Zenobia/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA I
Tiridate e Mitrane.
s’io stesso l’ascoltai! Ne ho viva ancora
l’idea sugli occhi; ancor la nota voce
mi risuona sul cor. Zenobia è in vita:
Mitrane, io non sognai.
Mitrane. Signor, gli amanti
sognano ad occhi aperti. Anche il dolore
confonde i sensi e la ragion. Si vede
talor quel che non v’è: ciò che è presente
non si vede talor. L’alma per uso
l’idea, che la diletta, a sé dipinge;
e ognun quel che desia facil si finge.
Tiridate. Ah! seguita io l’avrei: ma quel vederla
giá risoluta a trapassarsi il petto
gelar mi fe’.
Mitrane. Pensa alla tua grandezza,
o mio prence, per or. T’offron gli armeni
il vòto soglio, e chiedono in mercede
di Radamisto il capo. Occupa il tempo,
or che destra è Fortuna: i suoi favori
sai che durano istanti.
Tiridate. In ogni loco
Radamisto si cerchi: il traditore
giá la mercé; bramo a Zenobia offesa
offrire il reo.
Mitrane. Dunque ancor speri?
Tiridate. Ad una
leggiadra pastorella
ne richiesi poc’anzi: Egle è il suo nome;
questa è la sua capanna. Avrem da lei
qualche lume miglior.
Mitrane. Ma che ti disse?
Tiridate. Nulla.
Mitrane. E tu speri?
Tiridate. Sí. Mi parve assai
confusa alle richieste:
mi guardava, arrossía, parlar volea,
cominciava a spiegarsi, e poi tacea.
Mitrane. O amanti, oh quanto poco
basta a farvi sperar!
Tiridate. Con Egle io voglio
parlar di nuovo: a me l’appella.
Mitrane. Il cenno
pronto eseguisco. (entra nella capanna)
Tiridate. Oh che crudel contrasto
di speranze e timori,
giusti numi, ho nel sen! Non v’è del mio
stato peggior.
Mitrane. (tornando) La pastorella è altrove;
solitario è l’albergo.
Tiridate. Infin che torni,
l’attenderò. Vanne alle tende.
Mitrane. È vana
la cura tua. Quella sanguigna spoglia,
ch’io stesso rimirai...
Tiridate. Crudel Mitrane,
io che ti feci mai? Deh! la speranza
non mi togliere almen.
principe, il sai, va con l’inganno insieme. (parte)
Tiridate. Non so se la speranza
va con l’inganno unita:
so che mantiene in vita
qualche infelice almen.
So, che sognata ancora,
gli affanni altrui ristora
la sola idea gradita
del sospirato ben. (entra nella capanna)
SCENA II
Zenobia ed Egle.
guidalo a me: conoscerai lo sposo
a’ segni ch’io ti diedi. In queste selve
certamente ei dimora. Infin che torni,
me asconderá la tua capanna: io tremo
d’incontrarmi di nuovo
con Tiridate. Il primo assalto insegna
il secondo a fuggir.
Egle. Degna di scusa
veramente è chi l’ama: io mai non vidi
piú amabili sembianze.
Zenobia. Ove il vedesti?
Egle. Poc’anzi in lui m’avvenni. Ei, che a ciascuno
di te chiede novelle,
a me pur ne richiese.
Zenobia. E tu?
Egle. Rimasi
stupida ad ammirarlo. I dolci sguardi,
la favella gentil...
Zenobia. Questo io non chiedo,
Egle, da te: non risvegliar con tante
la guerra nel mio cor. Dimmi se a lui
scopristi la mia sorte.
Egle. Il tuo divieto
mi rammentai: nulla gli dissi.
Zenobia. Or vanne,
torna a me col mio sposo; e cauta osserva,
se Tiridate incontri,
la legge di tacer.
Egle. Volendo ancora,
tradirti non potrei:
son muti, a lui vicino, i labbri miei.
Ha negli occhi un tale incanto,
che a quest’alma affatto è nuovo,
che, se accanto — a lui mi trovo,
non ardisco favellar.
