Libro 10

../IX ../XI IncludiIntestazione 16 giugno 2024 25% Da definire

Publio Cornelio Tacito - Annali (II secolo)
Traduzione dal latino di Bernardo Davanzati (1822)
Libro 10
IX XI
[p. 375 modifica]

LIBRO DECIMO

SOMMARIO

I. Onori a Claudio e Messalina per la britannica vittoria decretati. — II. Entra Claudio in trionfo a Roma. — III. Pubblica festa. — IV. Indecenti onori de’ liberti. — V. Vantaggiasi Roma in Bretagna mercè l'armi vittoriose di Plauzio e Vespasiano. — VI. Muore Agrippa. La Giudea di nuovo provincia. — VII. Acaia rimessa sotto i proconsoli: reso l'erario a’ questori. — VIII. Molte leggi utilmente, molte follemente cangiate. — X. Imprudente liberalità di Claudio a Cozio. — XI. Castigo de’ Rodiani. Umbonio Bilione cacciato di senato Fiera differita per capo di religione. — XII. Nei solenni giuramenti rimesso l'antico uso. Sminuita la copia delle pubbliche immagini. — XIII. Somma prudenza de’ maggiori nell’ergerle: somma ambizione degli ultimi anni. — XV. Ripressa l'avarizia de’ prefetti delle province. — XVI. Audacia dall’immensità delle leggi invigorita. Furor de’ parricidj. — XVII. Singolar editto sull’eclissi solare. — XVIII. Giuochi: Congiarìo. — XIX. Tiberio Alessandro reggente di Giudea. Izate re degli Adiabeni e sua madre Elena professano il giudaismo. XX. Izate in mezzo ai Romani e a’ Parti studia d’ambi gl’imperi tenersi in grazia. — XXII. Col [p. 376 modifica]favor de’ Parti ingrandito. — XXIII. Ermafrodito in Roma, da Claudio espiato. — XXIV. Lo scaro dal Carpazio introdotto in Italia. — XXV. Volatica portata d’Asia. — XXVI. Valerio Asiatico rinunzia al consolato. — XXVII. Ruina di M. Vinicio. — XXVIII. Folli disegni e castigo d’Asinio Gallo ch’agogna all’impero. — XXIX. Ardir dei liberti corretto; e la durezza de’ padroni. — XXX. Claudio, schiavo sfacciato delle libidini di Messalina. Laide brighe tra Mnestere e’l popolo. — XXXI. Tracia ridotta in provincia. Legazione di Taprobana. — XXXII. Occasion di tal ambasceria. — XXXIII. Costumi e usi dell’isola. — XXXV. Relazione de’ Seri; lor personale e traffico.
Anno di Roma dccxcvii. Di Cristo. 44.

Cons. L. Quinzio Crispino II e Marco Statilio Tauro.

An. di Roma dccxcviii. Di Cristo. 45.

Cons. M. Vicinio II e Tauro Statilio Corvino.

An. di Roma dccxcix. Di Cristo 46.

Cons. Valerio Asiatico II e Marco Giulio Silano.

I. Avea già Claudio spediti nunzj di vittoria i generi, Pompeo Magno e Silano. A Roma giunti, gli fu tanto più largo d’onori il senato, quanto da più anni principe vittorioso non vedea. Oltre il trionfo, giuochi annui decretò, due archi, in Roma e ’n Bologna a mare; a lui il titolo, al figlio il nome di Britannico. Poi, che Messalina, come già Livia, avesse il primo posto nel consesso, e gisse in cocchio. Oltr’a ciò, portati i Padri a questo [p. 377 modifica]governo in esecrazion del passato, decretaro si sciogliessero le medaglie di bronzo effìgiate in Caligola. Ma, come fondersi quel bronzo non sapesse die a vituperi, la statua ei fe’ di Mnestere Istrione, già per la confidenza di Caio, or per la lussuria di Messalina, infame.

