Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Saggi/III. La materia de' «Promessi Sposi»
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III. La materia de' «Promessi Sposi»
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III
LA MATERIA DE’ «PROMESSI SPOSI»
— Che fa Manzoni? — domandava Goethe, e Cousin:— Fa un romanzo, con l’intenzione di una maggiore esattezza storica che non è in Walter Scott, e di un’applicazione precisa del vero metodo storico. — E qual è l’argomento? — Il secolo XVII a Milano. — Il secolo XVII a Milano! Manzoni è milanese; avrà studiato bene questo secolo — .
Né altra era l’aspettazione in Italia. — Che fa Manzoni? — Manzoni fa un romanzo storico, più storico che non sono i romanzi di Walter Scott — . E si attendeva il parto del nuovo Walter Scott.
Né altra era l’intenzione dell’Autore. Si apparecchiò al lavoro con studii storici severissimi, come avea fatto col Carmagnola e come più tardi fece con l’Adelchi. E di quella diligenza di studii rimase testimonio non dimenticabile la Colonna Infame.
Se volessimo esaminare i Promessi Sposi col metodo di Goethe e dello stesso Manzoni, domandando cioè innanzi tutto, qual è l’intento dell’Autore, ci troveremmo in un bell’impiccio. Quel metodo era un buon rimedio verso i critici, che partendo da concetti assoluti facevano essi il lavoro, e in luogo di guardare ciò che ivi era, fantasticavano su quello che avrebbe dovuto esserci secondo le regole della poetica e della rettorica. Quel metodo era una buona arma di guerra contro quella critica: l’Autore parea dire: — Guardate, Signori, ciò che ho voluto fare io, e non ciò che vorreste voi; se volete esser buoni giudici, siate un po’ meno voi, e un po’ piú l’Autore — . A una critica astratta quel metodo opponeva una critica intenzionale, «ciò che l’Autore ha inteso di fare». E se un lavoro fosse sempre ciò che l’Autore ha inteso di fare, se fosse sempre l’espressione esatta delle sue intenzioni e delle sue idee, quello sarebbe il metodo.
Ma dall’intenzione al fatto è un gran tratto. E il critico non può tener conto delle intenzioni, se non in quello solo che è penetrato nel libro ed è divenuto un fatto. Sicché il metodo più sicuro e concludente è di guardare il libro in sé, e non nelle intenzioni dell’Autore.
Nondimeno uno studio sulle intenzioni dell’Autore non è mai superfluo; non è ancora la critica, ma è già una «propedeutica». Cogliere l’Autore nel momento della concezione, scrutare i suoi fini, le sue idee, i suoi preconcetti, le sue preoccupazioni, è una conoscenza preziosa della natura e della intensità di quelle forze produttive, dalle quali esce il lavoro. Poi, volere o non volere, sempre alcun che di quel mondo intenzionale penetra nel libro, e ci giace al di sotto, come motivo o come ostacolo. Né qui è necessario di fantasticare, perché Manzoni è là con le sue «confessioni». Noi sappiamo qual concetto erasi formato del romanzo storico, qual fine voleva raggiungere, ed abbiamo la trista conclusione che quel fine a parer suo non è stato raggiunto, perché assurdo e contraddittorio in se stesso. Stabilite le intenzioni dell’Autore, la critica ha il dritto di discuterle, e mostrarle, quando sia il caso, irragionevoli; e se il libro è conforme a quelle intenzioni, tanto peggio pel libro. Questo ho voluto io fare, ragionando in un altro mio scritto della poetica di Manzoni. A’ posteri fa spesso compassione il vedere da quali storte preoccupazioni sia stato assediato un grand’uomo, nel porre mano al suo edificio. E la storia, alto giudice, cancella ogni vestigio di quelle preoccupazioni, che pure agitarono e variamente interessarono i contemporanei, e s’inchina riverente all’immortale opera. Chi ricorda più tutte le critiche e le regole e le intenzioni che tormentarono il povero Tasso? Sono la parte pettegola e aneddotica della storia. E nessuno oggi più tien dietro a quelle quistioni così ardenti, e pure così piccole, che interessarono tanto Manzoni e i suoi contemporanei, com’era la quistione delle unità, e l’altra de’ personaggi reali e ideali, e che cosa è il romanzo storico, e in che proporzione stanno storia e poesia, e se e come si può fondere insieme inventato e accaduto. È maraviglia, come uomo vivuto in quest’ambiente vi si possa elevare e respirare aria libera. E maraviglia è appunto il grand’uomo che fece questo miracolo.
Certamente, chi fa la storia della critica dee tener conto delle quistioni anche più piccole, perché sotto le forme più umili traluce sempre il pensiero umano nel suo cammino ascendente. Quelle quistioni, divenute piccole a cinquant’anni di distanza, hanno pure agitato i più nobili spiriti di quel tempo, che ci vedevano con più o meno di coscienza nuovi orizzonti aperti alla scienza ed all’arte. Era in fondo la lotta tra l’idealismo e il realismo, o, come diceva Manzoni, fra l’inventato e l’accaduto, e gli spiriti più elevati e perciò spassionati e conciliativi, si affannavano alla soluzione di questo problema: sviluppare un mondo ideale in un mondo storico. Il problema era mal posto; pure la sincerità e l’ardore della ricerca e la serietà de’ tentativi, quella tensione dello spirito intorno a nuove fonti e a nuovi assetti dell’arte, sono sempre stimoli non ultimi e non deboli nelle produzioni geniali. L’opera mossa da certi preconcetti li oltrepassa, viola gli arbitrarii limiti personali e intenzionali, e riesce a risultati generali e permanenti, che non erano nella mente dell’Autore.
