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II. La poetica di Manzoni

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II

LA POETICA DI MANZONI

Il mondo epico-lirico di Alessandro Manzoni, determinato certamente dall’ambiente morale e letterario in cui si trovava, è un prodotto spontaneo della sua immaginazione. Lì dentro c’è un nuovo mondo e un nuovo uomo, divenuto il suo tipo, il suo ideale, ch’egli si sforza di realizzare ne’ suoi lavori posteriori. Le sue tragedie storiche, il suo romanzo storico, sono questo stesso ideale calato nella storia.

Ma qui si sviluppa nel poeta una coscienza critica. A quel tempo gli studii storici e gli studii critici andavano di pari passo col più esagerato spiritualismo. Era reazione filosofica letteraria e storica. La Storia generale della letteratura di Augusto Schlegel e il Corso di letteratura drammatica del fratello Federico facevano la più viva impressione sugli spiriti. Vi si vedevano i giudizii letterarii capovolti, e messi giù quegli autori, che per il passato erano i più riputati, Alfieri con tutti gli antichi tragici italiani, e Corneille, Racine, Crébillon, Voltaire, lo stesso Molière, Metastasio, Goldoni. Sorgeva una nuova pleiade letteraria fino a quel punto ignota o spregiata, Lopez de Vega, Calderon, Shakespeare, Guarino e Carlo Gozzi. Un mutamento così radicale ne’ concetti e ne’ criterii trovava una grande resistenza in Francia e in Italia, dove regnavano senza contrasto le forme classiche: le discussioni più vive erano intorno alla tragedia. A questo rinnovamento letterario-filosofico partecipava la storia. La scuola italiana dal Machiavelli al Romagnosi avea già le sue tradizioni, [p. 20 modifica]le sue opinioni stabilite. Una nuova scuola inaugurata da Carlo Troya metteva in discussione quei dogmi, confutava le dottrine meglio accertate. Il giovane Alessandro Manzoni era con questa. Si diè tutto agli studii storici, consultando le fonti primitive e immediate con animo libero da preconcetti e da immaginazioni. E insieme rifece la sua educazione letteraria, si pose in comunione intima con Goethe, con Fauriel, iniziò in Italia la nuova critica. Il gran peccato del secolo decimottavo era di aver profanata la storia, travisando i fatti, assoggettando la verità storica alle passioni politiche. E il gran peccatore era Alfieri, che avea nelle tragedie fatto così disonesto strazio della storia, generalizzando gli avvenimenti e collocando i personaggi fuori del tempo e del luogo. Da queste opinioni, da queste tendenze uscì una poetica, che ebbe una certa influenza sulla sua attività artistica, come si può raccogliere da’ suoi Discorsi storici e critici, notabili per finezza d’analisi e per grazia di esposizione.

La gran lite, dicevo, era intorno alla tragedia. E chi vuol vedere come Manzoni concepì la tragedia, vegga prima come l’aveva concepita Alfieri.

Quando Alfieri compone la tragedia ha innanzi un tipo, mettiamo il tipo della madre, del tiranno, del ribelle, del patriotta. A lui poco importa, se questo tipo sia conforme, e sino a qual punto, con la storia; prende il nome, prende i fatti in grosso, come li trova, senza esame e investigazione propria, poi lavora lui, lavora d’immaginazione, mira a raccogliere nel personaggio tutte le qualità che possono rappresentare nella sua ultima potenza quell’ideale che gli fluttua nella mente.

Cosa nasce da questa maniera di formazione? Il punto di partenza non è il reale, la storia, ma un tipo intellettivo riscaldato dall’immaginazione. Perciò la composizione è di sua natura intellettuale o tipica, cioè a dire i fatti non si succedono, come sono stati nella vita e nella storia, ma sono ordinati logicamente e predisposti ad un fine così come un filosofo disporrebbe le sue idee: hai come tante proposizioni ben connesse, ordinate sotto una proposizione generale che è il risultato, il quod erat demonstrandum.
[p. 21 modifica]        Da quest’ordine più intellettuale e logico che storico, nasce da una parte mutilazione, dall’altra esagerazione; perché l’Autore mentre taglia alcune parti, che giudica estranee al suo concetto, altre le stira per alzarle fino al suo tipo.

E tale è anche il meccanismo. Le famose unità vi sono anche esagerate, si va diritto e rapido, è un corso d’idee e non è un corso di cose.

E perché il personaggio è ideale, cioè fuori della vita comune, un eroe, un Iddio; parla dal tripode, a guisa di divinità dell’Olimpo, in tono solenne e concitato, possibilmente lontano dal linguaggio e dall’accento ordinario della vita.

A questa forma assoluta e astratta contrapponeva la nuova critica il dramma, dalle forme larghe e libere, venute fuori da un processo generativo spontaneo, anzi che da combinazioni intellettuali. Su questa base edificò Manzoni la sua tragedia storica.

Manzoni non prende per base della sua tragedia una idea, ma il fatto storico, come è realmente avvenuto, e non si attenta a mutarlo o alterarlo nelle sue circostanze essenziali, anzi si studia di riprodurre la sua fisonomia fino ne’ menomi particolari. Perciò propedeutico alla sua tragedia è uno studio diretto e personale del periodo storico a cui quella si riferisce; e non si contenta di pigliare la storia nelle tradizioni e nelle opinioni ricevute, ma fa lui nuove ricerche sopra fonti primitive giungendo a nuove conclusioni. Prima che si manifesti il poeta, c’è lo storico originale, paziente e compiuto nelle indagini, acuto ne’ giudizii, stringente nella polemica, con molto spirito, con molto buon senso, come si rileva ne’ Discorsi storici che accompagnano le sue tragedie, scritti con un brio e una naturalezza, con una precisione e un andamento analitico che nel più schietto stampo italiano ricordano i modelli più stimati della prosa francese.

