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Fra i torrioni delle Dolomiti

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Una maestosa battaglia di fortezze Sulle vette dell'Alto Agordino

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FRA I TORRIONI DELLE DOLOMITI.

Belluno, 2 settembre.

Una pioggia torrenziale, uno di quei brevi e violenti temporali di montagna che pare nascondano il mondo in un velo crepuscolare di acque scroscianti, aveva la sera prima vuotato sulle montagne Cadorine tutte le nubi, e quando ci inerpicavamo verso la vetta maestosa dell’Averau, al nord di Selva di Cadore, l’immenso panorama delle Alpi Dolomitiche levava la moltitudine fantastica delle sue punte nella gloria di una serenità magica.

Non un pennacchio di nebbia, non un batuffolo di vapore, non un cirro, e nell’azzurro profondo del cielo i profili dello sconfinato e meraviglioso orizzonte si disegnavano con una precisione tagliente. La terra e l’aria avevano un non so quale colore di lavato, di fresco, come se la creazione fosse stata ridipinta a nuovo, e le più lontane balze soleggiate, che rivelavano i loro infimi rilievi nella purità luminosa della divina mattinata, apparivano stranamente vicine, quasi a portata di voce.

La vetta dell’Averau è una torre immane, prodigiosa, di una nudità striata di rosa, e vista [p. 155 modifica] dal basso, dal piede delle sue pareti a picco, ha qualche cosa di soprannaturale e di pauroso. Lo sguardo sale al cielo lungo la roccia tormentata che strapiomba, e quella mole vertiginosa che esce dalla logica delle nostre concezioni incute un vago senso di sgomento. Sui suoi fianchi corrono crepacci profondi, strane feritoie nelle quali un buio ostile si agguata. Da un lato la portentosa muraglia si sfalda, e forma delle guglie aguzze, fra le quali s’insinua nell’ombra la precipitosa e cinerea fiumana di detriti dei canaloni.


A oriente, il massiccio roccioso, biancastro, tutto a stratificazioni, sul quale la torre si fonda, risale a piano inclinato, va su dolcemente come un bastione, come il muro di cinta di una favolosa fortezza di cui l’Averau sia il mastio, e forma la vetta del Nuvolau. Nella sella fra le due vette, un rifugio, una casetta di pietra, il «Nuvolau Pass Hütte». Sulla cima del Nuvolau, un altro rifugio, un puntino bianco, il «Saxendankehütte». In realtà sono due caserme austriache che dovevano permettere la difesa del passo. Ma la montagna fu presa quasi senza lotta nella rapida avanzata iniziale, dopo l’occupazione del Porè, le cui falde verdi abbiamo contornato salendo. Ed ora il gruppo del Nuvolau si erge dominatore sulla lotta che si svolge intorno, a semicerchio, da levante a ponente. [p. 156 modifica]

Dietro a noi, scalando l’ultimo ciglio, vedevamo inabissarsi la valle del Fiorentina, cupa, selvosa, colma di un’ombra perenne. Tra la ridente valle del Cismone, nella quale si adagia la pittoresca cittadina di Fiera di Primiero, che visitammo nella ultima escursione, e la valle del Boite, che da Pieve di Cadore e per Cortina d’Ampezzo incanala la strada che scende sulla Drava a Toblach, fra questi due passaggi principali, come abbiamo già visto fra la Val d’Adige e la Valsugana, si dirama tutto un labirinto di vallette e di gole che immettono a valichi e a passi, lungo le quali strade mulattiere od erti sentieri da alpigiani salgono a cercare un varco nelle selle dell’alta montagna, talvolta fino ai ghiacciai. La valle del Fiorentina è uno di questi solchi, nei quali il sole estivo non scende che per qualche ora al giorno. L’inverno non finisce mai completamente nel profondo, dove la boscaglia rigida dei pini accumula ombra su ombra, e le rare case di legno, basse, ricordano le isbe siberiane. Le pietre si coprono di muschi nell’oscurità verdastra della selva, come per difendersi dal freddo, e sui praticelli scoscesi un effimero alito di primavera fa schiudere una delicata flora nordica.