II. Claudio intanto dal porto salpando di Santerno in un, anzi casone, che nave, emessosi nell’Adriatico, fu in Roma sei mesi dopo uscitone, sendo consoli Quinzio Crispino la seconda volta e Statilio Tauro. La città tutta fugli incontro: più reggenti di province, Legati, che recato aveano le corone d’oro, con certi esuli, per la pubblica gioia richiamati, a gran pompa il trionfante accolsero. Oltre all’usate feste, il carro seguì Messalina in cocchio, e i distinti con le trionfali per quella guerra: gli altri a piè, e ’n pretesta: Crasso Frugi in bardato palafreno, e veste fregiata a palma, per esser altra volta stato in simile onore. Al tempio di Giove Capitolino il vincitore ad esempio di Divo Giulio, salì in ginocchio gli scalini appoggiato a’ due generi, e depose in seno al Nume l’alloro.

III. Alla trionfal pompa s’aggiunsero l’allegrie de’ giuochi dal principe celebrati, toltane facoltà dal console, in due teatri insieme, in grazia del popolo. Promesso ben avea tante pugne di cavalli quante il dì ne capia; ma per la strage de’ leoni, lotte atletiche, balli alla moresca di garzoni d’Asia, non ve n’ebbe che dieci. Il più bel colpo per la rarità e dignità, fu l’espugnazione e ’l guasto d’una città, imitante la guerra e la resa de’ re britanni, in Campo Marzo, sendovi alla testa il principe in [p. 378 modifica]manto guerriero. Altri ludi dieder anco d’assenso del senato i deputati a’ teatri.

IV. Spettacoli in vero da principe, a non bruttarsi per onori de’ liberti; regalandosi Poside eunuco dell’insegne tra’ più forti in arme, come a parte della vittoria; permesso ad Arpocrate lettiga per Roma, e dar pubblici spettacoli; marciar prosunse tra’ due consoli Polibio; Narciso, e gli altri liberti per maggior ludibrio del favore, alla fortuna e al principato insultavano; e dal principe che soffria in pace, o anco vi consentia, ottenne Rufo Pollione, prefetto de’ pretoriani, ritratto e seggio tra’ senatori, sempre che Claudio in senato accompagnava; e a non offender colla novità, citava questi l’esempio d’Augusto che lo stesso a Valerio Ligure accordato avea. Più sdegno fe’ Lacone, già prefetto de’ vigili, or reggente delle Gallie, che oltre tali onori, alle consolari fu alzato.

V. Dell’amore o munificenza di Claudio preso il senato, della britannica guerra parla enfatico, ne celebra i fatti, provede all’avvenire; e per allettare a rendersi i nemici, legge emana: Che quanto fa Claudio o suoi Legati, qualunque lor ferma co’ Britanni, ratifica il senato e ’l popolo in perpetuo. Di ciò non vi era d’uopo con Plauzio, che da militar lòde e da sua dignità stimolato, le felici intraprese più felicemente proseguia: e associatosi a’ travagli e alla gloria Vespasiano, la parte limitrofa di Bretagna fe’ provincia: e a governare e a vincere, del pari sperto, colla religione e colle bell’arti que’ selvaggi fe’ bel bello umani.

VI. Or venne nuova che il sì mentovato re Agrippa, repente era morto. In grazia dell’antica amistà [p. 379 modifica]destinava Claudio a quel regno il figlio educato in Roma, a sè ben accetto. Nel distolsero i liberti, sotto vista d’incapacità nel giovane a pena fuor di pubertà. Tornò dunque provincia la Giudea, e mandossi a governarla Cuspio Fado; ma a non mostrarsi ad Agrippa ingrato o alieno da’Giudei, prese Claudio più amore al giovane Agrippa: ai Giudei compiacque, che ridomandavano sacra stola e corona; e a Marso di Siria prefetto, al morto re odioso, Cassio Longino sostituì, ordinandoli di vendicare i torti da’ Cesariensi e Sebasteni lor fatti. A Erode, re di Calcide, il tempio e’ suoi tesori, e ’l dritto di far i sommi pontefici, accordò: tutto diè in somma quanto suol principe che non fa da sè, d’altrui capricci ligio.