Ei dimanda, io non rispondo,
m’arrossisco, mi confondo:
parlar credo, — e poi m’avvedo
che comincio a sospirar. (parte)
SCENA III
Zenobia e Tiridate nella capanna.
la libertá vorresti
di poterti lagnar. No, le querele
effetto son di debolezza. Io temo,
piú che l’altrui giudizio,
quel di me stessa; ed in segreto ancora
m’arrossirei d’esser men forte... Ah! voi,
che inspirate a quest’alma
tanta virtú, non l’esponete, o numi,
al secondo cimento. A farne prova
basti un trionfo. A Tiridate innanzi
dirgli che d’altri io son? Contro il mio sposo
temerei d’irritarlo: il suo dolore
vacillar mi farebbe... Ah, se tornasse
quindi a passar! Fuggasi il rischio: asilo
mi sia questa capanna. Aimè! chi mai
veggo?... o il timor, che ho nella mente impresso,
mi finge... Oh stelle! è Tiridate istesso.
Tiridate. Senti. Or mi fuggi invan: dovunque andrai,
al tuo fianco sarò.
(uscendo dalla capanna ed inseguendo Zenobia)
Zenobia. Ferma! Ti sento.
Tiridate. Ah, Zenobia, Zenobia!
Zenobia. (Ecco il cimento.)
Tiridate. Sei tu? Son io? Cosí mi accogli? È questo,
principessa adorata, il dolce istante
che tanto sospirai? Sol di due lune
il brevissimo giro
a cangiarti bastò? Che freddo è quello?
che composto sembiante? Ah! chi le usate
tenerezze m’invola?
È sdegno? è infedeltá? No, di sí nera
taccia non sei capace: io so per prova
il tuo bel cor qual sia;
conosco, anima mia...
Zenobia. Signor, giá che m’astringi
teco a restar questi momenti, almeno
non si spendano invan.
Tiridate. Dunque ti spiace...
Zenobia. Sí, mi spiace esser teco. Odimi, e dammi
prove di tua virtú.
Tiridate. (Tremo!)
Zenobia. I legami
de’ reali imenei per man del fato
si compongono in ciel. Da’ voti nostri
non dipende la scelta. Io, se le stelle
conceduto l’arbitrio, in Tiridate
sol ritrovato avrei
chi rendesse felici i giorni miei.
Ma questo esser non può. Da te per sempre
mi divide il destin. Piega la fronte
al decreto fatal. Vattene in pace,
ed in pace mi lascia. Agli occhi miei
non offrirti mai piú. Sí gran periglio
alla nostra virtú, prence, si tolga.
Questa giá ci legò; questa ci sciolga.
Tiridate. Assistetemi, o dèi! Dunque io non deggio
mai piú sperar...
Zenobia. Che piú sperar non hai.
Tiridate. Ma perché? Ma chi mai
t’invola a me? Qual fallo mio...
Zenobia. Non giova
questo esame penoso
che a sollevar gli affetti nostri; e noi
soggiogarli dobbiamo. Addio. Giá troppo
mi trattenni con te. Non è tua colpa
la cagion che ne parte, o colpa mia:
questo ti basti, e non cercar qual sia.
Tiridate. Barbara! e puoi con tanta
tranquillitá parlar cosí? Non sai
che ’l mio ben, la mia pace,
la mia vita sei tu? che, s’io ti perdo,
tutto manca per me? che non ebb’io
altro oggetto finor...
Zenobia. (vuol partire) Principe, addio.
Tiridate. Ma spiegami...
Zenobia. Non posso.
Tiridate. Ascoltami.
Zenobia. Non deggio.
Tiridate. Odiarmi tanto!
fuggir dagli occhi miei!
Temo la tua presenza: ella è nemica
del mio dover. La mia ragione è forte;
ma il tuo merito è grande. Ei basta almeno
a lacerarmi il core,
se non basta a sedurlo. Oh Dio! nol vedi
che innanzi a te... che rammentando... Ah! parti:
troppo direi. Rispetta
la mia, la tua virtú. Sí, te ne priego
per tutto ciò che hai di piú caro in terra
o di piú sacro in ciel, per quell’istesso
tenero amor che ci legò, per quella
bell’alma che hai nel sen, per questo pianto
che mi sforzi a versar, lasciami, fuggi,
evitami, signore.
Tiridate. E non degg’io
rivederti mai piú?
Zenobia. No, se la pace,
no, se la gloria mia, prence, t’è cara.
Tiridate. Oh barbara sentenza! oh legge amara!
Zenobia. Va’, ti consola, addio;
e da me lungi almeno
vivi piú lieti dí.
Tiridate. Come! tiranna! Oh Dio!
strappami il cor dal seno,
ma non mi dir cosí.
Zenobia. L’alma gelar mi sento.
Tiridate. Sento mancarmi il cor.
A due. Oh che fatal momento!
che sfortunato amor!
