi consiglia?
Germana, amante e figlia,
misera! in un istante
perdo i germani, il genitor, l’amante.
Artaserse. Ah! Mandane...
Mandane. Artaserse,
Dario respira? o nel fraterno sangue
cominciasti tu ancora a farti reo?
Artaserse. Io bramo, o principessa,
di serbarmi innocente. Il zelo, oh Dio!
mi svelse dalle labbra
un comando crudel; ma, dato appena,
m’inorridí. Per impedirlo io scorro
sollecito la reggia, e cerco invano
d’Artabano e di Dario.
Mandane. Ecco Artabano.
SCENA IX
Artabano e detti.
Artabano. Signore.
Artaserse. Amico.
Artabano. Io di te cerco.
Artaserse. Ed io
vengo in traccia di te.
Artabano. Forse paventi?
Artaserse. Sí, temo...
Artabano. Eh! non temer: tutto è compíto.
Artaserse è il mio re; Dario è punito.
Artaserse. Numi!
Mandane. Oh sventura!
Artabano. Il parricida offerse
incauto il petto alle ferite.
Artaserse. Oh Dio!
Artabano. Tu sospiri? Ubbidito
fu il cenno tuo.
Artaserse. Ma tu dovevi il cenno
pivi saggiamente interpretar.
Mandane. L’orrore,
il pentimento suo
dovevi preveder.
Artaserse. Dovevi alfine
compatire in un figlio,
che perde il genitore,
de’ primi moti un violento ardore.
Artabano. Inutile accortezza
sarebbe stata in me. Fûro i custodi
sí pronti ad ubbidir, che Dario estinto
vidi pria che assalito.
Artaserse. Ah! questi indegni
non avranno macchiato
del regio sangue impunemente il brando.
Artabano. Signor, ma il tuo comando
li rese audaci; e sei l’autor primiero
tu sol di questo colpo.
Artaserse. È vero, è vero:
conosco il fallo mio;
lo confesso, Artabano, il reo son io.
Artabano. Sei reo! Di che? D’una giustizia illustre,
che un eccesso puní? D’una vendetta
dovuta a Serse? Eh! ti consola, e pensa
che nel fraterno scempio
punisti alfine un parricida, un empio.
SCENA X
Semira e detti.
Semira. Artaserse, respira.
Artaserse. Qual mai ragion, Semira,
in sí lieto sembiante a noi ti guida?
Semira. Dario non è di Serse il parricida.
Mandane. Che sento!
Artaserse. E donde il sai?
Semira. Certo è l’arresto
dell’indegno uccisor. Presso alle mura
del giardino real fra le tue squadre
rimase prigionier. Reo lo scoperse
la fuga, il loco, il ragionar confuso,
il pallido sembiante,
e ’l suo ferro di sangue ancor fumante.
Artabano. Ma il nome?
Semira. Ognun lo tace:
abbassa ognuno a mie richieste il ciglio.
Mandane. (Ah! forse è Arbace.)
Artabano. (È prigioniero il figlio!)
Artaserse. Dunque un empio son io! Dunque Artaserse
salir dovrá sul trono
d’un innocente sangue ancora immondo,
orribile alla Persia, in odio al mondo!
Semira. Forse Dario morí?
Artaserse. Morí, Semira.
Lo scellerato cenno
uscí da’ labbri miei. Finch’io respiri,
piú pace non avrò. Del mio rimorso
la voce ognor mi sonerá nel core.
Vedrò del genitore,
del germano vedrò l’ombre sdegnate
i miei torbidi giorni, i sonni miei
funestar minacciando; e l’inquiete
furie vendicatrici in ogni loco
agitarmi sugli occhi,
in pena, oh Dio! della fraterna offesa,
la nera face in Flegetonte accesa.
Mandane. Troppo eccede, Artaserse, il tuo dolore:
l’involontario errore
o non è colpa o è lieve.
Semira. Abbia il tuo sdegno
un oggetto piú giusto: in faccia al mondo
giustifica te stesso
colla strage del reo.
Artaserse. Dov’è l’indegno?
Conducetelo a me.