VII. Per la stessa licenza de’ liberti, o forse per ambizion del popolo o di lui stesso, che fama di popolare colla facilità affettava, rese Claudio al senato l’Acaia e la Macedonia da Tiberio a sè riservate. Poi, come i principi dappoco, più di cangiar dilettansi che di perfezionare, questa via anco alla gloria ei battè; è a’ camarlinghi rese la cura dell’erario di Saturno, da Divo Giulio data a’ pretori; e a famar gli antichi usi colla novità, due di quelli fe’ prefetti all’erario, con triennal corso, per indi passar tosto a’ pretori, o stipendio goder degno dell’operato. Tal giunta d’autorità compensò coll’abolir tutte prefetture fuor di Roma: per favorir insieme i pretori, certi giudizj lor permise de’ consoli propri; questi non reclamando, che la pristina dignità obliata, scansavan gli affari in ossequio al principe, e più alto mirando.

VIII. Meglio e più utilmente, a tor l’andirivieni [p. 380 modifica]de’ piati, fissò: Che le decisioni su’ fideicommissi ogn’anno, e sol in Roma delegarsi solite a’ magistrati, in perpetuo, e per le province anco, a’ tribunali si commettessero. Fe’ pur editto per la maestà dell’impero: Che di Roma e d’Italia fossero esclusi quei che lo erano da’ magistrati delle province. Ma senza esempio e contro la dignità di Roma alcuni Claudio stesso rilegò, si ch’escir non potessero tre miglia fuor di Roma qual se Roma, capo del mondo, sede dell’impero, comun patria di tutte nazioni, aversi potesse a castigo.

IX. Ma non era poi ciò che contro il pubblico decoro. Quest’altro fu un più grave sfregio alla repubblica, da far un giorno il certo suo tracollo; al violare la militar disciplina che sul piè antico e sul rigore poggia tutta. Da saggi i vecchi providero, d’allontanar dalla voluttà e dagli agi i militari; provando la soda esperienza, non esser mai essi più a morte pronti, che quando non usi a delicatezze; non che s’abrogasse la legge del celibato, ma loro accordaronsi i dritti di mariti; incentivo e sprone a libidine.

X. In altro più pronto rischio mettea Claudio lo stato, se non eran le Gallie a lusso e a servaggio prone, e non arridea fortuna, ai principi imprudenti talor amica, a’ prudenti no. Inteso già Divo Augusto che v’era dall’Alpi Cozie a temere per l’impervie rupi e scoscesi viottoli, alla sua amicizia Cozio re ammise, e l’obbligò a tal, che le rupi e le vie questi aperse: e aggiunte al suo dominio alcune città, volle anzi la prefettura esercitar da’ Romani conferitali, che dominar nel patrio regno. Il sano disegno sconcertò Claudio: nè sol rese a M. [p. 381 modifica]Giulio Cozio il regno, ma l’estese, aprendo a’ nemici assalti l’impero; se, morto il re, la perigliosa liberalità non correggea Nerone, l’Alpi Cozie facendo soggette.

XI. Tra tanti vituperi del governo, esempio pur videsi d’antico rigore; tolta a Rodiani, che colla croce a cittadini romani dier morte, la libertà; da loro, come alla colpa, a pentirsi facili, dopo alcuni anni, patrocinandoli Nerone, ricovrata. Men reo, più punito, fu Umbonio Silione, prefetto della Betica, coi Claudio, chiamato a Roma, rase del senato, a pretesto che bastante frumento non fornì alle truppe in guerra nella Mauritania: in realtà, perchè spiaceva a’ liberti. Ignorando che si volesse de’ suoi beni, l’immensa e ricca suppellettile subastò; ma venduta la sola senatoria veste, meravigliando che qui suo castigo restasse, privato, ma sicuro, godessi l’acquistate ricchezze. Si differì quest’anno la fiera per non turbar col tumulto de’ traffichi i riti sacri; riserva altre volte tenuta.

XII. Sotto i consoli M. Vinicio la seconda volta e Tauro Statilio Corvino, Claudio giurò al solito, dei principi: e l’antico uso rimise, che de’ pretori, tribuni di plebe, e altri collegi, un solo giurasse, non ciascuno. Ripresse poi l’uso delle pubbliche immagini cresciuto all’eccesso.