Manzoni voleva fare un romanzo, che avesse a un tempo un grande interesse storico e un grande interesse religioso e morale; voleva quel medesimo che volle nel Carmagnola e nell’Adelchi. Ivi il mondo storico è di tale importanza, che ha i suoi fini in sé medesimo, e non lascia che parti accessorie ed episodiche a Marco, Ermengarda, Adelchi, ideali passivi e queruli, fuori di posto in un mondo che non li comprende, perciò lirici, punto drammatici. Accanto a una storia ferrea senti in questi ideali e ne’ Cori le voci di un mondo divino, impotente a trasformarla, rimasto staccato e malinconico. Non ci è intima fusione, e non ci è serio antagonismo, non ci è il dramma; e che importa? Ci è appunto l’accento scisso de’ tempi di Foscolo e di Leopardi, ideali patiti, predestinati martiri, fuori della storia e vittime della storia, presentimento di tempi più umani, più vicini a quello schema divino, e simili più alle aspirazioni solitarie dell’immaginazione individuale, che a fatti nazionali e storici. Sotto questo aspetto Marco, e soprattutto i due nati ad un parto, Adelchi ed Ermengarda, sono, in quella serie d’ideali soffrenti, che ispirarono molte fantasie negl’inizii del secolo, tra le più fresche e originali concezioni della musa italiana.
Come sia nata in Manzoni l’idea de’ Promessi Sposi, lascio a’ raccoglitori di aneddoti. Certo è, ci si mise con una serietà di studii positivi e originali, quasi avesse in animo di fare una storia propria e vera. Ma ci si mise assediato sempre da quel suo ideale indocile, rimasto lirico, anche dove l’Autore voleva fosse drammatico. Pure, ammaestrato dalla esperienza, questa volta si guardò di scegliere a materia del lavoro qualche gran personaggio o fatto della storia, che non avrebbe concesso libero e principale luogo al suo ideale, come è nel Carmagnola e nell’Adelchi. E scelse un fatto tolto da’ più umili strati della società, materia libera d’invenzione e d’immaginazione, di nessuna importanza storica in sé, anzi uno di quei tanti fatterelli curiosi, che sono la delizia delle cronache e sogliono solleticare l’immaginazione popolare. Questo fatterello, situato in un certo periodo storico, con tali condizioni di tempo e di luogo, in tale ambiente, fra tali costumi e opinioni, dovea porgere all’Autore un modo naturale e facile di sviluppare attorno ad esso tutto un secolo. Questa era l’aspettazione pubblica; e questo era pure l’intendimento dell’Autore. Renzo e Lucia avrebbero così poco immaginato di essere materia storica, come un pastore potrebbe immaginare di essere re. La storia non è mossa da loro; anzi è la storia che move loro. Senza i grandi fattori della storia Lucia e Renzo sarebbero stati sposi felici e contenti, predestinati all’obblio; l’ultima pagina del racconto sarebbe stata la prima e la sola della loro vita, e a volerla stirare, appena se ne sarebbe cavato un idillio. È il genio malefico della storia nella persona di don Rodrigo, che li fa ballare contro voglia, e tira nello stesso ballo i più umili attori, avvezzi al prosaico «vivere e lasciar vivere», come sono le Agnesi, le Perpetue e i don Abbondii, e non lasciati vivere, girati, come burattini, da quell’ignoto capo comico, che dicesi spirito del secolo. E qui è appunto l’interesse di questo racconto, ché le avventure non prodotte, ma patite da questi innocenti personaggi, non sono l’effetto del caso, o di combinazioni fantastiche, dette romanzesche, perché materia comune del romanzo, ma sono il risultato palpabile di cause storiche, rappresentate nel loro spirito e nella loro forma con una connessione cosí intima e così logica, che il racconto ti dà l’apparenza di una vera e propria storia. In questo senso elevato nessun romanzo merita al pari di questo il titolo di storico; se vero è che romanzo storico non è quello che dia di un secolo un concetto adeguato e pieno, come l’intendeva Manzoni e come l’aspettavano i contemporanei, ma è quello, la cui trama è tessuta da uno spirito osservatore e positivo, che dà all’immaginazione la base solida de’ motivi e degli eventi storici. Ma così non l’intendeva Manzoni, e gli parve, a mente fredda e rotto il fascino dell’ispirazione, che quel suo fine non l’aveva ottenuto, anzi che il romanzo storico fosse in sé un genere ibrido e assurdo, e dall’ammirazione de’ contemporanei fece appello alla severità de’ posteri. La posterità è cominciata, e non mi pare che quell’ammirazione si scemi, anzi mi pare che, se alcuna cosa di lui è dimenticata, è appunto quella sua magra definizione e quella sua crudele sentenza. In verità, se voleva il romanzo storico quale lo concepiva lui, quel fatterello sarebbe stato non il vero centro animato del racconto, ma il pretesto, un semplice filo intenzionale, col quale avrebbe piacevolmente tessuta la storia di quel tempo nella sua idea e nella sua realtà. Ma nel caldo della composizione si rivela artista, e quel fatterello gli desta un così potente interesse, e tanto vi s’impressiona e vi s’innamora, che l’interesse storico rimane un accessorio, e la storia altro non è se non un immenso materiale messo a’ servigi della sua immaginazione. Pure quelle sue definizioni e quelle sue intenzioni vogliono farsi valere; e se difetto è in questo lavoro, è appunto là, dove alcuna cosa penetra di quelle definizioni e di quelle intenzioni. Perché, intestatosi in quel suo interesse storico, vuole proprio persuadere il lettore che tutto è storia pura, e come Ariosto, invoca anche lui il suo Turpino, e spesso apre lunghe parentesi e intramesse storiche, vere appendici e annotazioni e dissertazioni, e da lui cucite col racconto, non senza rincrescimento del lettore, che per acquistare una pretesa illusione storica, alla quale non pensa, si vede guastare sul più bello la sua illusione estetica, alla quale tutto si abbandonava. L’Autore se ne accorge, e talora invita il lettore a saltare tutto un capitolo. Il suo buon senso di poeta protesta contro le usurpazioni de’ suoi preconcetti storici. Togliete tutte quelle appendici, e niente toglierete al valore storico del racconto; perché la storia è non in tutta quella erudizione, ma in quel soffio occulto che anima e genera gli avvenimenti e dà a quelli l’impronta del secolo. Anzi dirò che più l’Autore si affatica a suscitare in noi un interesse storico, e meno ci riesce; perché niente più ci raffredda, quanto il vedere troppo scoperta e insistente l’intenzione di uno scrittore, massime quando vediamo quella intenzione fattizia mettersi a traverso delle nostre naturali impressioni.