Quando di mezzo a’ suoi studii storici gli esce una conclusione nuova e interessante, ecco comparisce il poeta, eccogli innanzi l’idea e la materia della tragedia storica. La sua idea non è anteriore e superiore alla storia, come in Alfieri, ma è il risultato di ricerche serie e positive. La sua materia non è una costruzione intellettuale, subordinata a certi concetti e a certi [p. 22 modifica]tipi, ma è pura storia riprodotta con la più scrupolosa esattezza. Perciò, mutata la base, mutato è il meccanismo, o il «metodo», com’egli dice, e ne segue una tragedia che è proprio il contrapposto della tragedia alfieriana. La composizione non è un nesso logico di fatti convergenti alla rappresentazione di un ideale, ma è la successione degli avvenimenti, come te la dá la storia, successione non pedantescamente cronologica sì che l’insieme sia un tessuto di scene scucite e accozzate insieme arbitrariamente, e senza alcuna ragione intrinseca, come sosteneva Zaiotti, il Castelvetro di quel tempo, ma ordinata con una misura o proporzione interiore, che induceva il poeta a pigliarsi certe «licenze», come egli le chiama. E in verità non bisogna immaginare che il metodo di Alfieri o il metodo di Manzoni fossero eseguiti con tale assoluta esattezza da condurre all’assurdo. Altra è la teoria, altra è la pratica. E se il critico generalizzando ti dà determinazioni fisse e rigide, se il pedante vi si tiene stretto a spese del buon senso e della verità poetica, l’artista vi si muove liberamente ed ama meglio pigliarsi le sue «licenze», che contraddire al suo senso intimo. Manzoni dunque, mentre non perde mai di vista il filo cronologico, pur situa e sviluppa i fatti in modo che ti rimanga sempre presente il tutto, e non sperda la tua attenzione nelle parti: v’è in quella successione una misura o armonia ulteriore. E non solo ci è una misura, ma un fine, perché lì dentro ci è una idea storica, frutto di lunghi studii, e i fatti sono situati e sviluppati in modo adeguato a quell’idea, sì che tu non vegga un puro gioco del caso, ma una storia ragionevole nella maggior libertà e varietà degli accidenti. La ragionevolezza di Alfieri è un fatto principalmente logico, come fosse una successione d’idee necessaria e assoluta a modo di un sillogismo, senza alcun rispetto alla realtá degli avvenimenti, ch’egli adopera come istrumenti de’ suoi concetti, sopprimendo, esagerando, mutilando, e ficcandovi dentro le invenzioni della sua immaginazione. La ragionevolezza di Manzoni è la storia in tutta la libertà de’ suoi movimenti, mantenuta nella sua integrità, pur guardata da uno spirito intelligente, che può misurarla, perché sa comprenderla. L’idea di Alfieri è l’idea sua, a cui [p. 23 modifica]servono gli avvenimenti. L’idea di Manzoni è quale risulta dagli avvenimenti, non generalizzata, non astratta da quelli, ma còlta lì in mezzo, nell’esercizio della vita, tra gli accidenti e la varietà e spesso le contraddizioni della storia. Perciò Alfieri ci può dare una composizione breve, rapida, calda, diritta, chiusa facilmente in limiti angusti di tempo e di spazio e di azione; perché è lui che forma la storia. Manzoni al contrario, perché l’idea non è lui che la inventa e la realizza, ma gli è data, e non nella sua purezza, quale si trova nella mente, ma già reale, mescolata e modificata nella varietà della vita, allarga la trama della sua composizione, offre alla immaginazione aggruppati avvenimenti varii che oltrepassano i consueti limiti delle famose unità. I limiti non è lui che gl’impone a’ fatti, ma gli son dati con essa l’idea. C’è sempre Procuste; ma il Procuste non è lui, è la storia. Altra base, altro metodo, altri limiti, e ancora altro linguaggio. I personaggi non sono più iddii o eroi, tipi in forma d’uomo, ma sono veri uomini, con la loro forza e la loro debolezza, e parlano il linguaggio comune, smessa ogni convenzione, o declamazione.

Così nacque il Carmagnola, e così nacque l’Adelchi. In quei tempi, mancata ogni vita pubblica, i lavori letterarii anche mediocri destavano grande interesse. Le due tragedie suscitarono molti lavori critici non solo in Italia, ma anche in Francia e in Germania. Anche il massimo Goethe prese parte alla lotta. I critici inglesi e anche i tedeschi trovarono la novità troppo modesta, e quasi timida. A’ nostri e a’ francesi parve un’audacia, quasi una profanazione. Era roba non tedesca e non francese; era pensiero originale del giovane, che pur cadendo volea si dicesse: «sull’orma propria ei giace».

Il Carmagnola, concepito nel 1816, fu pubblicato tre anni dopo. L’argomento non piacque al Goethe. Voleva materia più vicina e più interessante, per esempio la Cessione di Parga, che ispirò poi Berchet. Ma come venne innanzi a Manzoni il Carmagnola? Fu un pensiero storico il tentatore.

Studiando in quell’epoca e in quella vita, gli parve un secondo assassinio il giudizio degli storici contemporanei e [p. 24 modifica]posteriori, che l’uno sulla fede dell’altro lo tennero reo di tradimento e punito con giustizia dal Senato Veneto, e gli parve che il Conte fosse innocente senza che il Senato fosse reo. La sua tragedia ha un interesse storico, che si fa valere per se stesso, fuori della poesia, la riabilitazione del Conte di Carmagnola.

Chi abbia ragione o torto, Pietro Verri che accusa, o Manzoni che difende, poco importa: la tesi appartiene agli storici. Guardiamo la tragedia.