XIII. Sia dal nascer di Roma vedendo i maggiori che stimolo al bene sieno di virtù i ricordi, immortalarono con equestri e pedestri statue uomo o donna insigne, con a piè l’elogio, a ragguaglio dei posteri: istituzione di grand’uomini madre, ma dall’alterigia de’ magistrati guasta, che tronfi di lor grado, con vani titoli, di merito vóti, quella [p. 382 modifica]perpetuità di nome comperavansi; onde tante statue di ser bessi dier fuora, che fattasene una selva, virtù auggiavano, se M. Emilio e G. Popilio, la seconda volta consoli, i censori P. Cornelio Scipione e M. Popilio, tutte non toglieano circa il Fòro le statue degli usciti di magistratura, fuor dell’erette per sentenza del popolo o del senato.

XIV. Sul tracollar della repubblica, cresciuto il lusso, crebbe d’ignobil fama il farnetico. Sotto i Cesari in fine, arbitro un solo, e pochi in favore, nella sola Roma di tutto l’impero ridotte le fortune, non ebber fine statue e immagini; ergendosele ciascun de’ più vani e abili nell’intrigo coll’ultima sfrontatezza e ardire, non solo in lor case e cortili, ma in tempj, fóri, siti più esposti. Luogo non restando più quasi a virtù, decise Claudio: Si trasferisse altrove quell’immensità di statue ed effigie, nè alcuna pòi n’ergesse senza approvanza del senato; a’ soli risturatori d’antichi monumenti, o autori di nuovi, permesso di piantar ivi sue immagini e de’ suoi.

XV. Punissi l’avidità de’ governanti, vecchio tarlo, sordo a leggi, coll’esigilo d’alcun rettore di province, infame per regali presi, e subastandogli l’acquisti del governo. A non secondar la licenza per continue dignità, a non torre a’ popoli il dritto di querelar ingiustizie e violenze, volle Claudio che chi uscia di provincial prefettura non salisse tosto ad altr’onore: rimise pure l’abolite leggi, che i torti fatti da’ rettori si portassero in senato nè avesser questi scampo all’accuse e al rigor legale, per lunghi viaggi o altri rigiri. Nè pur agli assessori, se ben talora a due anni la carica prorogasse o destinasseli, permise aver tosto provincia. Fe’poi suo favore le vittovaglie fuor [p. 383 modifica]d’Italia solite chiedersi al senato; nel dominare più smodato, quanto men atto.

XVI. La folla delle nuove leggi scemò, qual suole, il rispetto, giunse ardire all’ardire. Fino i supplizj, per la frequenza, manchi d’orrore, furono sprone a peccato; nè lievi sol vizi; i più brutali furo comuni, e si familiare l’inaudita sin qui empietà de’ patricidj, che più in cinqu’anni ne cuci Claudio in sacelli di cuoio, che non ne conta in tutti secoli la storia. Calcolati i delitti, fu in bilico qual de’ due sessi vincesse; vinse il donnesco; più debole, più perverso se a spogliar viene la naturale umanità; e presi sotto Claudio, anzi a tutti i rei di veleno, e’ malefici, 45 uomini, 85 donne, furono giustiziati; insigne esempio, che fan più danno che utile le leggi, se gran’ prudenza non entri a comandare e a vietare; chè tolta vergogna si facilita il fallire coll’assiduo castigo: che tengonsi in briglia i popoli o co’ vezzi della virtù, o con poche leggi penali, ma d’infamia.

XVII. Altro editto di nuovo conio diè fuori, per tema di tumulto più che, in grazia delle lettere. Poiché temendo Claudio non avesse il popolo per infausto il suo natale, da futura eclissi, promulgò: „Il primo agosto s’oscurerà d’un quarto il sole, non per ira del cielo, ma per legge di natura, e per interposizion della luna; e questa aver pure la sua eclissi per l’interposizion della terra; pe’ moltiplici suoi giri l’un’e l’altra eclissi non esser a mese, ma venir certa la lor volta ogni dugenventitre mesi. Pubblicarsi tai leggi di natura note già a’ Greci, illustrate fra’ Romani dal dotto Sulpicio Gallo, nell’editto; perchè in quel meriggio d’impero e di scienze, di tenia sciolto, la natura conosca ognuno, senza [p. 384 modifica]paventar di portenti„. Insegnò tal editto parte d’astronomia; ma non bandì dal volgo la superstizione; e die’ a cianciare e ridere a’ curiosi de’ timori del principe.