Il romanzo storico, come lo concepiva Manzoni, non ci è qui, ed è bene che non ci sia. Ci è invece il vero romanzo storico, quale glielo fa incontrare il suo squisito senso d’artista. La storia è qui non la sostanza o lo scopo, ma la larga base, di dentro dalla quale esce alla luce la statua del pensiero e dell’immaginazione, una base non segregata e indipendente come un piedistallo, ma vera causa generatrice, il fondamento e il motivo occulto che mette in moto gl’inconsapevoli attori. Onde nasce quella fusione armonica della composizione, che desideri nelle sue tragedie storiche, dove la storia è dessa la sostanza e lo scopo, e rigetta dal suo seno ideali estranei invocati dall’immaginazione. Nessuno può dire che fine del racconto sia qui il ritratto della dominazione spagnuola, o in modo più generale una storia poetica del secolo XVII in Lombardia: se così fosse, non sarebbe un romanzo storico, ma una storia in veste di romanzo. Ed è invece un vero romanzo storico, perché la storia è qui un semplice materiale, a cui il romanzo dà la forma.
Lettori, ditemi in fede vostra, vi siete mai dato carico di ciò che è qui storia e poesia, di ciò che è inventato e ciò che è storico, de’ confini che dividono questi due generi? Voi non ci avete pensato; voi avete gustato il libro, come un tutto omogeneo e concorde; e libro gustato così è libro riuscito.
L’Italia era un paese romanzesco e fantastico; i romanzi di cavalleria avevano formato il suo spirito, e non presi sul serio, ma piacevole trastullo d’immaginazioni vivaci e oziose, non ancora temperate da un senso serio della vita. Torquato Tasso cercò alle sue invenzioni una base nella storia, e non riuscí, perché lo spirito italiano, e lui per il primo, era ancora impregnato di elementi fantastici e idillici in quel vuoto della coscienza. Quello che Tasso tentò, fece Manzoni. Viva era allora l’opposizione non solo verso quel vuoto fantastico che era stata la delizia de’ nostri antenati, ma verso quei nuovi ideali scarni e rettorici de’ tempi di Alfieri e di Foscolo. Si può ora vedere quale significato e quale importanza avesse il nuovo genere venuto in moda, la poesia storica. Non era già un bisogno di conoscer la storia per mezzo della poesia, quantunque anche questo se ne possa cavare, ma era un bisogno più vivo del reale, l’immaginazione fastidita di quel fantastico e di quelle astrattezze, che cercava nella storia un nuovo nutrimento. Questo era l’indirizzo preciso del secolo XIX, e Manzoni fu l’uomo di questo indirizzo. Ma nella prima esagerazione le menti si confusero, e come prima tutto era immaginazione, allora tutto dovea essere storia, e lo stesso Manzoni vi si smarriva, dando al vero positivo, cioè al vero della natura e della storia, importanza maggiore che l’arte non può consentire. Perché all’arte importa nulla che il suo contenuto sia storico o sia inventato; ma ciò che le importa assai, è che il suo contenuto, o storico o immaginario, sia reale. E il reale nell’arte non è l’accaduto, non è natura e non è storia, ma è il loro riflesso nell’immaginazione, come il reale in filosofia è il loro riflesso nell’intelletto, e come il reale in religione è il loro riflesso nel sentimento. È là, nell’immaginazione, che natura e storia sono covate ed elaborate, ed escono a vita nuova, vita che non è riproduzione, ma vera produzione. con carattere e fisonomia sua. Quando l’immaginazione lavora in se stessa e produce della sua sostanza, trastullandosi come fanciullo co’ suoi castelli di carta, senz’altro scopo della sua attività che un puro gioco, avviene la decadenza dell’arte; ed è segno di rinnovamento, quando natura e storia, esagerando anche la loro importanza e cercando di sostituirsi a quella, la richiamano all’osservanza del reale. Queste esagerazioni o del vero intellettivo e astratto o del vero positivo e storico sono sempre indizio di crisi benefiche, appresso alle quali ritorna la salute. Chi gitta uno sguardo sulle ultime sorti della nostra letteratura, vedrà che dalla esagerazione d’ideali intellettivi e astratti è uscito Parini, Alfieri e Foscolo, e dalla esagerazione del vero naturale e storico è uscito Manzoni e la sua scuola. E poiché sono in su questo discorso, noto che oggi ritorna la stessa esagerazione con altro nome, perché quello che a’ tempi di Manzoni dicevasi vero positivo, naturale e storico, oggi dicesi realismo. E quantunque i fenomeni di questo realismo esagerato esprimano una certa lassitudine e superficialità dell’arte, pure non me ne spavento; perché uno studio anche eccessivo del reale ha sempre una efficacia educativa sull’immaginazione, che vi si rinfresca e vi si rinnova. Si può dire che il realismo sia un riposo necessario della stanca virtù formativa, mentre lo spirito dato all’osservazione lavora a preparare e accumulare un altro materiale, che spoltrisca l’immaginazione, porgendole nuovi stimoli e nuovi motivi. Tale benefica virtù aveva anche allora quella tanta voga di storia, sì che come nel passato secolo tutto era filosofico, allora tutto era storico. La storia svolgeva l’immaginazione dalle astrattezze e dalle vane cogitazioni, dagl’ideali nudi, e la tirava fuori da’ soliti repertorii, mettendole innanzi un materiale nuovo e concreto, perfettamente determinato nei suoi motivi, nelle sue idee e nelle condizioni della sua esistenza. L’immaginazione lavorando sopra un materiale positivo, e mossa da quello, mossa dallo stesso ardore della investigazione storica, poteva assimilarselo, scaldarlo, idealizzarlo, dargli una forma venuta di colà dentro, ispirata e prodotta da esso medesimo, una forma storica, anche dove il materiale sia inventato, storica nella concezione, nel disegno, nel colore, nella misura e nell’armonia, una forma che è poesia, e ti pare storia. Guarda il materiale storico ne’ mediocri: rimane grezzo, o senza forma, o in forma fantastica e arbitraria: quasi l’immaginazione lavori per conto suo, e non sia immedesimata con quello. Guardalo ora ne’ Promessi Sposi.