I critici italiani e francesi guardarono subito al suo meccanismo, Era la negazione di Corneille, di Racine, di Alfieri. E il vecchio classicismo si risentì. Ecco in qual modo questa tragedia avrebbe dovuto esser condotta col metodo classico. Chauvet, dopo di averne fatta la critica, rifà la tragedia. Secondo il critico francese, il quarto atto dovrebbe essere il primo; i tre atti che precedono sono superflui. La sua tragedia comincia quando scoppia la lotta tra il Senato e il Carmagnola, non potendo essere questa tragedia che la rappresentazione della lotta. Nasce ciò che in linguaggio drammatico dicesi «collisione», il conflitto, forze opposte a forze. Il Conte è appoggiato sul suo esercito: la moglie e la figlia non dovrebbero rimanere oziose e comparire solo in ultimo a piangere, dovrebbero operare anche loro; anche il popolo dovrebbe prender parte pel Conte contro quell’oligarchia sospettosa che dice vasi Senato. Da una parte dunque, il Conte, col popolo, l’esercito, la sua famiglia; dall’altra il Senato e tutti gli elementi governativi: ecco già materia sufficiente per cinque atti. E Chauvet aggiunge: — Dovrebbe avvenire che il Conte, vicino a schiacciare il Senato, tutt’a un tratto si arrestasse trattenuto dal sentimento dell’onore e dalla fedeltà alla parola data. Nascerebbe la collisione al di dentro di lui, e mentr’egli esita e delibera, il Senato lo fa arrestare e condannare — . Questo è il disegno del classico Chauvet. Come si vede, neppure il 1815 era riuscito a quadrargli la testa. La sua tragedia è un misto di colpi di Stato, colpi democratici, e colpi melodrammatici.

Manzoni nella sua celebre lettera in risposta al critico confuta il disegno con osservazioni giuste, che meglio chiariscono [p. 25 modifica]le sue idee poetiche. — È bene immaginato, egli dice, ma non ha nulla che fare con la storia. A quei tempi popolo non c’era, popolo consapevole di sé, tale da poter gettare il suo peso nella bilancia. L’esercito era lontano, e se fosse sopraggiunto a tempo, avrebbe schiacciato il Senato anche contro la volontà del Conte. Le donne non prendevano parte alle lotte politiche, rimanevano in casa e perciò non appariscono che all’ultimo. Tutto questo bel romanzetto di Chauvet non è tragedia storica, e il fondamento dell’interesse tragico dee nascere dal movimento storico e non da un semplice fantasticare — .

Se il nuovo metodo dispiacque ai classici, dovea piacere in Germania e Inghilterra, e Manzoni trovò uno strenuo difensore in Goethe, che in due articoli successivi fece una fina analisi della tragedia. Celebra quello appunto che era materia di biasimo. La trovavano scucita nelle scene, indeterminata nei caratteri, fredda negli affetti. Goethe con l’aria di chi ignora le accuse, scrive lodi che sono difese. E quanto alla connessione delle scene, osserva con qual sapienza è condotto il primo atto, che contiene l’esposizione della tragedia. Nelle tragedie classiche, in generale, suole un confidente, parlando al suo signore, raccontare gli antecedenti. Qui subito comincia l’azione, il Senato Veneto delibera intorno alla guerra contro il Visconti; comparisce il Carmagnola, al quale si dà il comando dell’esercito; e dalla stessa azione l’Autore fa intendere chi è costui, quale è stata la sua vita, qual è il suo carattere. La moglie e la figlia, che compariscono in ultimo, sono qui ricordate come per caso. E quando Marco, amico del Conte, lo riprende della sua alterigia e gli dà consigli di prudenza, intravvedi già la catastrofe, che è prodotta appunto dall’indole subitanea e orgogliosa del Conte. Hai dunque una esposizione che è a un tempo già azione, e condotta con tale coscienza dell’insieme, che ce lo vedi già dentro in embrione. Nel secondo atto sono due scene in contrasto, che fanno presentire da qual parte sarà la vittoria: da una parte i generali del Visconti, discordi di tendenze e di opinioni; dall’altra il Conte nella calma della sua forza, che dà le sue disposizioni, sicuro dell’ubbidienza. E non solo la distribuzione delle [p. 26 modifica]scene è assennata, ma anche la gradazione dei caratteri. La buona fortuna, la confidenza soverchia in se stesso toglie al Conte di veder chiaro, sì che cade nel tranello tesogli dal Senato, dove il Gonzaga, tanto a lui inferiore d’ingegno e di esperienza, ma di giudizio sano, non guasto dalla buona fortuna, vede subito l’inganno e non è creduto dal Conte. Il contrasto fra la fatuità del Carmagnola e il buon senso del Gonzaga dà luogo a una scena che fa molta impressione sul critico tedesco. Il quale trova anche assai ben disegnato il Doge che rappresenta la ragion di Stato, e sente e libra i diversi pareri; mentre al disotto di lui Marino, che rappresenta l’egoismo patriottico, è pronto a spezzare un istrumento divenuto pericoloso, e Marco, che rappresenta le idee di umanità e di giustizia, cerca indarno di salvare l’amico. Anche i due Commissarii veneti nel campo sono ben graduati, l’uno ardito, espansivo, l’altro chiuso in sé, calmo e furbo. Quanto al patetico, la tragedia al dire di Goethe è come un tranquillo fiume, che giungendo al mare spumeggia e strepita. Le lagrime commovono piú, quando sono ben preparate e a lunghi intervalli. Indi l’effetto dell’ultimo atto.

Adunque scene ben distribuite, caratteri ben graduati, patetico bene apparecchiato. Goethe ha ragione contro i critici classici. Non ci è un metodo unico ed immutabile in arte. Anche Manzoni ha il metodo suo, e questo metodo è buono. Non è metodo inglese, né tedesco, né francese e neppure italiano, non è metodo classico, e non romantico, è il metodo di Manzoni, dove la libertà della teoria è temperata nella pratica dalle condizioni teatrali, dalle abitudini e dai pregiudizii degli spettatori. È una libertà «moderata», la meno lontana dalle abitudini classiche, generalizzate, alzate a regola, divenute il «buon gusto», parola formidabile, con la quale si rispondea a tutte le novità, a tutte le obbiezioni.

La lettera a Chauvet di Manzoni e gli articoli di Goethe pongono fine alla questione di metodo. Si può conseguire tutti gli effetti drammatici con un metodo che non sia quello di Racine e di Alfieri. L’artista si forma lui il suo metodo, e non lo cerca già nella sua immaginazione, lo cerca nel suo argomento. Il metodo è la cosa stessa nel suo «divenire».
[p. 27 modifica]        Pure un buon metodo non ti dà ancora una buona tragedia. Ben congegnare le parti, ben graduare i caratteri, bene apparecchiare gli affetti, trovar certi contrasti, gittar certe ombre, sono finezze di una conscia intelligenza. Hai innanzi una intelligenza superiore, non hai ancora il poeta. Può essere una sapiente combinazione quale ce la potrebbe dare anche un critico o un filosofo, anche Gian Vincenzo Gravina. La quistione di metodo non è dunque la quistione essenziale.