XVIII. A dileguar quell’impressioni, valser meglio i celebrati giuochi, da Claudio promessi in voto nella guerra britannica; accrebber gioia suoi regali alla plebe, che prendea dal pubblico il grano, trecento nummi a testa; a certi più, a certi mille, e dugencinquanta. Parte Cesare, parte ne distribuirono i generi, per non far vacare a lungo i tribunali; più a ciò inteso, più che tutto era a soqquadro per la moglie e’ liberti, con lusso, libidine, ribalderie. Sul fin dell’anno rimise il dì de’ Saturnali aggiunto da Caio, poi omesso.

XIX. Nulla di notabile per le province. A Cuspio Fado, reggente di Giudea, successe Tiberio Alessandro, nato di padre giudeo, e di Alabarca in Alessandria; più a Roma attaccato, quant’era di sua religione apostata. Con pari gloria e utile della nazione quell’apostasia compensò Izate re degli Adiabeni, colla madre Elena, che si fer Giudei; poiché la nazione in grave fame soccorsero, Izate con oro, Elena con frumento, cavato d’Egitto e a’ poveri diviso.

XX. Celebre allor era Izate, tenentesi in mezzo agl’imperi, romano e parto; ma è da risalir al capo. Era questi succeduto al morto padre Monobazo, non come anzinato, ma come migliore; nè a sua quiete e sicurezza, sul barbaro stile, provide, uccidendo i fratelli; ma’co’lor figli spedilli, parte a Claudio in Roma, parte ad Artabano re de’ Parti; di rivali al trono per tal arte facendo staggi di pace. [p. 385 modifica]

XXI. Crebbe di fama Izate a sì umano accogliere Artabano, fuggiasco del regno, che in regno non suo, principe, anzi ch’esule, parea. Ma non piacendo a’ re mai tali scontri, fe’ a gran destrezza riabbracciar a’ Parti Artabano, oblio del passato promettendo e di prender sovra sé la pace. Aderiro; e Cinnamo, al soglio atto più che avido, cesse, per rassegnazione più che per impero illustre.

XXII. Grato ad Izate Artabano, al colmo il portò degli onori, e gli diè mitra dritta, e che dormisse in letto d’oro; prerogative della partica maestà. Al suo regno aggiunse anco il sì ampio fertil paese di Nisibi tolto al re d’Armenia. Così con disonore, trai Romani lusso e libidine; tra’ Barbari, nerbo d’impero e gloria.

XXIII. Ma a meglio far vedere di Claudio e di Roma la condotta, piacemi riferir d’un ermafrodito, veduto quest’anno in Antiochia al Meandro, e portato in Roma, che curiosamente quel mostro accolse. Ma per distornare i flagelli, Claudio in osservanze, come in leggi, eccedente, a Giove Averrunco erse ara in Campidoglio. In libidine Roma vinse la superstizione; e si fe’ un trastullo di quel ch’ebbe un dì per abbominevole, di nuovo genere di colpe superba.

XXIV. Ver quei dì con lodevol opra, se non era for di modo prono a lusso il costume, lo scaro, boccon ghiotto a’ più goditori, fu dal Carpazio trapiantato in Italia. In una man d’anni di cura, Ottato Eliperzio grande ammiraglio, tra le spiagge d’Ostia e di Campagna spargendolo, ne fe’ razza, che molto se ne pescava: e per tal seminare, nuovo [p. 386 modifica]cittadina a quel mar s’accrebbe, nuova leccornia alla gola.