Già fin dalla prima pagina ti senti in pieno Seicento; leggi un pezzo di cronaca di quel tempo. E quando comincia il racconto, ti è innanzi una lunga descrizione, che spesso pare scritta da un geografo o da un naturalista, anzi che da un poeta: così preciso è il colore locale fin ne’ minimi particolari. Per lo più nelle descrizioni di scrittori italiani la grande preoccupazione è di trovare l’effetto estetico con tali ingegnose combinazioni di ombre e di luce, con tale lavorìo d’immaginazione, che si abbia non la veduta, ma la «bella veduta». Non basta il paese, ci vuole il paesaggio, un paese raffazzonato in modo, che produca non il suo effetto, ma certi effetti, classici o romantici, secondo le scuole. Qui la preoccupazione è di rendere accessibili all’immaginazione anche più infingarda le figure e le disposizioni del sito, con esse le impressioni che naturalmente producono, se e quando; e l’effetto estetico non si cerca, ma s’incontra, in dati momenti, quando il sito stesso lo porta, e consegue più il suo fine, perché i suoi colori non sono fregi dell’immaginazione, ma parte anch’essi del luogo, colori locali. Vedi uomo che descrive dal vero, quello che gli è innanzi all’occhio, e nota tutto, e tutto comprende, e tutto ti vuol far comprendere, con la curiosità paziente e attenta d’intelligente osservatore, anzi che con l’animo concitato e distratto di artista. E dico osservatore intelligente, perché qui tutto è natura, ma natura guardata e disposta da una mente superiore, che l’ordina, l’analizza, la spiega, la mette in moto, le dà vita come a persona, sì che quel lago che divien fiume e torna lago, quelle riviere, quei valloncelli, quei viottoli, quei monti hanno apparenza di figure mobili che ti camminano innanzi e prendono posto. Secondo che vai avanti, le impressioni si staccano dalle cose, e si fanno sempre più vive, insino a che nell’ultimo l’Autore, quasi voglia godere dello spettacolo, se ne stacca e si fa a guardarlo, e ti dá la sua impressione estetica.
E come nelle descrizioni, così nelle narrazioni. Vedi la stessa minuta cura di ogni particolare storico, quasi l’Autore copii modelli che abbia innanzi vestiti e atteggiati così e così. Tutto il secolo ti sfila avanti nelle sue abitudini e attitudini, nelle sue opinioni, nelle sue tendenze, nelle sue classi, nelle sue violenze e nelle sue codardie, nelle sue forze le più grossolane e appariscenti e le più occulte e delicate, e in tutte le gradazioni e variazioni, dal più umile villaggio sino alla superba capitale. Trovi già nel villaggio il secolo nel suo spirito e ne’ suoi elementi; il nobile soperchiatore col suo castello e co’ suoi bravi; il borghese con la sua mezza coltura, istrumento corrotto e basso di quello, com’è il dottore, il console, il podestà; il popolino sotto la doppia servitù incolto, credulo, tutto quasi ancora natura, come Renzo, Lucia, Perpetua, o già attratto e parte assimilato in quell’atmosfera, imparatavi l’arte del saper vivere, come il curato e l’oste, e sino il monaco che va alla cerca, e sino anche un po’ Agnese. Tutto comincia e finisce nel villaggio; pare non ci sia altro cielo, sia quello tutto il mondo; Milano è un nome grosso, come chi dica oggi America. Pure, assistendo all’orgia di don Rodrigo, tra quei discorsi e quelle dispute vedi come a traverso di un foro nuovi cieli, e pur gli stessi, vedi come in confuso e in immagine ridotta tutta la storia che segue. Da Lecco a Monza, da Monza a Bergamo, da Bergamo a Milano l’orizzonte s’ingrandisce, le proporzioni si allargano, le viste si variano, i nomi sono più rotondi, i personaggi piú grossi, pur trovi sempre quel nobile, quel borghese e quel popolo: il villaggio è giá tutta quella società in miniatura. E tutto ti si spiega alla vista non successivamente, a modo di descrizione, come in una camera oscura, ma per intreccio e antagonismo di forze umane, come in un vero dramma, insino a che, cessata ogni opera di uomini, e quando il racconto sembra finito, le fila si riannodano con epica solennità, entrati in iscena i formidabili fattori della collera di Dio, fame, guerra e peste.
