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Belluno, 2 settembre.
Una pioggia torrenziale, uno di quei brevi e violenti temporali di montagna che pare nascondano il mondo in un velo crepuscolare di acque scroscianti, aveva la sera prima vuotato sulle montagne Cadorine tutte le nubi, e quando ci inerpicavamo verso la vetta maestosa dell’Averau, al nord di Selva di Cadore, l’immenso panorama delle Alpi Dolomitiche levava la moltitudine fantastica delle sue punte nella gloria di una serenità magica.
Non un pennacchio di nebbia, non un batuffolo di vapore, non un cirro, e nell’azzurro profondo del cielo i profili dello sconfinato e meraviglioso orizzonte si disegnavano con una precisione tagliente. La terra e l’aria avevano un non so quale colore di lavato, di fresco, come se la creazione fosse stata ridipinta a nuovo, e le più lontane balze soleggiate, che rivelavano i loro infimi rilievi nella purità luminosa della divina mattinata, apparivano stranamente vicine, quasi a portata di voce.
La vetta dell’Averau è una torre immane, prodigiosa, di una nudità striata di rosa, e vista