Anche qui la guerra si sparpaglia nei passi, si spezza, si trita, si fa guerriglia, mentre sulle grandi strade l’azione s’innerva. Da valico a valico vi è una lotta di appoggio, di [p. 157 modifica] fiancheggiamento. Alle volte, su testate di valloni secondari il combattimento si accanisce e si allarga non per il valore del passaggio ma per secondare l’azione che si svolge altrove, per arrivare a posizioni che dominano. Ogni episodio è l’anello di una catena. La sicurezza di un’ampia conca o di una rilevante vallata, per un allacciamento di occupazioni minuscole che sembrano isolate, può dipendere dall’esistenza di una pattuglia lontana, quasi sperduta, aggrampata ad una vetta precipitosa, una vetta che dalla conca o dalla vallata non si vede nemmeno.


Percorrendo il fronte come noi facciamo, da occidente ad oriente, si sente che l’azione va pulsando più intensa. La frontiera austriaca, dopo essere discesa a inglobare nell’impero le terre più santamente nostre, fino al Garda, risale nel Cadore ad avvicinarsi alla frontiera geografica, pur così lontana. Qui la nostra offensiva si è trovata relativamente più prossima alla vera terra austriaca e punta verso il fianco di grandi comunicazioni interne dell’impero. Perciò le difese si accumulano contro (questi sbocchi e la guerra vi si fa più attiva e più aspra.

Al di là della tenebrosa vallata del Fiorentina, alto in una profondità azzurra si apriva al nostro sguardo stupito tutto un oceano di montagne, una fantastica distesa di [p. 158 modifica] immense onde di pietra dalle creste frastagliate e in ombra, lambite appena sul fianco dal sole, diafane e di un colore glauco di acque, con sollevamenti fluidi di costoni cilestrini, una sterminata evanescenza di forme gigantesche nelle quali non si riconosceva più l’eterna immobilità poderosa della roccia. Sulle onde, dei marosi più alti, un irrompere di masse sublimi: il Pelmo dominatore e nobile, un signore dei monti, il Civetta seghettato e strano, le Pale di San Martino più lontane, una furia di guglie turchine, e ad occidente il Marmolada solenne, sul quale i ghiacciai accumulano nevicate di millenni nel loro spessore ovattato. Ghiacciai e nevai chiazzano di candore l’azzurro delle vette ed hanno una mollezza di nubi rapprese fra le cime, di nubi adagiate e immobili.

A mano a mano che, isolatamente per non essere scorti dalle vedette nemiche, salivamo le ultime rampe del passo dell’Averau, scoprivamo alla nostra sinistra l’angusta e vicina valle d’Andraz, al di là della quale il famoso Col di Lana pareva salire con noi, oltre un costone dell’Averau, mostrandoci prima la sua cima nuda, poi le sue falde boscose, poi i suoi declivî più bassi immersi nell’ombra. Sul Col di Lana il combattimento è continuo. Anzi, è il solo punto di questa zona nel quale la battaglia abbia assunto un carattere regolare, sistematico, continuativo. [p. 159 modifica]

Un’occhiata ad una carta ne rivela subito la ragione. Risalite con lo sguardo la strada che da Feltre per Agordo arriva, correndo da sud a nord, alla frontiera lungo la valle del Cordevole. Il Col di Lana fronteggia la valle e la domina. Appena il viaggiatore arriva a quel delizioso laghetto che il Cordevole forma vicino al villaggio di Alleghe, nello sfondo, simmetricamente fra le due verdi pareti laterali della valle, si vede profilarsi il cono quasi regolare di un monte che ha l’aria di chiudere il passo. È il Col di Lana, che sorge alla confluenza del Cordevole e dell’Andraz, come una di quelle case erette ad un bivio, che si vedono da lontano e che sbarrano la prospettiva.