L’Angelica o l’Armida che dà moto a tutta questa macchina, è Lucia. È intorno a lei che si sviluppano combattendo tutte queste forze storiche. È da vedere, se l’avrà Renzo a cui è promessa, o vincerà don Rodrigo impuntato ad averla lui. Qui è tutto l’interesse del racconto. E sembra impossibile come avvenimenti così grandiosi e tante passioni e tanti grandi personaggi debbano servire a scopo così piccolo e così poco interessante. Perché Lucia non ha niente di straordinario, che la renda eminente sopra tutto un secolo che pur gira intorno a lei. Non è un’eroina foggiata dall’immaginazione, privilegiata di tutte le buone qualità, che dico? non si può neppure chiamar bella. La è di una stoffa molto ordinaria, còlta nelle più basse sfere della vita, una di quelle contadine giovinette e casalinghe, intatte ancora come pur ora uscite dalle mani della natura, buone, pure e semplici in un ambiente viziato, di cui non si accorgono, tutto mamma e confessore, vergognose e trepide innanzi alla castità di un primo pensiero amoroso. L’immaginazione si vergogna di abbellire una creatura così semplice, e te la presenta quale tu giureresti di averla vista tante volte in qualche villaggio. La società non l’ha ancora modificata, e mal potresti dire a qual secolo appartenga. Cosa è in lei che t’interessa tanto? È un fiore pur mo’ nato che la società calpesta e passa. Di fiori simili abbiamo visti tanti. — Cosa è che questa contadina ha tanto potere su di noi? — , possiamo dire insieme con l’Innominato. Contadine scopertesi figlie di regine, poverette scopertesi in ultimo milionarie abbiamo visto; ma Lucia rimane quella che è, e non avevamo ancora visto povera contadina destare tanto interesse, che intorno a lei pugnano uomini e Dei, forze umane e forze celesti, e si mettono in moto tutte le molle sociali. Questo pare impossibile, e meno pare possibile che vero intreccio e antagonismo ci sia in condizioni così disuguali di lotta. Perché tutte le forze sono dall’un canto, e dall’altro nessuna speranza di resistenza. Può ben farsi assegnamento sul caso o sul miracolo, e ne uscirebbe un romanzo d’intrigo, che altererebbe profondamente il suo carattere storico. Pare impossibile che Lucia desti tanto interesse. E lo desta. Pare più impossibile che un serio antagonismo ci sia. E ci è. Qual è dunque il Deus ex machina? Qual’è la forza di Lucia? E qual’è la forza che entra in urto contro tutte le forze storiche? Una è la forza che rende interessante Lucia, e rende serio l’antagonismo, crea il dramma. Questa forza è l’ideale.
Ci è un reale e un ideale in antagonismo, l’uno rispondente all’ordine de’ fatti, l’altro all’ordine delle idee; l’uno al mondo com’è, l’altro al mondo come dee essere. E questo intende Manzoni, quando divide con tanta precisione storia e poesia. E questo intendevano pure i suoi contemporanei, ne’ quali nota fondamentale era l’opposizione del reale e dell’ideale. Storia è Carlomagno e Desiderio, il regno della violenza e della scaltrezza; poesia è Adelchi, il regno della verità e della giustizia in contraddizione con quello, e Adelchi è la coscienza di quella contraddizione, e vittima della coscienza. Manzoni era idealista, com’erano tutti in quei tempi di agitazione e ricomposizione sociale. E il problema di tutta la sua vita fu di sviluppare il suo ideale in un mondo storico, dandogli tutte le condizioni di una esistenza positiva, in opposizione agl’ideali troppo nudi alfieriani, e d’accordo con la tendenza generale del nuovo secolo, che ad un idealismo spinto sino al fantastico e al mistico univa uno studio del reale spinto sino alla più scrupolosa esattezza storica. Conciliare queste tendenze, armonizzarle, calare la poesia nella storia, e alzare la storia a poesia, creare tra noi la tragedia storica e il romanzo storico, fare di modo che il lavoro abbia un doppio interesse, un interesse storico e un interesse poetico, un doppio interesse che pur sembri uno, una poesia che abbia tutte le apparenze della storia, e una storia che abbia tutta l’efficacia della poesia, fu il sogno di Manzoni. E giungere così a questo scopo, di divulgare e propagare il suo ideale con la doppia potenza della storia e dell’arte.
Ciò che salvò Manzoni dalle generalità rettoriche d’un apostolato ideale, fu il suo squisito senso del reale sviluppato e fortificato da seni studi storici. Calato con la mente in un dato spazio di tempo e di luogo, vi acquista l’occhio scrupoloso e scrutatore dello storico, sicché quel secolo ti è innanzi non solo nella sua esteriorità più minuta, ma ancora nel suo spirito e ne’ suoi motivi interiori. Non c’era e non ci è ancora in Italia una storia come quella, scritta con tanta precisione di particolari, e insieme con tanta finezza di analisi, sicché tutto è denso e tutto è trasparente. E la conclusione della storia è questa, che il mondo vi era regolato dalla forza, ciò che Renzo chiama la lega de’ birboni, una forza incolta aiutata dalla scaltrezza di una coltura mezzana e pedantesca, divenuta suo istrumento, una forza, alla quale non era rimedio la legge scritta, o non curata, o rivolta spesso a furia di cavilli contro quei medesimi che doveva proteggere. Questa era la storia da Lecco a Milano; questo era il secolo in Lombardia, e un po’ dappertutto in Italia; violenza e corruzione e servilità nelle reggie, ne’ castelli e ne’ conventi, tra preti e laici, tra nobili e borghesi. Quella lega d’insolenza e di vigliaccheria, di violenza e di astuzia, ti