Il metodo suppone una materia nel suo movimento determinato dalle leggi, dalle forze, dagli istinti, dai fini che la muovono; e il metodo non è se non questo istesso movimento. Il poeta coglie la sua materia in un dato momento del suo cammino, e la segue nella sua evoluzione sino al termine, dove è la mira o il fine, il punto d’arrivo. In tutto questo processo, appunto perché ci è un fine, una tendenza, c’è un’idea determinata, la «mente del cammino». La materia còlta in quel dato momento, in quel complesso di circostanze, con quegli stimoli, con quel fine, in una sua posizione concreta e determinata, acquista un carattere, diviene una «situazione». Il metodo suppone dunque una materia in quanto è già «situata», cioè messa in una posizione sua propria, nella sua personalità, con un suo carattere. Ed una situazione suppone una idea determinata, la tendenza ad un fine con più o meno di energia: onde nasce la necessità del movimento e dell’azione.

Parrebbe che quando una materia fosse ben situata e sviluppata in modo adeguato al suo fine o alla sua idea, non si potrebbe desiderare altro. Ma come ci è un metodo astratto, c’è un ideale astratto. Il critico non si contenta che un’idea ci sia; la dee esser questa o quella secondo certi preconcetti, che si dicono estetica, come il metodo dovea esser quello o questo secondo certe regole che si dicevano arte poetica. Chauvet voleva imporre a Manzoni la sua arte poetica, e Klein gli vuole imporre la sua estetica. L’uno rimane al metodo, l’altro si alza all’idea; questa critica è certo più elevata, ma non è meno assoluta.

Un pensiero storico non è per ciò solo un pensiero poetico, e tanto meno tragico. Che il Carmagnola sia innocente o reo, è [p. 28 modifica]una questione di fatto, che può dare occasione a una memoria, a una tesi, a un’arringa, ma che non è per questo solo materia di tragedia. Una catastrofe ci è, l’uomo condannato a morte. Era reo? Era davvero un traditore, come sentenziò il Senato, e come rimase opinione comune? E se era reo, hai la tragedia bell’e fatta, fondata sulla tradizione. Ma no, il Carmagnola era innocente, e il Senato non era reo. Questa è la conclusione che tira Manzoni dai suoi studii storici, e che sostiene come un bravo avvocato, in un suo discorso. Hai fin qui la tragedia? Non ancora. La tragedia non può essere un’apologia; è una rappresentazione. Se il Carmagnola fu un traditore, hai già una idea tragica da sviluppare; se non fu, hai pensiero negativo e polemica. Perché la tragedia sia possibile, bisogna che tu mi trovi il significato di quella catastrofe, perché la tragedia non è una polemica, o una discussione, è una storia positiva messa in azione. Se non fu traditore, cosa fu? come andò il fatto? perché lo condannò il Senato? In questo nuovo «perché» è l’idea e il motivo della tragedia, il significato della catastrofe.

Ma non basta che un significato ci sia, bisogna che il significato sia interessante, tragicamente. La tragedia non può rimanere nella cerchia dei fini personali e consapevoli, ed è poco interessante il sapere quali fini mossero il Carmagnola o il Senato, e chi aveva ragione, e chi aveva torto. Al di sopra dei personaggi c’è un mondo morale superiore, dov’è a cercare il vero motivo della tragedia. L’importante non è di sapere se il Carmagnola fu reo o innocente, dirimpetto ai suoi giudici; ma è di sapere, quale fu la sua posizione dirimpetto a quel mondo superiore. Anche innocente innanzi agli uomini, anche ingiustamente condannato, se venne meno alle leggi di una giustizia superiore, la catastrofe fu meritata, fu una espiazione, fu il suo «fato», e qui è l’interesse, qui è il motivo tragico. Coloro che lo condannarono, furono forse umanamente ingiusti, se tu li guardi nei loro fini personali; ma essi furono un istrumento inconsapevole di una giustizia superiore.

Così ragiona l’estetica, e il Klein, ch’è un estetico, domanda: — Qual interesse volete che pigliamo noi per un avventuriere [p. 29 modifica]senza patria, mosso da semplice egoismo, da sete di comando e di vendetta? Un uomo simile è spregevole, non ha anima tragica — . E come Chauvet, rifà lui la tragedia, appiccandoci quei fini e quei concetti che richiede l’estetica. La catastrofe è qui una giusta espiazione, il ben ti sta. L’eroe può essere riabilitato innanzi alla giustizia umana, ma rimane colpevole innanzi all’ordine morale e divino delle cose. Opera per fini personali, soggiace a fini personali. Ben gli sta: la sua sorte non mi commove. Preferisco il Senato Veneto che fu ingiusto per patriottismo a codesto eroe che fu giusto per egoismo. Il poeta è la voce universale, e senza sforzare la storia, quella voce dev’esserne l’accento e lo spirito. — Tu non avevi patria — ; questa voce dovrebbe sentirsi come alito in tutta l’azione. E se nel petto del poeta, nota Klein, ardesse il sacro foco del patriottismo, questa voce non mancherebbe, avremmo la tragedia nazionale e patriottica, e non già solo un Coro patriottico1. Ma pure volendo riabilitare il Carmagnola, potrebbe la catastrofe avere questo significato, che l’eroe morisse capro espiatorio delle colpe de’ capitani di ventura; egli è il meno reo, pure paga per tutti, come Luigi XVI, il men cattivo de’ Re, espiò con la sua testa le colpe de’ suoi antenati. Questo pensiero balenò innanzi al poeta quando scrisse:

E venduto ad un duce venduto
Con lui pugna e non chiede il perché.
Ma rimane voce isolata e non penetra nella trama, non diviene l’idea, il senso della tragedia.