Ma la strada non continua lungo la valle oltre la frontiera, il Cordevole non costituisce un passo primario; e la lotta non si sarebbe fatta forse così intensa sul Col di Lana, se ai piedi della montagna, quasi rasentando la frontiera, non passasse la famosa strada delle Dolomiti, un’opera gigantesca, costata all’Austria delle somme colossali, la quale, correndo parallelamente al confine, costituiva una preziosa via di arrocco fra valle e valle. Essa era intesa a facilitare gli spostamenti delle forze destinate ad invaderci. Il possesso incontrastato di questa strada è di una utilità indiscutibile. Il Col di Lana la difende, e dominando tutta la valle superiore del Cordevole esso [p. 160 modifica] è anche un posto di osservazione eccellente, che piomba il suo sguardo nelle nostre retrovie.

La nostra azione ha tessuto una rete di operazioni offensive intorno al Col di Lana, prima di attaccarlo. Ci spingemmo subito a prendere cime e passi, affacciandoci da ogni parte, comparendo sui fianchi dei colli, conquistando vette, aprendo strade, permettendo alle nostre artiglierie pesanti di arrivare su posizioni inaudite, dalle quali hanno aperto il fuoco contro i forti austriaci eretti sulla zona del Cordevole. Avemmo notizia il sei luglio del primo bombardamento sistematico delle opere di Corte e della Tagliata Tre. Altri forti erano bombardati presso Falzarego.

Gli austriaci tentarono replicatamente di scacciarci dalle nostre posizioni avanzate, di spezzare la catena delle nostre operazioni, ma non riuscirono mai. Attaccarono il 9 luglio, per due volte, durante la notte, le nostre forze alla testata al vallone Franze, cioè delle forze che si avvicinavano da nord-ovest al Col di Lana. Attaccarono sull’aspro vallone di Travenanzes fra le Tofane, il 23 e il 27 luglio. Il 29 attaccavano di notte, di sorpresa, le cime di Pescoi e il Sasso di Mezzodì, a ponente del Col di Lana, del quale eravamo già parzialmente in possesso.

Fu il 16 luglio che la nostra fanteria conquistava alla baionetta le prime pendici del monte. Visto dall’immenso gradino, tutto [p. 161 modifica] chiaro di rocce sgretolate, che sale al passo dell’Averau, avevamo l’illusione di vedere il Col di Lana vicinissimo, sotto a noi, illuminato in pieno dal sole mattutino. Vedevamo distintamente le trincee, i passaggi coperti, le blindature. Le posizioni nostre e quelle del nemico sono ad una ottantina di metri.

Non si ha idea di queste trincee che rampano sul declivio scosceso, di questo attacco millimetrico che si attacca con gli artigli alle falde della montagna che scava. Non si spara più, non si può più sparare il fucile. Il dislivello precipitoso copre gli uni e gli altri. Si combatte a furia di granate a mano.


Il monte non è roccioso, ma ha la linea ardita di un cono, e sulla sua sommità un’erba povera e grama verdeggia. Non è sulla estrema aguzza vetta che si combatte. Dalla vetta scendono due costoni, che, poco sotto alla cima, avanzano ognuno una specie di gobba, ad altezze diverse. Su queste due gobbe gli austriaci hanno scavato due ridotte, munite di blindature a terrapieno, con delle trincee così profonde che sembrano spaccature. Nell’ombra di questi solchi nulla si muove. Gli uomini sono affossati nel buio. Noi vedevamo dall’alto e di scorcio queste posizioni, e avevamo l’impressione di un allineamento di fosse regolari colme d’oscurità.

Intorno l’erba è scomparsa. Il suolo [p. 162 modifica] rossiccio ha l’aspetto della terra lavorata di fresco. Tutta la parte superiore del monte e come vangata dalle esplosioni delle granate. Sembra scorticata. Anche la vita vegetale è fuggita. Le due ridotte, sporgendo sui costoni, dominano. Un poco al disotto, altri solchi, più sottili, si direbbe più svelti: le trincee che assaltano. Si vedono venir su come delle serpi, tracciando una linea piena di violenza, a zig-zag. La testa avanza, si tende, e la coda si perde in basso fra le prime boscaglie, fra gli abeti più snelli e più arditi, avanguardie della selva che sembra montare all’assalto anche lei, tutta irta di punte verdi.