XXV. Per non sembiar vinta natura, poco poi un Perugino, cavalier romano, questorio scriba, portò d’Asia la volatica, male ignoto sin là in Roma; il quale, come sdegnando donne e plebei, ne’ più distinti, delicati in lusso, al sol contatto d’un bacio radicava sì, che tutto il viso in molti copria, tranne gli occhi: scendea pel collo, petto e mani, con laida crosta, e con cicatrice del male più laida, in chi tollerar potè la caustica medicina egizia. Costante osservazion certo, che in vizj e morbi, quanto in agi e delicatezze, vantaggiato abbiamo.

XXVI. Furon consoli Valerio Asiatico la seconda volta, e M. Giunio Silano di dignità pari, non di grazia e averi. Silano a suo tempo usci di carica; Asiatico, se ben designato per tutto l’anno, rinunziò, esempio dato da altri, ma di poche fortune, e inabili alle spese dei giuochi circensi cresciute all’eccesso; ei però temea l’invidia nel primo consolato desta, per la grazia del principe, e l’immensa ricchezza, a torto; chè saper dovea, sospetta e mal sicura esser modestia nel colmo della sovrana grazia e delle dovizie, se invidia n’attacca; decorosi e sicuri i sommi onori se non eccedano.

XXVII. Messalina d’Asiatico nemica per invidia a suo sfoggiare, di sua possa contro lui fe’prova nella mina di M. Vinicio. Due volte console, di padre consolare, per Cesari affini, illustre, erale egli tanto più sospetto, ch’ei n’era leso per la morte a Giulia sua moglie data. Tema e furore accrebbe l’indarno tentata pudicizia. Ma giucò di veleno: e così alla sorda si disfece d’un uomo odiato insieme e [p. 387 modifica]diletto, di miglior tempi degno. Con pubblica pompa e panegirico celebrossi l’esequie; favore a molti in quell’età accordato; che d’umanità vota, con più zelo n’affettava la tinta.

XXVIII. Volle anch’ei tentar fortuna Asinio Gallo, d’alto legnaggio, ignobil viso, peggior indole. Principe, in sua idea, da acclamarlo tutti sì tosto che vaghezza ne mostrasse; pel chiaror del sangue fessi alla scoperta a mirare al trono. Ma nè oro, nè armi; e sol corrotti avea molti liberti, e schiavi, di Cesare. Non di morte, ch’avrebbe fatto nome all’attentato, ma d’esilio, a più beffe, quel Re di coppe punì Claudio; cui fe’ più onor tal sentenza, che quel suo diluvio di leggi.

XXIX. Con pari loda l’empietà de’ liberti, che contro i padrini della libertà abusassero, e la ferocia de’ padrini, se a torto usassero crudeltà, corresse; che tocco dall’ardir d’un liberto che il padrino accusò a’ tribuni di plebe, e contro lui chiese e ottenne birroviere; lui non solo, e quanti v’ebber mano castigò, ma a schiavitù tornò liberti ingrati, contro cui i padrini fean querela: e a’loro avvocati negò di proferir verso i lor liberti sentenza. I padroni anco aborrendo, che nell’Isola d’Esculapio esponeano l’egri e malsani schiavi, per tedio di curarli; fe’ legge: Fosser liberi tutti l’esposti, nè tornassero in balìa de’ padroni se guarivano: e chi in vece d’esporre, uccidea, fosse reo d’omicidio.

XXX. D’un salto dall’equo al bestiale, mal soffrendo che dall’assenza, de’ litiganti, timorosi di perder la lite, si ritardasse o impedisse il giudizio, dichiarò: Che presenti o assenti, sentenzierà: e senza esame, se colpa o necessità alcun rattenea, diè [p. 388 modifica]sentenza. Ma, come da capriccio, non da pubblico utile, si fa muovere il volgo, non fu mal presa questa irregolarità di giudizio. Screditossi poi il troppo alla moglie ligio principe, al salvar Messalina, a ragion di lor tresche, Sabino; sotto Caio, prefetto della Gallia, destinato or a morte tra’ gladiatori. Più ira sì libidinosa donna, a tutti, for ch’a Claudio, nota, concitossi, al laido suo tramestio con Mnestere, valentissimo allor istrione, sì, che non volea isse in teatro, nè’l volea egli stesso; e Claudio giurava: Lui non esser seco, e da sè non mancare che ’l volesse. Or che più mirabile, di Messalina la licenza, l’ardir di Mnestere, i lamenti del popolo, o, del principe gli scorni?