Manzoni rispose a Chauvet: — Bene immaginato; ma questo non è la storia — . E qui potrebbe rispondere il simile. — Fo una tragedia storica. E se volete giudicarmi, lasciate star la tragedia delle vostre arti poetiche e delle vostre estetiche; esaminate la tragedia mia, quale io l’ho concepita, ne’ miei limiti e ne’ miei intendimenti. Un mondo morale c’è, non quale io ce l’ho messo, [p. 30 modifica]ma quale io ce l’ho trovato. Non è il mondo mio, è il mondo dei miei personaggi. Non ho voluto riabilitar nessuno. Non ho voluto rifare la coscienza a nessuno, non sostituir me alla storia — .

Fatto è che Manzoni non rimane in questo realismo storico. Il suo buon senso gli dice che con questo solo la storia c’è, ma non c’è ancora l’arte, non c’è la tragedia. Poi, il poeta degli Inni ha dentro di sé tutto un nuovo mondo religioso e morale, che gli si mette attraverso alla storia. E non volendo rinunziare all’ideale, e non volendo adulterare il reale, li mette di rincontro, storia e invenzione, mondo reale e mondo ideale. Così nacque la celebre teoria de’ personaggi reali e inventati, un mondo misto, storico-poetico, dove storia e poesia, ciascuna nella sua sfera, s’incontrano senza toccarsi, l’una fuori dell’altra. Dirimpetto alla storia ci è il Coro, la voce del poeta; e in mezzo alla storia sorge la figura di Marco, l’idea di un mondo migliore rimasto vittima della ferrea età.

Trovare una combinazione, dove storia e arte, reale e ideale, l’avvenuto e l’inventato potessero coesistere, distinti nella loro unione, fu fin d’allora il problema che tormentò il nostro artista. Collocare il suo ideale in un mondo rigidamente storico e positivo, non confondere i due mondi l’uno con l’altro, anzi tenerli così spiccati nella loro differenza che il lettore possa dire: — questa è storia, e questa è invenzione; questo è reale, e questo è ideale — ; suscitare un doppio interesse, un interesse storico e un interesse artistico, pure in tal modo che il tutto sia omogeneo, con unità di composizione e d’interesse; questo fu lo studio, nel quale Manzoni si ostinò con la paziente tenacità d’un convincimento sincero. Questo tentò nel Carmagnola, ritentò nell’Adelchi, questo si sforzò di conseguire ne’ Promessi Sposi. E quando in mezzo agli applausi del pubblico il suo intimo senso lo avvertì che l’intento non era ottenuto, diè torto al pubblico, giudicò il suo lavoro un genere ibrido, e sentenziò il problema essere assurdo e d’impossibile soluzione. Così il critico condannò l’artista. Ma il pubblico applaudiva all’artista e non rispondeva al critico. Fenomeno non nuovo, chi ricordi Torquato Tasso. Se non che Tasso continuò come critico, e volendo far meglio, fece [p. 31 modifica]peggio; Manzoni, condannando se stesso nel suo Discorso sul Romanzo storico, si chiuse nel suo discorso, come Cesare nel suo manto, e tacque. Il critico impose silenzio all’artista.

E non è a dire, quanto ingegnosi siano stati questi tentativi dell’artista intorno a un problema, che all’ultimo il suo senso critico dovea dichiarare assurdo. Era tra due correnti. Da una parte l’incalzava quel suo mondo degli Inni, un mondo morale superiore consacrato dalla religione, divenuto il suo ideale, il suo mondo poetico. Collocare questo suo mondo nella sua purezza in mezzo alla storia, fare della storia un istrumento di quello, come voleva Goethe, era un rinnovare Alfieri, gli pareva una falsificazione. Giacché dall’altra parte gli stava di contro la storia, l’avvenuto, nella rigidezza della sua realtà, estranea alla sua coscienza e al suo mondo morale. Come fare? Ti rappresenta quel mondo del Carmagnola nella sua realtà, e quando quella realtà diviene proprio la negazione del suo mondo morale, prorompe il poeta, brilla in accenti lirici il suo ideale. È chiaro che l’ideale rimane come rilegato nel Coro, senza contatto con l’azione, rimane lirico, non diventa drammatico. È come un intermezzo poetico in quella prosa. Il Coro greco è legato strettamente con l’azione, è la spiegazione e l’impressione di quella; qui il Coro è la reazione del poeta, è l’impressione sua e dei contemporanei, la maledizione della storia in nome dell’idea; ma la storia continua la sua via e non l’ode. Il Coro rimane un «a parte», lo sfogo del poeta innanzi ad una rappresentazione che fa sanguinare il suo cuore di cristiano e di patriotta. A poco a poco quel Coro si è sciolto dal tutto, al quale apparteneva, ed è rimasto un bel pezzo lirico, gl’inni in continuazione, con quell’accento e con quella intonazione un po’ rettorica, che si purifica per via e si alza alla semplicità e verità del sentimento.

Il Coro è dunque un primo mezzo escogitato dal poeta per situare il suo ideale. E il Coro fa stacco, ha interesse e fine proprio, non entra nella trama, scoppia in occasione del dramma, ma non vi penetra, non ne modifica l’andamento.

E ci è un altro mezzo. Il poeta crea lui un personaggio, e lo gitta in mezzo al dramma, come voce o presentimento di un [p. 32 modifica]mondo più civile, conforme al suo ideale. A questa concessione dobbiamo il Marco, l’Adelchi, l’Ermengarda.

Marco è un’immagine appena abbozzata. Lo schizzo diventò figura e si chiamò Adelchi. È l’ideale dannato a vivere in tristi tempi, che vi si dibatte e vi si consuma. E se questo ideale avesse vera energia, se potesse impegnare una lotta seria con la sua età, come Savonarola, sarebbe esso il dramma, l’invenzione inghiottirebbe la storia. Ma poiché un interesse storico v’ha pur da essere, il povero ideale è costretto a lasciar passare la storia, e a giacere sotto il peso di quella con molti lamenti e con poca resistenza. Marco o Adelchi che sia, l’ideale rimane secondario innanzi alla grandezza degli avvenimenti, e si lascia tirare da quelli, invano ripugnante. Ciò che lo accora, è appunto quel lasciarsi tirare, quella coscienza della sua impotenza; onde nasce un ideale elegiaco, passivo, mancato, lirico e punto drammatico, assai vicino a quelle creature patite e sentimentali che allora erano in voga.