In mezzo agli alberi, del legname biancheggia in un disordine da cantiere. Si combatte il nemico e il freddo, si scavano trincee e si fanno rifugi, si lotta e si lavora, bisogna vincere l’austriaco e la montagna. Ma tutto questo s’indovina senza vederlo. Le nostre posizioni sembrano deserte come quelle avversarie.

Per riconoscere quei due cucuzzoletti fortificati i soldati hanno dato loro un nome. Uno a destra, più alto, lo chiamano il Cappello di Napoleone; l’altro il Panettone. Ci vuole una straordinaria fantasia per riconoscere la più vaga somiglianza fra quelle due fosche ridotte e le cose indicate dai loro nomi, ma su tutto il fronte sorge la necessità di creare una nomenclatura per località anonime, che prendono inaspettatamente un interesse enorme [p. 163 modifica] nella storia degli uomini compensandosi così della oscurità profonda del loro passato, e nulla di più bizzarro di questi nuovi nomi che entrano gravemente nelle carte dello Stato Maggiore e nell’uso della guerra.

Sotto al sinistro sconvolgimento di solchi e di scavi, pieno di una truce immobilità, più in basso del bosco, dove i declivi si addolciscono nella valle d’Andraz e si chiariscono di prati, biancheggiano villaggi abbandonati. Alcuni sono in rovina, altri, distrutti dal fuoco, non mostrano più che i basamenti di pietra sui quali le casette di legno s’innalzavano con i loro tetti neri e scoscesi. Gli austriaci quando non possono più difendere distruggono. Cercano di privarci di ricoveri e mettere il gelo dalla loro parte.

Erano minuscoli aggruppamenti di quelle pittoresche casette da paese nordico che nelle vallate cadorine chiamano tabià. Salesei, Pieve di Livinallongo, Agai, Franza, formano nel verde un disseminamento di piccoli edifici e di macerie. Agai fu bombardato con proiettili incendiari sparati da Corte il 9 luglio. Divampò ai primi colpi. Il nemico tentava di ostacolare la nostra occupazione di Pieve, cioè di paralizzare il nostro movimento ai piedi del Col di Lana sul quale ci preparavamo a salire.


Nella notte del 14 luglio le truppe destinate al primo attacco marciarono lungamente per [p. 164 modifica] i sentieri della foresta, risalendo nel fondo della valle d’Andraz, contornando le falde del monte. La notte era oscurissima, ma di tanto in tanto di fra i rami degli abeti scendeva improvviso e vivido un raggio bianco, che illuminava i tronchi e le pietre; i soldati si fermavano un istante nelle ombre. Erano i proiettori austriaci che frugavano gli approcci. Investiti dal chiarore subitaneo, i nostri avevano sempre, per un istante, l’impressione di essere stati visti, come se quel raggio fosse stato uno sguardo soprannaturale e fosforescente, e impugnavano il fucile in atteggiamento guardingo. Poi le tenebre si richiudevano più profonde; il lieve rumore eguale dei passi era coperto dallo scrosciare del torrente.

L’assalto dato il 16 luglio conquistò i primi trinceramenti, sui contrafforti che scendono verso Agai e verso Pieve. Fu preparato da un intenso fuoco di artiglieria. I cannoni tiravano alternativamente prima a granata, per demolire le difese e forzare il nemico ad abbandonarle, e poi a shrapnell per colpirlo nella fuga. L’assalto fu magnifico. Si videro le nostre file uscire dal folto del bosco nelle prime radure e salire con un impeto irresistibile, formando un formicolìo grigio e veloce e ululante su tutto il costone. Delle mine scoppiavano; il fumo e il polverone delle esplosioni avvolgevano a tratti l’assalto in un nembo rossastro; poi al dissiparsi della nube si scorgevano i [p. 165 modifica] nostri che proseguivano, colmando i vuoti, finchè sparirono tutti nella trincea nemica. I lavori di rafforzamento furono rapidi. Qualche giorno dopo, un altro passo avanti.

