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atto primo 113


Arbace.  Eran giusti.
Artaserse.  La tua fuga?
Arbace. Fu vera.
Mandane.  Il tuo silenzio?
Arbace. È necessario.
Artaserse.  Il tuo confuso aspetto?
Arbace. Lo merita il mio stato.
Mandane.  E ’l ferro asperso
di caldo sangue?
Arbace.  Era in mia mano, è vero.
Artaserse. E non sei delinquente?
Mandane. E l’uccisor non sei?
Arbace.  Sono innocente.
Artaserse. Ma l’apparenza, o Arbace,
t’accusa, ti condanna.
Arbace. Lo veggo anch’io: ma l’apparenza inganna.
Artaserse. Tu non parli, o Semira?
Semira.  Io son confusa.
Artaserse. Parli Artabano.
Artabano.  Oh Dio!
Mi perdo anch’io nel meditar la scusa.
Artaserse. Misero! che farò? Punire io deggio
nell’amico piú caro il piú crudele
orribile nemico. A che mostrarmi
cosí gran fedeltá, barbaro Arbace?
Quei soavi costumi,
quell’amor, quelle prove
d’incorrotta virtude erano inganni
dunque d’un’alma rea? Potessi almeno
quel momento obbliar che in mezzo all’armi
me da’ nemici oppresso
cadente sollevasti, e col tuo sangue
generoso serbasti i giorni miei!
Ché adesso non avrei,
del padre mio nel vendicare il fato,
la pena, oh Dio! di divenirti ingrato.