rivelava una società non nella rozzezza della sua origine, ma nella corruzione; era la decadenza. E decadenza vuol dire che le forze intellettuali e morali, regolatrici della coscienza e ideale della società, ci stanno sì ancora, ma solo in parola e in iscritto, senza piú niuna efficacia sulle volontà, e meccanizzate, senza più movimento in se stesse. Ci era la nobiltà, ma il suo ideale viveva solo nelle immagini de’ maggiori; ci era il convento, ma già guasto ne’ suoi strati superiori; ci era la monaca, ma non ci era quasi più la santità e la spontaneità della vocazione; ci era il frate, ma il suo ideale era solo nelle sue massime e nelle sue prediche; e appena il suono delle campane e il rumore delle processioni ti annunziava che questa società era cristiana e cattolica. La virtù era ipocrisia, la coltura era pedanteria. Tutti avevano imparato a scuola o a chiesa o ne’ libri i comandamenti di Dio e le più belle sentenze morali, le quali servivano a decorare i periodi di don Ferrante e il cicaleccio di donna Prassede. Ora una società in decadenza la si può guarire meglio ristaurandovi l’antico ideale smarrito, ma non perduto, che con ideali affatto nuovi. Questo è ciò che dicesi ideale di ritorno; ed un ideale che ha la forza di ritornare, si rifà giovane, perché gittando via la scoria e riacquistando l’antica purezza appar nuovo, e ricupera il suo movimento interno, la sua virtù evolutiva e trasformativa, sì che può ricevere in sé elementi nuovi e moderni. Di tal natura è l’ideale manzoniano, il più puro e insieme il più moderno di tutti gl’ideali, non dirò della reazione, ma della restaurazione europea: un ideale vecchio, già smarrito tra le caricature e i sarcasmi, e che ora vi riapparisce come una vecchia conoscenza mai del tutto dimenticata. E riapparisce come cosa nuova che si fa via nella tua coscienza, perché parla il tuo linguaggio e sente i tuoi sentimenti; onde, ancora che antico, produce nuove impressioni. Questo ideale non è dunque un semplice ritorno, ma una nuova formazione, è un passato che ha insieme tutte le qualità del presente, e una nazione che ha ancora la forza di appropriarselo e ringiovanirlo e trasformarlo, vuol dire che ha ancora la forza di guarire: ciò che sotto forma di restaurazione è un vero risorgimento. Queste erano le speranze di Manzoni e di molti nobili intelletti di quel tempo; queste erano le aspirazioni di una scuola illustrata da Rosmini, Grossi, Gino Capponi, Tommaseo, Gioberti, Balbo, Massimo d’Azeglio, una scuola, di cui la storia è ancora a fare, e che si può chiamare dal suo capo scuola manzoniana. Or questo ideale, che chiameremo di ritorno, ha sotto l’aspetto estetico un gran vantaggio sugl’ideali nuovi: ché questi, non avendo loro fondamento nella tradizione, rimangono nella regione delle idee, e ti riescono in arte razionali, nudi, lirici, personali, come nell’Iacopo Ortis, o anche calati nella storia, come ha fatto Alfieri, vi si mischiano, ma non vi s’immedesimano, e rivelano più l’impronta dello scrittore che del tempo; dove l’altro è di sua natura storico e nazionale, e fa parte del tempo, e si rivela più nel naturale movimento e antagonismo de’ fatti, che nelle astratte generalità de’ ragionamenti e de’ movimenti lirici.
E guardate come Manzoni ha potuto qui collocare questo ideale. Non è già una idea venuta di fuori, una idea personale e moderna, che penetra fattiziamente nel processo storico; ma è l’idea del tempo e com’era nel tempo, viva ancora nella semplicità della credenza popolare, e anche presso le classi corrotte rimasa occulta e dimentica in qualche nicchia del cervello, e capace di muoversi e di svolgersi al tocco di commozioni straordinarie, come nell’Innominato e in don Abbondio. E non dee parere strano che in tanta dissoluzione morale sieno pure alcuni individui elevati, che realizzano in sé quell’ideale nella sua ferma più pura, come sono Borromeo, Cristoforo e padre Felice, i quali in società ancora sane sono il riflesso della vita generale, e qui ci debbono apparire uomini straordinarii, o, come si dice, eroi. Onde sorge la naturale opposizione tra la società in cui quell’ideale è oscurato, e questi personaggi in cui brilla della sua più viva luce. I quali non sono già come Savonarola riformatori appassionati della società, ma ci vivono con semplicità di vita: predicando con la parola e con l’esempio, facendo quel po’ di bene che loro è dato, con naturalezza di uomini dabbene e con ardore di credenti. L’opposizione è nelle cose, e non nelle intenzioni e non nelle azioni. Sono elementi in contrasto di uno stesso processo storico, le varie facce di uno stesso ideale in un tempo, che fra tanti tristi spiccava tanto più il Santo. Un’azione semplicissima mette in moto questi elementi, ti crea il conflitto drammatico, sviluppa l’opposizione. Lucia è promessa sposa a Renzo, e don Rodrigo ha scommesso che l’avrà lui. Sotto una lotta così ristretta s’intravvede una lotta più importante, il cozzo di quelli elementi. Don Rodrigo è il primo anello di tutta la catena degli oppressori, che pesano nella bilancia in suo favore; Renzo e Lucia sono gli oppressi. Lucia non ha altra difesa che la sua purezza e semplicità; la forza di Renzo è nella coscienza netta e pronta del suo diritto; non gli può entrare in capo che la sua sposa non dee essere la sua sposa. È chiaro che, animandosi la lotta, essi debbano incontrare nella loro via e in loro favore tutte le forze ideali di quella società.