Artabano. Del prigioniero
vado l’arrivo ad affrettar. (in atto di partire)
Artaserse. T’arresta:
Artabano, Semira,
Mandane, per pietá nessun mi lasci:
assistetemi adesso; adesso intorno
tutti vorrei gli amici. Il caro Arbace,
Artabano, dov’è? Quest’è l’amore,
che mi giurò fin dalla cuna? Ei solo
m’abbandona cosí?
Mandane. Non sai ch’escluso
fu dalla reggia in pena
del richiesto imeneo?
Artaserse. Venga Arbace: io l’assolvo.
SCENA XI
Megabise, poi Arbace disarmato fra le guardie, e detti.
Megabise. Arbace è il reo.
Artaserse. Come!
Megabise. Osserva il delitto in quel sembiante.
(accennando Arbace, che esce confuso)
Artaserse. L’amico!
Artabano. Il figlio!
Semira. Il mio german!
Mandane. L’amante!
Artaserse. In questa guisa, Arbace,
mi torni innanzi? Ed hai potuto in mente
tanta colpa nudrir?
Arbace. Sono innocente.
Mandane. (Volesse il ciel!)
Artaserse. Ma, se innocente sei,
difenditi; dilegua
i sospetti, gl’indizi; e la ragione
dell’innocenza tua sia manifesta.
Arbace. Io non son reo: la mia difesa è questa.
Artabano. (Seguitasse a tacer!)
Mandane. Pure i tuoi sdegni
contro Serse...
Arbace. Eran giusti.
Artaserse. La tua fuga?
Arbace. Fu vera.
Mandane. Il tuo silenzio?
Arbace. È necessario.
Artaserse. Il tuo confuso aspetto?
Arbace. Lo merita il mio stato.
Mandane. E ’l ferro asperso
di caldo sangue?
Arbace. Era in mia mano, è vero.
Artaserse. E non sei delinquente?
Mandane. E l’uccisor non sei?
Arbace. Sono innocente.
Artaserse. Ma l’apparenza, o Arbace,
t’accusa, ti condanna.
Arbace. Lo veggo anch’io: ma l’apparenza inganna.
Artaserse. Tu non parli, o Semira?
Semira. Io son confusa.
Artaserse. Parli Artabano.
Artabano. Oh Dio!
Mi perdo anch’io nel meditar la scusa.
Artaserse. Misero! che farò? Punire io deggio
nell’amico piú caro il piú crudele
orribile nemico. A che mostrarmi
cosí gran fedeltá, barbaro Arbace?
Quei soavi costumi,
quell’amor, quelle prove
d’incorrotta virtude erano inganni
dunque d’un’alma rea? Potessi almeno
quel momento obbliar che in mezzo all’armi
me da’ nemici oppresso
cadente sollevasti, e col tuo sangue
generoso serbasti i giorni miei!
Ché adesso non avrei,
del padre mio nel vendicare il fato,
la pena, oh Dio! di divenirti ingrato.
Arbace. I primi affetti tui,
signor, non perda un innocente oppresso.
Se mai degno ne fui, lo sono adesso.
Artabano. Audace! E con qual fronte
puoi domandargli amor? Perfido figlio!
il mio rossor, la pena mia tu sei.
Arbace. Anche il padre congiura a’danni miei!
Artabano. Che vorresti da me? Ch’io fossi a parte
de’ falli tuoi nel compatirti? Eh! provi, (ad Artaserse)
provi, o signor, la tua giustizia. Io stesso
sollecito la pena. In sua difesa
non gli giovi Artabano aver per padre.
Scòrdati la mia fede, obblia quel sangue,
di cui, per questo regno
tante volte pugnando, i campi aspersi:
coll’altro, ch’io versai, questo si versi.
Artaserse. Oh fedeltá!
Artabano. Risolvi, e qualche affetto
se ti resta per lui, vada in obblio.
Artaserse. Risolverò, ma con qual core... Oh Dio!
Deh respirar lasciatemi
qualche momento in pace!
Capace di risolvere
la mia ragion non è.
Mi trovo in un istante
giudice, amico, amante,
e delinquente e re. (parte)
SCENA XII
Mandane, Semira, Arbace, Artabano, Megabise e guardie.
Arbace. E innocente dovrai
tanti oltraggi soffrir, misero Arbace? (da sé)
Megabise. (Che avvenne mai!)