Questo è morir d’affanno;
né que’ felici il sanno,
che sí penoso stato
non han provato ancor.
SCENA IV
Zopiro e seguaci.
ella in vita tornò? perché da lui
si divide piangendo? Ah! l’ama ancora.
No: sposa a Radamisto
la rigida Zenobia... E v’è rigore
che d’un tenero amor regga alla prova?
Che barbara, che nuova
specie di gelosia
aver rivale, e non saper qual sia!
Quel geloso incerto sdegno,
onde acceso il cor mi sento,
è il piú barbaro tormento
che si possa immaginar.
Odio ed amo; e giunge a segno
del mio fato il rio tenore,
che sperar non posso amore,
né mi posso vendicar.
(nel voler partire, vede da lontano Radamisto, e si trattiene)
Da lungi a questa volta
vien Radamisto. I miei seguaci ho meco:
non differiam piú la sua morte. Ei forse
giá dubita di me: lá non mi attese
dove il lasciai. Ma, se Zenobia è amante
di Tiridate, un gran nemico io scemo
al rival favorito. Ah! se potessi
irritarli fra lor, ridurre entrambi
a distruggersi insieme, e ’l premio intanto
meco rapir di lor contese! Un colpo
sarebbe inver d’arte maestra. Almeno
si maturi il pensier. Fra quelle piante
Ma vien seco una ninfa.
Che sia solo attendiam. (si nasconde)
SCENA V
Radamisto, Egle, e Zopiro in disparte.
cortese pastorella. Il farsi giuoco
degl’infelici è un barbaro diletto,
troppo indegno di te.
Egle. No, non t’inganno:
vive la sposa tua. Trafitta il seno,
io dall’onde la trassi, e con periglio
di perir seco.
Radamisto. Oh amabil ninfa! oh mio
nume liberator! Dunque si trova
tanta pietá ne’ boschi? Ah! sí, la vera
virtú qui alberga; il cittadino stuolo
sol la spoglia ha di quella, o il nome solo.
Egle. Attendimi: siam giunti.
Vado Zenobia ad avvertir. (entra nella capanna)
Radamisto. M’affretto
impaziente a rivederla, e tremo
di presentarmi a lei. M’accende amore;
il rimorso m’agghiaccia.
Egle. (tornando) In altra parte
Zenobia andò: non la ritrovo.
Radamisto. Oh dèi!
Egle. Non ti smarrir, ritornerá: va in traccia
forse di noi.
Radamisto. No; m’abborrisce, evita
d’incontrarsi con me. Non la condanno;
è giusto l’odio suo; minor castigo,
Egle, non meritai.
abborrirti Zenobia! Ah! mal conosci
la sposa tua. Questo timore oltraggia
la piú fedel consorte
di quante mai qualunque etá ne ammira.
Te cerca, te sospira,
non trema che per te. Difende, adora
fin la tua crudeltá. Chi crede a lei,
condannarti non osa:
la man, che la ferí, chiama pietosa.
Radamisto. Deh! corriamo a cercarla. A’ piedi suoi
voglio morir d’amore,
di pentimento e di rossor.
Egle. La perdi
forse, se t’allontani.
Radamisto. Intanto almeno
va’ tu per me: deh! non tardar. Perdona
l’intolleranza mia: sospiro un bene
ch’io so quanti mi costi e pianti e pene.
Egle. Oh che felici pianti!
che amabile martír!
pur che si possa dir:
— Quel core è mio. —
Di due bell’alme amanti
un’alma allor si fa,
un’alma che non ha
che un sol desio. (parte)
SCENA VI
Radamisto e poi Zopiro.
di men barbaro sposo,
principessa fedel! Chi udí, chi vide
con maligne ragioni
la gloria femminil, ditemi voi
se han virtú piú sublime i nostri eroi.
Zopiro. Dove, principe, dove
t’aggiri mai? Cosí m’attendi?
Radamisto. Ah! vieni,
de’ miei prosperi eventi
vieni a goder. La mia Zenobia...
Zopiro. È in vita,
lo so.
Radamisto. Lo sai?
Zopiro. Cosí mi fosse ignoto!
Radamisto. Perché?
Zopiro. Perché... Non lo cercar. Di lei
scòrdati, Radamisto: è poco degna
dell’amor tuo.
Radamisto. Ma la cagion?
Zopiro. Che giova
affliggerti, o signor?
Radamisto. Parla: m’affliggi
piú col tacer.