Tentativi mal riusciti. Perché l’azione storica è di tanta importanza, che non patisce compagnia di elementi estranei e vuol regnare sola. Pure l’ideale investe così il poeta che ivi si manifesta tutta la sua genialità, sì che lungamente risuonano nell’immaginazione commossa dei lettori: i Cori, il soliloquio di Marco, le nobili espansioni di Adelchi, e soprattutto la divina Ermengarda e il Coro delle vergini Suore. Rimangono i pezzi staccati, si sperde l’insieme, si sperde quanto di profondo ha messo l’Autore ne’ suoi pensieri storici: quei due mondi, messi dirimpetto, in luogo di formare un tutto omogeneo e concorde si sciolgono, e l’uno muore, l’altro sopravvive.

Goethe non approvò questa combinazione di mondo storico e mondo poetico, di personaggi reali e ideali. — Tutto è ideale, nota l’autore del Faust; e noi facciamo alla storia l’onore di servircene a rappresentare il nostro mondo morale — .

Manzoni approvò la conchiusione, ma non le premesse. Condannò anche lui quella combinazione; gli parve un mezzo sbagliato. Ma quell’idealismo assoluto di Goethe non gli andava, era un rovesciare da’ cardini tutta la sua poetica. Mantenne la sua teoria, e cercò un altro mezzo.
[p. 33 modifica]        Ne’ Promessi Sposi capovolse quella combinazione. Fece della sua invenzione il quadro, e della storia un semplice fondo, di modo che quel suo mondo ideale inviluppato in un mondo storico, che gli dà tutta l’illusione di una esistenza piena e concreta, diviene il vero centro vivente, l’unità di tutto il lavoro.

Il problema a noi pare risoluto; ma non parve a Manzoni, che guardava quella geniale produzione con la lente della sua teoria. Faceva un romanzo storico, e gli pareva che oltre all’interesse artistico ci dovesse esser là dentro un interesse storico. Far comprendere bene un’epoca, mostrarla nel suo spirito, nei suoi lineamenti, nelle sue istituzioni, ne’ suoi costumi, ne’ suoi vizii e nelle sue virtù, questo gli pareva il fine sostanziale d’un romanzo storico. E perché quel fine non è ottenuto, perché qui l’interesse storico è offuscato da un interesse più potente, perché quando vuol metter fuori il capo esso solo, nasce una dissonanza e una freddezza nell’ordito, perché al lettore importa pochissimo quello che a lui importa molto, se i fatti sieno avvenuti o inventati, e quali avvenuti e quali inventati, il poeta critico non vi ravvisa la sua teoria, non vi riconosce i suoi fini, e ripudia la sua creatura, e la giudica un essere ibrido, una sconciatura.

Spettacolo interessante e molto istruttivo è la lotta fra l’ispirazione e la teoria, fra la spontaneità artistica e la riflessione critica. L’artista sa quello che vuol produrre, ma non sa come produce. L’atto della produzione gli sfugge. E spesso gli esce altro da quello che si pensava. Se difetto c’è, il difetto è quasi tutto in quello che pur vi è penetrato del suo pensiero, delle sue teorie preconcette. Così è avvenuto a Manzoni, così a Dante e così a Tasso. La loro genialità li salvò dalle loro teorie.

Manzoni lavora sopra un concetto dell’arte, se non falso del tutto, certo esagerato non meno che quello di Alfieri. Lavora con ostinazione, cerca nuovi mezzi, pur mirando allo stesso fine. E nondimeno la sua produzione gli esce sempre dissimile da quel concetto, il suo fine rimane inappagato, il suo problema rimane insoluto, e lascia la penna malcontento. Dovea conchiudere contro il suo concetto, e non contro la sua produzione. Pare involga nella stessa condanna l’uno e l’altra. Modestia d’artista e [p. 34 modifica]superbia di critico. Perché la sua produzione si ribella al problema «come l’ha posto lui», in luogo di fare un ritorno sopra di sé e rettificare il problema, formandosi un concetto più giusto del romanzo storico e più in armonia con la sua ispirazione, si affretta a conchiudere: — Dunque, la mia poetica ha ragione, e la mia poesia ha torto — .

Il torto è tutto della sua poetica. E Terrore sta nel falso concetto che si era formato del reale e dell’ideale.

Il reale per lui è 1 ’esistente e l’avvenuto, il reale della natura e il reale della storia. E per lui il reale dell’arte non è altra cosa, e il reale naturale e storico è quello che i nostri antichi, duce Aristotele, chiamavano l’imitazione della natura. Ma qui comincia la differenza. L’imitazione aristotelica non era riproduzione, era trasformazione. Posto che la natura è una immagine imperfetta dell’idea, l’artista secondo la scuola aristotelica o classica si dee studiare di rendere il reale possibilmente conforme alla sua idea. La natura innanzi all’arte è come materia greggia, destinata ad essere lavorata e trasformata dall’artista, sì che risponda a quel tipo di perfezione, che è nella nostra mente, e non si trova in nessuna parte. Perciò l’istrumento proprio dell’arte non è l’osservazione, ma l’immaginazione, la cui materia sono non le cose reali, ma le ombre e le parvenze di quelle. La poesia, come dice Dante, è ombrifero prefazio del vero, una bella apparenza del vero, una veritá nascosta sotto il velo della favola, è, come dice Tasso, il vero condito in molli versi.