All’imbrunire furono portati due pezzi lassù. Venivano issati adagio adagio, nel buio. Lunghe file d’uomini silenziosi tiravano le corde, puntando i calcagni ai tronchi degli alberi, e non si udiva che il loro ansimare. A mezzanotte i due pezzi erano fuori delle posizioni, pronti. Erano a sessanta metri dalle trincee austriache. Ai primi colpi, così vicini che le spolette erano graduate a zero, gli austriaci sorpresi abbandonarono le trincee e fuggirono attraverso le ultime propaggini del bosco, poi sui prati macilenti dell’erta vetta.

Il 28 luglio l’attacco progrediva sul costone sud che scende verso Pieve. Il 4 agosto, un altro assalto, e si prendeva l’ultima linea di trincee austriache, oltre le quali non ci sono più che le ridotte: il Panettone e il Cappello di Napoleone. Ma appaiono formidabili.

La nostra artiglieria le batte con una precisione stupefacente, ma la loro posizione elevata le protegge in parte dal fuoco. E l’artiglieria austriaca, ben nascosta dietro qualche spalla del monte Sief, che è quasi una seconda vetta, più lontana, del Col di Lana, può concentrare efficacemente i suoi tiri sulle due ridotte al momento in cui fossero prese. La preparazione di ogni movimento deve essere [p. 166 modifica] accurata, lunga. Ad essa si dedica, con una volontà ferrea e una ingegnosità fertile di risorse, un ufficiale superiore che porta uno dei più gloriosi nomi guerrieri del mondo. La fiducia delle truppe è immensa.

E il loro buon umore anche. Se fossimo nelle loro trincee sentiremmo chiacchierare e ridere. Soltanto le vedette, rigide nell’attenzione, tacciono guardando per le feritoie. Di tanto in tanto dei dialoghi singolari s’intrecciano fra trincee italiane e austriache, alla notte, quando il silenzio porta lontano le voci sommesse.

Una notte una squadra nostra avanzava fuori della trincea, strisciando dietro ai sacchi di terra sospinti e rotolati. Le vedette nemiche se ne accorsero e uscirono pure dalle posizioni per poter sparare. Dei colpi di fucile risuonarono. Le due squadre rimasero in silenzio a scrutarsi nel buio. Allora un soldato torinese che parla tedesco bisbigliò da dietro il suo sacco: «Venite giù, vi trattiamo bene!» — Dopo un breve silenzio una voce dall’alto rispose, nello stesso tono: «Non possiamo, c’è l’ufficiale, dietro a noi, che ci sparerebbe addosso!»

Qualche volta i tedeschi attaccano la testata delle trincee d’approccio, per interrompere i lavori di zappa. Gettano allora centinaia di granate a mano; anzi, spesso non le lanciano nemmeno, le lasciano rotolare giù con la loro miccia accesa che fa un frullìo da trottola; si [p. 167 modifica] direbbe che ne rovescino dei cesti. Anche le mine aeree sono entrate in azione. I nostri, con un colpo di mano, sono riusciti una volta a portar via un lanciamine e a fare dei prigionieri.

La situazione su quella vetta, a 2400 metri, è così bizzarra che un giorno un colpo di cannone ci ha portato un prigioniero. Una granata nostra ha demolito un angolo di una trincea austriaca, e l’angolo è franato giù fino alla trincea italiana trascinando nel terriccio e fra i sassi del parapetto crollato un soldato tedesco, tutto stordito e impolverato.


Mentre contemplavamo questo straordinario campo d’azione, il vallone di Andraz risuonava lungamente di cannonate, che acquistavano fra le falde dei monti e per le gole una sonorità fantastica. Ad ogni colpo la montagna faceva un commento senza fine. Lo ripeteva, e lo ripeteva, lo lanciava e lo riprendeva, dandogli la continuità di uno scroscio immane.