Zopiro. Dunque ubbidisco. Io vidi
la tua sposa infedel... Ma giá cominci,
principe, a impallidir! Perdona: è meglio
ch’io taccia.
Radamisto. Ah! se non parli... (minacciando)
Zopiro. E ben, tu il vuoi
non lagnarti di me. Poc’anzi io vidi
qui col suo Tiridate
la tua sposa infedel: parlar d’amore
gli udii celato. Ei rammentava a lei
le sue promesse; ella giurava a lui
che l’antica nel sen fiamma segreta
ognor piú viva...
Radamisto. Ah! mentitor, t’accheta.
di tal malvagitá.
Zopiro. Tutto degg’io
da te soffrir; ma la mia pena, o prence,
nel vederti tradito
non meritò questa mercé. Tu stesso
a parlar mi costringi, e poscia...
Radamisto. Oh Dio!
non vorrei dubitar.
Zopiro. Senza ch’io parli,
non conosci abbastanza
ch’ella fugge da te? Forse non sai
ch’ella amò Tiridate
piú di se stessa, e che un amor primiero
mai non s’estingue?
Radamisto. Ah, che pur troppo è vero!
Zopiro. (Giá si spande il velen.)
Radamisto. Numi! e a tal segno
son le donne incostanti? Oh fortunati
voi, primi abitatori
dell’arcadi foreste,
s’è pur ver che da’ tronchi al dí nasceste!
Zopiro. Pria di te Tiridate
ebbe il cor di Zenobia; e finch’ei viva,
signor, l’avrá.
Radamisto. L’avrá per poco: io volo
a trafiggergli il sen.
Zopiro. Ferma: che speri?
In mezzo a’ suoi guerrieri
t’esponi invan. Se in solitaria parte
lungi da’ suoi trar si potesse...
Radamisto. E come?
Zopiro. Chi sa? Pensiam. Bisogna
il colpo assicurar.
Radamisto. Ma il furor mio
non soffre indugi.
a nome di Zenobia in loco ascoso
farò che il tragga.
Radamisto. E s’ei diffida? Almeno
d’uopo sarebbe accreditar l’invito
con qualche segno... Ah! taci: eccolo. Prendi
quest’anel di Zenobia: a lei, partendo,
il donò Tiridate; ed essa il giorno
de’ fatali imenei, quasi volesse
depor del primo amore
affatto ogni memoria, a me lo diede.
Falso pegno di fede
se fummi allor, fido stromento adesso
sia di vendetta.
Zopiro. (Oh sorte amica!) Attendi
alla nascosta valle,
dove pria t’incontrai.
Radamisto. Ma...
Zopiro. Della trama
a me lascia il governo.
Radamisto. Ricordati che ho in sen tutto l’inferno.
Non respiro che rabbia e veleno;
ho d’Aletto le faci nel seno,
di Megera le serpi nel cor.
No, d’affanno quest’alma non geme;
ma delira, ma smania, ma freme,
tutta immersa nel proprio furor. (parte)
SCENA VII
Zopiro con seguaci, indi Zenobia.
per me combatteranno, ed io tranquillo
Zenobia acquisterò. Miei fidi, udite:
(escono i suoi seguaci)
andate a circondar. Colá verranno
e Tiridate e Radamisto. Ascosi,
lasciateli pugnar; ma, quando oppresso
cada un di loro, il vincitor giá stanco
resti da voi trafitto. Andate, e meco
qualcun rimanga. (partono i seguaci, a riserva di pochi)
A Tiridate or deggio
il messaggio inviar. Ma i miei non sono
atti a tal opra: ei scoprirebbe... È meglio
che una ninfa o un pastor... Ma non è quella
che giunge... Oh fausti dèi! Vedete, amici:
quella è Zenobia; io la consegno a voi.
Con forza o con inganno, allor ch’io parto,
conducetela a me. Piú non avrei
or che bramar, se fosse mio quel core,
o se potessi almeno
saper chi mel contende. Ambo i rivali
morranno, è ver; ma l’odio mio fra loro
determinar non posso, e l’odio incerto
scema il piacer della vendetta. Io voglio
scoprir l’arcano. Una menzogna ho in mente,
che l’istessa Zenobia a dirmi il vero
costringerá.
Zenobia. Che veggo!
Tu in Armenia, o Zopiro!
Zopiro. Ah! principessa,
giungi opportuna: un tuo consiglio io bramo,
anzi un comando tuo. D’affar si tratta,
che interessa il tuo cor.
Zenobia. Del mio consorte
or vado in traccia.