XXXI. In sì scioperato governo cosa pur fu da fare a gran principi onore. La Tracia, sin qui regno, fessi provincia. Celeberrima fu anco l’ambasceria di Taprobane. Fu gran pezza creduto esservi altro mondo, detto Antipodi, scoverto poi Isola per le vittorie d’Alessandro Magno. Altro e più certo i Legati venuti a Roma, ne dissero; eccone come, sulle tracce di Plinio, di natural istoria illustre autore.

XXXII. Un liberto d’Annio Plocamo, che dal fisco compro avea l’imposta del mar Indo, l’Arabia costeggiando, spinto oltre Carmania da tempesta il dì 15, prese terra in Ippuro. In sei mesi, mercè l’ospitale clemente re, apparata la lingua, potè poi a sue ricerche narrar di Roma e di Cesare. Al racconto, gran colpo la giustizia li fe’; chè di par peso eran le monete nella borsa dell’ospite, mostrando i diversi conj esser fatte da più d’uno; e indi sopra [p. 389 modifica]tutto mosso a legar amistà, quattro Legati spedì sotto il capo Rachia.

XXXIII. Il ciel nostro, e lor ombre ammirando, ferono essi stessi l’ammirazion di Roma, curiosa di forestieri. Da lor si seppe: Far cinquecento città lor isola; Palesimondo la capitale con sua reggia, duecentomila anime, a verun soggetta; non dormirsi che a notte; porsi studio all’agricoltura; non v’esser viti, ma pomi in copia; aversi piacere a pesca, sovra lutto di testuggini, i cui gusci faccano i tetti delle case; queste esser basse; non salir mai di prezzo i viveri: non esservi fóro o liti: adorarsi Ercole; le feste passarsi in cacce; esser la più gustosa d’elefanti e tigri; farsi dal popolo il re, vecchio, clemente, senza figli, cui se poi abbia, deporsi a non far ereditario il regno; da quello darglisi trenta assessori; a voti de’ più spedirsi le sentenze capitali; l’appello farsi al popolo, che dà settanta giudici; liberando più di trenta di loro il reo, smacco grande essere a’ primi trenta che lor sentenza non valesse. La religion del re, quella del padre Bacco, degli altri esser l’araba. Reo il re punirsi di morte; non che s’uccida, ma fuggendol tutti; senza pur parlargli.

XXXIV. Gradironsi tai novità, e più, non senza invidia, l’udirsi la più corta vita esser ivi cent’anni; e l’isola d’oro e di margarite di cònio, abbondar più dell’India. L’Invidia scemò alquanto l’averli soci de’ vizi, e l’esaltar i Legati il lusso di Roma; confessando essi aver in pregio l’oro e l’argento, il marmo somigliar la tartaruga, stimarsi assai le gemme e le margarite migliori; aver essi più ricchezza, ma più uso far della loro i Romani.

XXXV. Tai cose in isola, fuor del mondo [p. 390 modifica]rilegata da natura, tanto più in molti potero, quanto più certi rapporti nuove confermavan tutte diverse de’ Seri già spacciate; narrando Rachia, in là dagli Emodi veder essi i Seri, famosi pe’ fili di lor selve: ir questi incontro a’ forestieri; esser noti per commerzio; suo padre esservi stato; ecceder essi l’umana statura; aver biondo crine, occhi azzurri, cruda voce, senza commerzio di lingua; fuggir quai fiere il consorzio d’altr’uomini; ma esser, miti, giusti, e lor traffico, torre in cambio di sue merci le lasciate alla controriva se piace il contratto. Chi di tai virtù in tal gente stupisce, stupisca anzi, ch’a tanti rischi e spendio, con lenta, ma certa irreparabil rovina dello stato, traggan di là nostre dame i veli e’ fomenti insieme a libidine.

fine del libro decimo.