Semira. (Quante sventure io temo!)
Mandane. (Io non spero piú pace.)
Artabano. (Io fingo e tremo.)
Arbace. Tu non mi guardi, o padre? Ogni altro avrei
sofferto accusator senza lagnarmi:
ma che possa accusarmi,
che chieder possa il mio morir colui
che il viver mi donò, m’empie d’orrore
il cor tremante e me l’agghiaccia in seno:
senta pietá del figlio il padre almeno.
Artabano. Non ti son padre,
non mi sei figlio;
pietá non sento
d’un traditor.
Tu sei cagione
del tuo periglio:
tu sei tormento
del genitor. (parte)
SCENA XIII
Arbace, Semira, Mandane, Megabise e guardie.
Arbace. Ma per qual fallo mai
tanto, o barbari dèi, vi sono in ira?
M’ascolti, mi compianga almen Semira.
Semira. Torna innocente, e poi
t’ascolterò, se vuoi:
tutto per te farò.
Ma, finché reo ti veggio,
compiangerti non deggio,
difenderti non so. (parte)
SCENA XIV
Arbace, Mandane, Megabise e guardie.
Arbace. E non v’è chi m’uccida? Ah, Megabise!
s’hai pietá...
Megabise. Non parlarmi.
Arbace. Ah, principessa!
Mandane. Invòlati da me.
Arbace. Ma senti, amico.
Megabise. Non odo un traditore. (parte)
Arbace. Oda un momento
Mandane almeno.
Mandane. Un traditor non sento.
(in atto di partire)
Arbace. Mio ben, mia vita... (trattenendola)
Mandane. Ah, scellerato! ardisci
di chiamarmi tuo bene?
Quella man mi trattiene,
che uccise il genitore?
Arbace. Io non l’uccisi.
Mandane. Dunque chi fu? Parla.
Arbace. Non posso. Il labbro...
Mandane. Il labbro è menzognero.
Arbace. Il core...
Mandane. Il core,
no, che del suo delitto orror non sente.
Arbace. Son io...
Mandane. Sei traditor.
Arbace. Sono innocente.
Mandane. Innocente!
Arbace. Io lo giuro.
Mandane. Alma infedele!
Arbace. (Quanto mi costa un genitor crudele!)
Cara, se tu sapessi...
Mandane. Eh! che mi sono
gli odii tuoi contro Serse assai palesi.
Arbace. Ma non intendi...
Mandane. Intesi
le tue minacce.
Arbace. E pur t’inganni.
Mandane. Allora,
perfido! m’ingannai,
che fedel mi sembrasti e ch’io t’amai.
Arbace. Dunque adesso...
Mandane. T’abborro.
Arbace. E sei...
Mandane. La tua nemica.
Arbace. E vuoi...
Mandane. La morte tua.
Arbace. Quel primo affetto...
Mandane. Tutto è cangiato in sdegno.
Arbace. E non mi credi?
Mandane. E non ti credo, indegno.
Dimmi che un empio sei,
c’hai di macigno il core,
perfido traditore!
e allor ti crederò.
(Vorrei di lui scordarmi
odiarlo, oh Dio! vorrei;
ma sento che sdegnarmi
quanto dovrei non so.)
Dimmi che un empio sei,
e allor ti crederò.
(Odiarlo, oh Dio! vorrei;
ma odiarlo, oh Dio! non so.) (parte)
SCENA XV
Arbace con guardie.
No, che non ha la sorte
piú sventure per me. Tutte in un giorno,
tutte, oh Dio! le provai. Perdo l’amico,
m’insulta la germana,
m’accusa il genitor, piange il mio bene;
e tacer mi conviene,
e non posso parlar! Dove si trova
un’anima che sia
tormentata cosí come la mia?
Ma, giusti dèi, pietá! Se a questo passo
lo sdegno vostro a danno mio s’avanza,
pretendete da me troppa costanza.
Vo solcando un mar crudele
senza vele e senza sarte:
freme l’onda, il ciel s’imbruna,
cresce il vento e manca l’arte;
e il voler della fortuna
son costretto a seguitar.
Infelice! in questo stato
son da tutti abbandonato:
meco sola è l’innocenza
che mi porta a naufragar.