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SUPPLIMENTO AL LIBRO NONO | 351 |
II. Va intanto la fama del caso al teatro: e, per l’indole o fortuna d’ognuno, fa vario colpo. La plebe crede sàlvo, o estinto piagne il principe ai giuochi intento; gli schiavi, i fabbri d’iniquità, temono per le dinunzie e male arti: patrizi e nobili, schivi del crudèl governo brillan entro, fuor tristi; i complici della congiura tacciono; molti di spacciar fole vaghi, o sperando ne’ garbugli, davan ferito Caio, ma vivo, e in man di chirurgo; altri, che tutto sangue è nel Foro, il popolo a vendetta destando, e a far man bassa sugli ottimati.
III. Crescea quinci il terrore; ma più, quando i soldati germani cinsero a spade nude il teatro, e all’ara infilzati degli uccisi i teschi, mostraro qual sovrastava nembo. Ognun pregava perdono e vita. La temerità, che in casi disperati può assai, improvviso recò sereno e sicurezza; chè un tal Arrunzio, banditor famoso d’incanti, ond’era ricco, in gramaglia, e con funebri lai, va in teatro gridando: „È morto Cesare„; poi girando per la soldatesca, le intimò a ripor le spade. Così a questi il furore, agli altri lo spavento, mancò di colpo.
IV. Di par guisa cessò il tumulto per città. A’pretoriani, che ivan per tutto tracciando gli omicidi, e al popolo costernato, escì incontro Valerio Asiatico consolare, è in piena udienza; „Oh fossi stato io a ucciderlo„, sclamò. A tanta franchezza queti gli spiriti, in pubblici rimbrotti a Caio ruppèro. Crebbe l’ardire, quando il mentovato Clemente rimandò Minuciano, e gli altri senatori complici a sè addotti; protestando esser Caio per sua mano spento, non de’ Romani; all’ucciso principe infestissimo, se pria timido.