Questo ideale religioso-etico penetra dunque in tutto il materiale storico, non come una forza estranea, ma come parte esso pure di questo materiale, esso pure storico, del tempo e nel tempo, dove latente e teorico, dove operoso e militante. Chi vuole avere una immagine di questo ideale non aggiunto, non soprapposto, ma compiutamente realizzato in un materiale storico, anzi parte di esso materiale, pensi che gli è come una bella storia tessuta in una tela e tessuta con le stesse fila e con gli stessi colori. Tutto che è qui inventato o poetico o ideale, come direbbe Manzoni critico, è così propriamente intessuto nella trama, che pare tutto un solo materiale variamente atteggiato, e non senti alcuna differenza tra ideale e reale, accaduto e inventato, storico e poetico, se non solo nelle preoccupazioni del critico. Il poeta ha tutto fuso in una stessa trama, e tutto ti pare storia, e tutto è poesia, né ti sai render ragione perché Renzo e Lucia debbano essere meno reali e meno positivi che i bravi o l’Innominato o Borromeo, tutti insieme, personaggi storici e inventati, cresciuti nello stesso ambiente. O piuttosto mai non ti accade che tu leggendo ti faccia la domanda: — Dov’è storia e dov’è poesia? — , perché la storia ti pare poesia, e la poesia ti pare storia, o, per dirla in un altro modo, perché tutto ti pare nato a un fiato e a uno stampo, e non te ne viene nessuna impressione dissonante. Io medesimo, uso alla critica, non mi son fatto questa domanda, se non perché se l’ha fatta Manzoni; e non posso pensare di questo libro, se non lo chiudo; perché, se sto con quel libro innanzi, non sono più buono a nulla, non osservo, non penso nulla, e vivo là dentro, e ci godo e ci sto così bene, che mi sento più felice nella folla de’ lettori ingenui, che nel piccol numero de’ critici.
Ma se tutto è qui un solo materiale storico, tutto vi è guardato da un solo punto di vista. Ci è qui certamente il secolo XVII in Lombardia, ma guardato da un uomo situato in modo che non può abbracciarlo tutto con l’occhio, e non te lo dà se non quanto e come gli viene innanzi. Chi vuol trovare il secolo in tutta la sua verità, cioè in tutto il suo spirito, smetta, ché questo non è storia, e di storia non v’è che il semplice materiale. Il poeta lo guarda da dentro il suo mondo ideale, e a traverso a quello. E gli oggetti acquistano quel valore che ad essi viene di là, e sono più o meno interessanti secondo la luce che su loro piove da quel mondo. L’ideale è come il sole che illumina gli oggetti senza snaturarli. Gli oggetti rimangono storici; ma è il mondo morale, dove sta collocato il poeta, che li rende visibili, e distribuisce variamente la luce e i colori, e dà a ciascuno il suo luogo della nostra attenzione. Così avviene che una povera contadina, ultima nella scala dell’interesse storico, e che appena potrebbe pretendere a un posticino in una cronaca aneddotica, raggia qui di vivissima luce, e desta tutto il nostro interesse, perché è la prima nella scala del mondo morale, da cui prendono gli oggetti misura e valore. E appunto perché c’interessiamo grandemente alla sua sorte, nasce un antagonismo serio tra il mondo morale, mosso non da lei, ma per lei, e il ferreo secolo, dove le sue pari sono vittime nate. La storia è preordinata a questa lotta, perché distribuita in due gruppi ricisi nella loro opposizione, de’ quali portano la bandiera sino all’ultimo padre Cristoforo e don Rodrigo. E in mezzo sta l’eterno ventre del genere umano, esseri passivi, che sono co’ più forti, amanti del quieto vivere e tirati pe’ capelli all’azione da esterna necessità, esseri buoni e innocui, che senza saperlo decidono spesso degli avvenimenti e producono gravissimi danni, com’è di don Abbondio. Padre Cristoforo, don Rodrigo e don Abbondio sono i tre personaggi principali, nella lotta che si combatte intorno all’innocente Lucia: sono le tre forme in cui vien fuori il mondo morale, vero centro e anima del racconto.
E cosa è questo mondo morale? Ma è l’antitesi di quel secolo di violenza, di corruzione e di servilità, com’è stato descritto. È il diritto opposto alla forza, la purità opposta alla corruzione, il sacrifizio opposto alla servilità, e per dirlo in una parola sublime che lo compendia tutto, è la carità: qualità che prese insieme fanno l’eroe cristiano, e che più o meno risplendono ne’ personaggi ideali, con qualche faccia più speciale in ciascuno. Così in Renzo si affaccia più specialmente la coscienza del diritto, in Lucia la purità di una Madonna, in padre Cristoforo il sacrifizio di un martire, e in Borromeo la carità di un apostolo: e tutto insieme questo è il mondo, come l’ha pensato Manzoni e predicato padre Felice. Collocati in questo mondo i don Rodrigo e i don Abbondio, l’Innominato, il conte Attilio, il Contezio, il Provinciale, don Egidio, non hanno altro valore che per rispetto a quello; sono la sua opposizione, e il suo rilievo. Che questo mondo morale abbia a vincere materialmente, sarebbe una esagerazione, e quasi una caricatura della storia; e se Lucia riesce a salute, si dee in parte ad un concorso di casi straordinarii, com’è questo che l’Innominato si converta, e che la peste uccida don Rodrigo, e risparmii lei e Renzo. Ma quale che sia la sorte di Lucia, il mondo morale vince, non per la certezza de’ suoi risultati nella vita pratica, ma per la sua efficacia sulle coscienze e sulle volontà: sicché là dove l’opposizione si sviluppa e i contrarii sono in presenza, è visibile la sua superiorità, come si vede nell’incontro di padre Cristoforo prima col fratello di colui che ha ucciso, e dopo con don Rodrigo, e nell’incontro di Borromeo con l’Innominato, e più tardi con don Abbondio. Questi incontri sono le varie stazioni, o per dir meglio i quattro atti di questo mondo ideale, a cui succede il quinto, un atto più divino che umano, la catastrofe della peste. Non si può dire che il successo materiale sempre ci sia, perché Borromeo riesce così poco a convertire don Abbondio, come padre Cristoforo a convertire don Rodrigo, e ci spendono invano tutta la fiamma della loro eloquenza; ma la vittoria ci è sempre, e don Abbondio se non è convertito, è sinceramente commosso, e don Rodrigo può bene svillaneggiare il frate e cacciarlo via, ma non può cancellare dalla perversa immaginazione quel vindice: «Verrà un giorno!» che vi riapparirà nel dì dell’espiazione. Si può dire che queste famose vittorie sono in fondo gare di eloquenza e lotte di parole; che il movimento è di discorsi più che di azioni; che vi si odora un certo fare predicatorio e da panegirista; e che troppo vi si scopre un’intenzione propagandista apostolica, un bandire ad alta voce il proprio mondo morale nella maggior gravità e solennità degli avvenimenti. Tutto questo si può dire, e si può conchiudere che, come l’intenzione storica ha introdotto nel corpo stesso del racconto note e appendici e spiegazioni erudite, così l’intenzione etica-religiosa ha dato all’intonazione talora un accento e un’enfasi troppo oratoria e quasi da pulpito. Sono gli avanzi di un mondo intenzionale domato dall’arte, e pure qua e là resistente.