Zopiro. Il perderlo dipende
o il trovarlo da te.
Zenobia. Che!
Zopiro. Senti. Io deggio
dar morte o a Tiridate.
Zenobia. Ah!...
Zopiro. Taci. Il primo
giá da’ miei fidi è custodito; e l’altro
da un finto messo, a nome tuo, con questa
gemma per segno, ove l’insidia è tesa,
tratto sará.
Zenobia. Donde in tua man...
Zopiro. Finisci
pria d’ascoltar. Qual di lor voglio, io posso
uccidere o salvar. L’arbitrio mio
dal tuo dipenderá. Tu l’uno amasti,
sei sposa all’altro. In vece mia risolvi:
qual vuoi condanna, e qual ti piace assolvi.
Zenobia. Dunque... Misera me! Qual empio cenno!
Per qual ragion? Chi ti costringe...
Zopiro. È troppo
lungo il racconto e scarso il tempo: assai
ne perdei, te cercando. Apri il tuo core,
e lasciami partir.
Zenobia. Numi! e tu prendi
sí scellerato impiego ed inumano?
Zopiro. Il comando è sovrano, e a me la vita
costería trasgredito.
Zenobia. E qual castigo,
qual premio o quale autoritá può mai
render giusta una colpa?
Zopiro. Addio. Non venni
teco a garrir. Nella proposta scelta
vedesti il mio rispetto. A mio talento
risolverò. (finge voler partire)
Zenobia. Ferma!
Zopiro. Che brami?
Zenobia. Io... Pensa...
(Assistetemi, o dèi!)
prevenir le tue brame
senza che parli: è privilegio antico
giá delle belle. Il so: tu Radamisto
hai ragion d’abborrir. Gl’impeti suoi,
le ingiuste gelosie, l’empia ferita
note mi son. Basta cosí. Fra poco
vendicata sarai. (in atto di partire)
Zenobia. Perfido! e credi
sí malvagia Zenobia? un sí perverso
disegno in me?...
Zopiro. Non ti sdegnar: l’errore
nacque dal tuo silenzio. (ai seguaci) Olá! guidate
la principessa al suo consorte... Io volo
Tiridate a svenar. (in atto di partire)
Zenobia. Sentimi. (O numi,
la mia virtú voi riducete a prove
troppo crudeli! Io di mia bocca, io stessa
condannar Tiridate! E che mi fece
quell’anima fedel? come poss’io...)
Zopiro. Dubiti ancor?
Zenobia. No, non è dubbio il mio:
so chi deggio salvar; ma di sua vita
m’inorridisce il prezzo.
Zopiro. A me non lice
piú rimaner: decidi, o parto.
Zenobia. Aspetta
solo un istante. Ah! tu potresti...
Zopiro. Il tempo
perdiamo inutilmente. O l’uno o l’altro
deve perir.
Zenobia. Dunque perisca... (oh Dio!)
dunque salvami...
Zopiro. Chi?
Zenobia. Salvami entrambi,
se pur vuoi ch’io ti debba il mio riposo;
e, se entrambi non puoi, salva il mio sposo.
d’un sí fido amatore?
Zenobia. Salva il mio sposo, e non mi dir chi muore.
Zopiro. Salvo tu vuoi lo sposo?
salvo lo sposo avrai:
lascia del tuo riposo,
lascia la cura a me.
I dubbi tuoi perdono:
tutto il mio cor non sai.
Ti spiegherá chi sono
quel ch’io farò per te. (parte)
SCENA VIII
Zenobia sola.
donna crudel, sí barbaro decreto
senza morir! né mi scoppiasti in seno,
ingratissimo cor! Dunque... Che dici,
folle Zenobia? Il tuo dover compisti:
e ti lagni e ne piangi? Ah! questo pianto
scema prezzo al trionfo. È colpa eguale
un mal che si commetta,
e un ben che si detesti. È ver; ma intanto
muor Tiridate, io lo condanno, e forse
or, chiamandomi a nome... Ah! dèi clementi,
difendetelo voi. Salvar lo sposo
eran le parti mie: le vostre or sono
protegger l’innocenza. Han dritto in cielo
le suppliche dolenti
d’un’anima fedel; né col mio pianto
rea d’alcun fallo innanzi a voi son io:
vien da limpida fonte il pianto mio.
voi sapete, o giusti dèi,
se son puri i voti miei,
se innocente è la pietá.
So che priva d’ogni errore,
ma crudel non mi volete;
so che in ciel non confondete
la barbarie e l’onestá.