Qui il concetto di Aristotele è oltrepassato e peggiorato. Non è la cosa trasformata o idealizzata, avvicinata al suo tipo, al suo ideale, ma è una immagine del bene e del vero, di modo che il vero e il bene sono la sostanza, e le cose sono semplici loro istrumenti maneggiati dall’immaginazione a rappresentare o manifestare quelli, non sono esistenze, individui perfetti, ma simboli, veli, manifestazioni. Conseguenza di questa dottrina ultra-aristotelica è l’individuo non per sé, ma per l’idea, l’individuo manifestazione, rappresentante di questa o quell’idea: il tale individuo rappresenta il tiranno, il tale altro il patriotta. Platonismo e Cristianesimo conferirono del pari a questa tendenza ascetica [p. 35 modifica]ed allegorica. Si formò nella mente un mondo tipico, l’altro mondo di Dante, un mondo della verità e della giustizia, in cui fu collocato l’ideale, e si sperdettero sempre più i vestigii del mondo vivente, della natura e della storia. Materia dell’arte non fu più l’esistente e l’avvenuto, ma l’invenzione, un mondo fabbricato dall’immaginazione, dove le più strane combinazioni servivano a rappresentare le idee, o semplicemente a generare il maraviglioso. Mancò sempre più il senso del reale: l’immaginazione, segregata dalla vita, nelle cui fresche onde si alimenta e si rinnova, esaurì se stessa in un puro gioco privo di ogni serietà, cominciò co’ concetti, e finì con le freddure. Merito del secolo decimottavo fu un rinnovamento del contenuto, che dovea portar seco anche il rinnovamento della forma. La critica penetrò in quel meccanismo di convenzione decorato col nome di classico, e si studiò di spirarvi una vita organica, riavvicinandolo al reale; naturalezza fu il nuovo verbo.

Metastasio, Goldoni, Beccaria, Cesarotti, Gozzi, si adoperarono con la dottrina e con l’esempio a dare alla forma irrigidita in quella sua pompa artificiosa, manierata e convenzionale, una flessibilità ed una movenza conforme all’andamento della natura. Ma l’educazione rimaneva classica, e le secolari abitudini rendevano sterili gli sforzi della riforma. Gli uni per soverchio studio di naturalezza divennero scorretti e francesizzanti, come Cesarotti, Filangieri, Beccaria; gli altri per soverchio amore d’italianità e di classicità reagirono, e andarono sino al purismo. Questa scuola neo-classica, illustrata da Parini, da Alfieri, da Foscolo, il cui porta-bandiera fu in ultimo Vincenzo Monti, e Pietro Giordani, era animata da un contenuto giovane e rigoglioso, che pur non ebbe la forza di crearsi esso la sua forma, impedito da pregiudizii e abitudini che si chiamavano regole, e da un meccanismo accademico e letterario che si chiamava classicismo. Avemmo contenuto nuovo e forma vecchia, pure spoltrita e infiammata da quel contenuto baldanzoso che covava nel suo seno. Sopravvenne Manzoni, e ripigliò la riforma del secolo decimottavo contro questo nuovo classicismo. Il motivo della riforma è quel medesimo: rappresentare dal vero, secondo natura, [p. 36 modifica]sbandire ogni artificio, ogni maniera, ogni convenzione; ritornava il motto del vecchio Goldoni. Manzoni però esagerava quel concetto, ponendo a base della riforma non il vero, ma il reale, e intendendo per reale l’esistente e l’avvenuto, la natura e la storia. — Guardate il fanciullo, egli dice; subito domanda: è vero?, e si stringe nelle spalle, come un disilluso, se gli fai intendere che è una invenzione. Capisce la realtà, non capisce l’invenzione — . Osservazione giusta, ma che prova contro di lui. Perché nel fanciullo non si è ancora sviluppato il senso estetico, e non capisce l’invenzione, perché non capisce l’arte. Né l’arte è un frutto di tutt’i paesi, e colà stesso ove germina, non matura che assai tardi e dopo lunga educazione. E dove matura, nasce un effetto contrario a quello che Manzoni presume. Perché colui che ha il sentimento dell’arte, ci trova entro una finzione o imitazione dal vero, non il reale positivo o storico, ma un’ombra, una immagine, una parvenza del reale. E non cerca qual fondamento di storia abbia la favola, ma qual fondamento di verità. Il vero chiamisi pure il reale, ma a patto che sia reale artistico, e non naturale e non storico. Achille fu un personaggio storico? L’investigazione può interessare l’erudito, e non dico già che sia una quistione indifferente, dico che è una quistione estranea all’arte. Chi vuol gustare l’Achille omerico, o cosa gl’importa il sapere, quanto in quella rappresentazione è d’avvenuto o d’inventato? Anzi simili quistioni alterano la vera e immediata impressione dell’arte. L’effetto nell’arte non è l’illusione, cioè a dire una rappresentazione così simile al reale, che sia scambiata con esso reale. Da questo falso presupposto sono uscite tutte le assurde regole del verosimile e del probabile, abusate dai critici a tormento degli artisti. E non biasimo i Romani, i quali, posta questa teoria, amavano meglio vedere la cosa effettiva che la cosa rappresentata, meglio gladiatori vivi che gladiatori dipinti. Se l’arte è illusione, produce più facilmente i suoi effetti sulla plebe credula, che sulle scene scambia l’attore col personaggio reale, e nelle chiese scambia l’immagine del Santo con esso medesimo il Santo; e non può generare nessuna dilettazione nell’animo della gente colta, la quale non si lascia illudere, e non confonde opera d’arte con opera [p. 37 modifica]di natura, e appunto in questa distinzione sente e gusta l’arte. Ma se l’arte non è illusione, se ha fine proprio e mezzi proprii, come può fine dell’arte essere l’illustrazione di un’epoca, di un personaggio o di un fatto storico, e sua materia essere il reale positivo, sia storico, sia naturale? Può, ove l’arte cessi di essere sostanza, e diventi un semplice istrumento, una maniera di esposizione più facile e dilettevole, che divulghi e renda popolari le notizie scientifiche, storiche e naturali, come sono le Lettere, i Dialoghi, i Viaggi, e forme simili. Può la storia trarre dall’arte i suoi colori, e può l’arte trarre dalla storia il suo materiale. Avrai storie poetiche e poesie storiche. In tanta vicinanza di confini, in tanta strettezza di relazioni può l’una aiutare l’altra ad ottenere il suo fine, a patto che resti un semplice aiuto, un accessorio utile. Sono generi di scrivere mescolati, che a poco a poco purificandosi, acquistano coscienza di sé, e si separano e traggono i loro mezzi dal fondo proprio. Filosofie poetiche diventano la filosofia; storie poetiche diventano la storia, e poesie storiche o filosofiche diventano la poesia, si purificano anche loro, acquistano coscienza di sé. È la naturale elaborazione della vita, che procede sempre verso la distinzione.