Tal è questo doppio materiale del racconto, una storia ideale intessuta e immedesimata in una trama rigorosamente storica. Tale Manzoni l’ha concepito, tale lo ha armonizzato.
E ciascuno vede quale sia la sua importanza. Innanzi tutto è nuovo e originale. La trama storica esclude qualsivoglia filo o colore di comuni repertorii. E il concetto, quantunque sia il vecchio concetto della poesia italiana, cioè il trionfo cristiano dello spirito sul senso, o della ragione sulle passioni, cantato in varie guise da Dante a Metastasio, pure qui riapparisce guardato da nuovi aspetti e in un ambiente tutto moderno. Lo spirito cristiano, purificato d’ogni sua esagerazione ascetica, dommatica, simbolica e liturgica, è qui avvicinato possibilmente a un puro umanismo etico e artistico, quale possono concepirlo e ammetterlo anche quelli che lo guardano e lo spiegano attraverso alla scienza. È lo spirito religioso nel suo senso più elevato e generale, incarnato in una forma storica, pure superiore a quella, e quale una vista puramente umana potrebbe concepirlo in tutte le forme. E non in questo solo si rivela il suo carattere moderno, perché vi è collegato uno spirito patriottico e democratico. Trovi qui un quadro animato della dominazione straniera, con un’aria quasi d’indifferenza, che aggiunge allo strazio; perché il dominatore non ha coscienza della sua violenza, e il dominato non ha coscienza della sua servitù, e uno stato di cose innaturale e violento ha quasi faccia di un assetto normale e tranquillo. La verità storica s’impone all’Autore che ti fa un quadro muto, senza spiegazione e senza indignazione, un quadro muto nella sua crudele verità, pure di maggiore efficacia sugli animi finamente educati, che non sono in altri scrittori le plebee violenze del linguaggio.
Questo contenuto religioso e patriottico è penetrato visibilmente da un soffio democratico. E non è già la democrazia, come la s’intendeva nel secolo XVIII, lotta e vittoria delle classi inferiori sulle altre. Chi guardi l’esterna ossatura del romanzo, vedrà personaggi plebei tenere il primo luogo nell’attenzione de’ lettori, e lottare e vincere di rincontro a nobili violenti e a borghesi corrotti. Pur questa non è lotta di classi, né lotta simile poteva aver luogo senza sciocco anacronismo in un secolo, dove non era ancora alcun sentore di uguaglianza sociale e di dritti individuali. Lotta non c’era, perché non ce n’era il sentimento. E popolo non c’era, o per dir meglio c’era il popolo, quale con una conoscenza così profonda e insieme così ironica l’ha messo in iscena Manzoni. Gli stessi eroi del romanzo, Renzo e Lucia, non perdono mai la coscienza del loro stato, e senza maraviglia mangiano a tavola distinta nel banchetto dato in loro onore dal signore del castello, anzi la loro maraviglia fu di essere visitati da quello, sì che parea che «anche le scabre e nude pareti, e le impannate e i deschetti e le stoviglie si maravigliassero di ricevere fra loro un ospite così straordinario». Qui ci è democrazia in un senso più elevato; perché qui gl’individui sono interessanti non per le loro qualità intellettuali o sociali, o di classe, o di fortuna, ma per il loro valore morale. Lucia e Renzo interessano, ancora che plebe, e padre Cristoforo interessa non meno che il cardinale Borromeo, la cocolla non meno che la porpora. Non è il titolo, e non la ricchezza, e non la dignità, e neppure la scienza che crea l’interesse estetico; è il carattere morale, non privilegio di classe o di professione, ma partecipe a tutti: ideale democratico, che è la negazione di ogni aristocrazia di convenzione.
Il contenuto adunque è in se stesso nuovo e interessante. Ma cosa è il contenuto? È materia greggia. Non è ancora arte. È il dato del problema, non è il problema. E quei critici, che in pro o contro Manzoni discutono astrattamente delle sue opinioni, del suo ideale e del suo reale storico, sono fuori dell’arte, e non aggiungono e non tolgono nulla al valore del libro ed alla grandezza dell’artista. La quistione vera è questa: — Dato un contenuto così o così, vive egli? — . Contenuti astratti, nuovi e interessanti che sieno, non hanno alcun valore, se il poeta non ha la potenza di rifletterli nel suo spirito e riprodurli come un nuovo organismo, dove si senta l’impressione fatta nel cervello, e l’elaborazione e la nuova formazione. Or questo processo interiore costituisce ciò che in linguaggio scientifico dicesi «forma», da non confondersi con simile parola adoperata da’ retori a significare le sue apparenze più grossolane. Un contenuto religioso, patriottico e democratico è più o meno il segno che questo secolo porta in fronte, comune a’ mediocri ed a’ sommi. La grandezza si misura dalle qualità personali che vi spiega l’artista. Ed è solo su questa via che possiamo spiegarci perché Manzoni sia salito a un posto così elevato nella opinione universale.
[Nella Nuova Antologia dell’ottobre 1873, vol. XXIV, pp. 225-42].