Poi una batteria non lontana da noi ha aperto il fuoco, e la torre titanica dell’Averau ha urlato. Era un effetto d’echi di una grandiosità paurosa. Dopo l’esplosione, metallica e violenta, passava qualche istante di silenzio, e improvvisamente la roccia, dall’altra parte, tuonava. Pareva qualche cosa di viva quel ruggito, pareva la vera voce di quegli smisurati giganti di pietra, che hanno forme così [p. 168 modifica] personali e violente, una voce apocalittica. Dopo l’Averau, le alti pareti del Nuvolau rombavano, con oscillazioni fuggenti nel suono profondo. Quando si acquietavano le vette vicine, si udivano lontano brontolare ancora le balze del Busella.

Per qualche tempo l’ascensione dell’ultimo tratto ci ha chiuso ogni vista con un paesaggio di macigni. Pareva di salire il gradino di un girone dantesco. Arrivati al rifugio ci siamo affacciati sopra un panorama di orrore, sopra un mondo inverosimile, tutto muraglie titaniche, tutto picchi, tutto cuspidi, affascinante, spaventoso, sublime, solcato da abissi, tagliato da canaloni angusti come corridoi, chiusi fra pareti immense, un mondo privo di terra, privo di vita, fatto di pietra nuda, foggiata in una convulsione di forme soprannaturali, senza declivi, senza una curva, angolose, strapiombanti, vertiginose: il paesaggio delle Tofane.

Quale terribile terreno di guerra questo incubo di rocce! La torre dell’Averau non era che un’avanguardia. Tutte le montagne qui sono torri, sfaldatesi lentamente in miriadi di secoli, torri che accendono le loro guglie oltre i tremila metri nello splendore luminoso delle terse altitudini gelate del mondo, e che precipitano i loro speroni a picco in voragini che il sole non tocca mai fino al fondo.

Sono moli prodigiose, striate di rosa e di grigio, alle quali la regolarità delle [p. 169 modifica] stratificazioni geologiche dà un’apparenza di costruzione favolosa, di cose volute, di edifici incomprensibili e immani eretti per sovrapposizione di pietre a ranghi, come l’uomo erige le sue mura minuscole e presuntuose.

Canaloni creati dall’allargarsi di spaccature profonde chilometri, offrono i rari e difficili accessi alle altezze; le frane dei detriti vi hanno formato come delle sterminate cateratte cineree e immobili. Su quelle cateratte la nostra fanteria s’inerpica, e a poco a poco si scorgono i sentieri che essa vi traccia, sottili, tortuosi e scoscesi.

È impossibile descrivere, ed è difficile capire la nostra azione in quel labirinto infernale, in quel paesaggio da tregenda. Fra il gruppo delle Tofane e l’Averau passa la continuazione della strada delle Dolomiti che va a Cortina. Verso l’oriente, in fondo ad un allargamento lontano e luminoso di vallate, vedevamo un po’ di verde, un po’ del mondo nostro, e nel verde una deliziosa cittadina che pare fatta di ville: Cortina. Dalla parte opposta, una barriera maestosa e orrenda di vette, sorelle delle Tofane, un caos di punte aguzze che la strada valica ad una depressione, detta il passo di Falzarego. Il gruppo delle Tofane è traversato da nord a sud dalla gola di Travenanzes, nella quale abbiamo fatto numerosi prigionieri. Quasi tutte le strade sono in mani nostre.

Ma le occupazioni delle vette s’intrecciano. [p. 170 modifica] Le linee dei fronti s’infrangono, per così dire, sull’inaccessibile, e i frammenti, composti di piccole pattuglie, vagano, ascendono, scalano, si sorprendono. È la caccia. Caccia meravigliosa e appassionante da cercatori di nidi d’aquila.

L’Austria ha l’ausilio dei contrabbandieri e dei cacciatori tirolesi di camosci. Bisogna riconoscere che la guerra amareggia profondamente i contrabbandieri, e con ragione: spostando le frontiere la loro industria finisce. La simpatia dei frodatori di dogane è andata tutta alla nostra nemica. Vi è stata una leva in massa di tali gentiluomini, che costituiscono su questa zona una piccola milizia indipendente di franchi tiratori.