Quando l’immaginazione abusa dei suoi mezzi, esagerando ed astraendo la vita, ecco, il reale è là che la richiama nei suoi confini. Il sentimento del reale diviene l’energia della nuova critica, come fu negl’inizii del secolo decimottavo, e come ritentò Manzoni nel secolo appresso. Ponendo a base dell’arte il reale positivo, Manzoni incoraggiava gli studi serri, raffrenava i soverchi trascorsi dell’immaginativa e dell’astrazione, avvicinava l’arte ad una forma popolare, organica, sciolta da ogni meccanismo preconcetto, svezzava gli spiriti da quelle facili costruzioni improvvisate in pochi giorni, arricchiva l’arte, gridandola in regioni inesplorate, di nuovi elementi e di nuovi motivi. Nella sua critica c’era dunque molto di vero e di utile, e la sua riforma è rimasta come un salutare e serio avviamento dato all’arte. Ciò che è morto, è appunto la sua esagerazione, quella sua confusione fra il vero ed il reale, o, se piace la parola reale, tra il reale artistico e il reale naturale e storico, o per dirlo in una parola, il reale positivo, l’esistente e l’avvenuto. Natura e [p. 38 modifica]storia non è in alcun modo il fine dell’arte, quasi che l’arte debba riprodurre o spiegare o perfezionare quella e questa, ed opera d’arte perfettissima sia quella dove l’illusione o l’imitazione sia più simile alla realtà. L’arte avrebbe così un fine impossibile a conseguire, perché, posta pure una imitazione perfettissima, la sarà sempre una imitazione, sempre inferiore ad essa realtà. Certo possiamo ammirarla come industria dell’ingegno umano, quali sono i fiori artificiali, ma sarà sempre un gioco, che ricorda gl’inizii dell’arte, non sarà mai niente di serio e di autonomo. Natura e storia non sono che un semplice materiale, di cui l’arte si vale pei fini suoi, a quel modo che l’industria si vale delle materie prime per trasformarle e fame «un’altra cosa». Né è necessario che l’arte tragga il suo materiale dall’esistente o dall’avvenuto. Può crearsi essa un materiale tutto o parte d’invenzione, può alterare la storia, può modificarla come le aggrada. Qui è vero il detto che il fine giustifica i mezzi. Tal fine, tal materiale. Può senza dubbio associarsi anche la storia e mantenerla nella sua integrità, essere tragedia storica, romanzo storico, imporsi volontariamente per limite la storia, ma a patto che la storia resti un materiale esattamente riprodotto, sempre solo e semplice materiale, lavorato ad altro fine che non sia la storia. Dare notizia di un’epoca, di un avvenimento, non può esser mai fine di un’opera d’arte. La notizia ci sarà, come ci sarà un concetto filosofico, un insegnamento morale, senza che perciò l’arte sia storia, o filosofia, o morale, un semplice mezzo o istrumento, un bel vestito. L’arte, come la guerra, la filosofia, la politica, ha dei resultati, che l’oltrepassano, come riformare i costumi, purgare le passioni e simili: risultati a lei inessenziali, e che non hanno nulla a fare col suo fine proprio. Può l’artista fare un capolavoro, ancorché la storia vi sia adulterata, e poco rispettata la morale: potete anche biasimarlo, per la sua ignoranza di cose storiche o filosofiche, o per la licenza dei suoi costumi, ma onorerete sempre il grande artista.

Ponendo Manzoni a base dell’arte il reale storico e naturale, gli si è fatta incontro una grande difficoltá: — E l’ideale, cosa ne faremo noi? — . Poteva rispondere: — Tanto peggio per l’ideale — . Risposta che è la conseguenza logica del suo [p. 39 modifica]sistema. Ma no, arte senza ideale gli par cosa assurda e cerca trarsi d’impaccio, e salvar capra e cavoli, voglio dire il suo reale e l’ideale. E innanzi tutto cos’è l’ideale?

A quel modo che Manzoni confonde il reale artistico col reale positivo o storico, ci è pur confusione nel suo concetto dell’ideale. Il suo ideale è un mondo fuori del suo reale positivo, un mondo religioso e morale di tutta perfezione, a cui non risponde il suo reale storico. Natura e storia sono oggetti inadeguati a quel suo mondo ideale. La conseguenza dovrebbe essere questa, che l’arte trasformasse storia e natura, sì che ne venga una realtà ideale conforme a quel suo mondo. Ma, e cosa diventerebbe il suo reale positivo?

Non potendo conciliare i due termini, li distingue e li pone l’uno dirimpetto all’altro, segnando bene i confini, di qua l’esistente e l’avvenuto, di là l’inventato, di qua reale, di là ideale. Soluzione logica, posto il sistema, ma così infelice, che egli medesimo se ne avvide più tardi senza che perciò gli venisse in mente di porre a nuovo esame un sistema, da cui usciva conseguenza sì strana. Positivo e ideale? Uno dee vincere; o il positivo si mangia l’ideale, o l’ideale si mangia il positivo.

Fatto è che il sistema, se ha fatto danno agli scolari, ha avuto piccola influenza sul maestro. Il grande artista, abbandonandosi alla sua ispirazione, è uscito spesso vittorioso da’ volontari limiti che s’era imposto. Il reale positivo non ha impedito che egli raggiungesse un reale più profondo e più succoso, il reale dell’arte, un reale cioè dove senza sua saputa si è andato a ficcare quell’ideale, che egli cercava in un mondo a parte superiore ed esteriore al suo reale.

Chi vuole giudicare i suoi lavori secondo il suo sistema, non ne verrebbe a capo. Poiché Manzoni è artista a dispetto del suo sistema, facciamo proprio il contrario di quello che ha fatto lui, condanniamo il sistema e glorifichiamo l’artista, secondo l’immortali principii dell’arte che il genio inconsapevole applica senza il sistema e spesso contro il sistema.


[Nella Nuova Antologia dell’ottobre 1872, vol. XXI, pp. 233-51].

  1. Come se quel Coro non fosse solenne testimonianza del piú esaltato patriottismo!