Sono loro, conoscitori profondi della montagna, che presidiano le vette più alte. Stanno alla posta; sanno da dove potrà spuntare un soldato e aspettano, dietro ad un fucile di precisione, che tira spesso a palla esplosiva, munito di alzo a cannocchiale, montato su cavalletto.


Le esplorazioni sono come un duello all’americana. Nell’immenso caos di pietra, la lotta è fra pochi uomini. Si fanno giorni e giorni di marcia su incredibili sentieri da capra, per arrivare addosso ad una pattuglia da una parte non vigilata. Si sta per lunghe giornate immobili, attaccati ad una roccia, sopra due palmi di cornice al bordo di un abisso, per sorprendere [p. 171 modifica] il movimento imprudente di un uomo, che è attaccato ad un’altra roccia, sopra un altro abisso.

Vicino al passo di Falzarego, ai piedi della Prima Tofana, la più prossima al vallone, vi è una vetta più bassa che i nostri chiamano il Castello. Tutti i nomi, anche gli antichi, ricordano castelli e torri, tanto l’idea di costruzioni sovrumane sorge spontanea. Nel fondo del vallone, proprio sotto all’Averau, sono le Cinque Torri, delle masse rossastre, isolate, che sembrano i resti di qualche fortezza favolosa. Dunque sul Castello c’era un posto austriaco. Una notte, una audace pattuglia nostra è andata a sorprenderlo.

La scalata era impossibile. Non potendo arrivare dal basso bisognava arrivare dall’alto. Dopo un lungo cammino sulle cornici della Tofana, i nostri poterono calarsi con una lunga corda sopra una specie di angusto pianerottolo che sovrastava il posto nemico. Udivano, mentre scendevano lungo la fune, gli austriaci discorrere sotto a loro, nel buio. La conversazione si cambiò in un gridìo di spavento e di dolore, quando una grandine di granate a mano scoppiò fragorosamente sul Castello, illuminandolo di baleni azzurrastri. Poi silenzio profondo.

Qualche minuto dopo i nostri si aggrampavano l’uno all’altro sorpresi, e si stringevano contro la parete di pietra, immobili. Delle altre granate scoppiavano ora in alto, su delle [p. 172 modifica] sporgenze della roccia, sopra a loro. Un posto austriaco annidato sulla vetta della Prima Tofana li cercava a colpi di esplosivo. I tre aggruppamenti nemici si sovrastavano a trecento metri l’uno dall’altro.

Qualche volta di notte, da punte altissime scende la luce viva di un razzo illuminante, la cui fiamma bianca rimane sospesa come una meteora. Dei proiettori si accendono e rischiarano a una a una le asperità delle rocce. Anche sul Col di Lana improvvisamente si vedono spesso apparire nel colmo della notte vividi chiarori, come sulla vetta d’un vulcano.

La vita sulle Tofane, faticosa, terribile, ha però dei lati che seducono lo spirito avventuroso dei nostri soldati. È una guerra selvaggia nella quale si esaltano le virtù individuali. Ognuno può avere il suo metodo, la sua tattica, il suo piano. Si vive entro spaccature delle rocce, senza ricoveri, senza tende. Delle pattuglie si sperdono, talvolta, in quei labirinto di orrori e tornano sfinite dopo due o tre giorni di ascensioni e di discese nella immensità misteriosa di dirupi irriconoscibili.

Fu in questa guerriglia delle Tofane, che rimase ucciso il generale Cantore, mentre si sporgeva a guardare un appostamento nemico.

Un silenzio assoluto stagnava nella gola di Falzarego. Ci pareva di dominare il paesaggio grandioso e strano di un pianeta morto. Ma di tanto in tanto si udiva un lontano colpo di [p. 173 modifica] fucile, che rimbombava sordamente, cupo e velato.

Quando ridiscendevamo, qualche shrapnell di grosso calibro cadeva verso la strada, sporcando il sereno col suo fumo giallo che la brezza fredda incanalava e disperdeva giù nella valle.

L’eco dell’Averau protestava.