XII - Battistero, chiesa, cimitero

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XI XIII
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Capìtolo xii.


BATTISTERO, CHIESA, CIMITERO!


Pisa, Battistero, Chiesa e Cimitero, e poi il campanile che suona; o suonava una volta.

Le alte mura merlate, severe, nere, in questa parte remota di Pisa, si piègano a gòmito e sembrano recìngere il confine di un mondo.

Battistero, Chiesa, Cimitero e la campana che chiama; tutto è marmo bianco, su cui è passata la mano giallina del tempo: un color di cera, un color di alabastro, come la mano dei vècchi e dei morti: tutto un ricamo aèreo sul verde del prato!

Io vi giunsi sul vèspero luminoso di un giorno di festa, e, per buona ventura, quell’àngolo un po’ fuori di mano di Pisa, era deserto: cioè proprio deserto, no. [p. 111 modifica]

Si vedèvano sul verde del prato gruppi di gente, seduta o sdraiata; ma che cosa facesse, non distinsi da prima per la lontananza.

«Qui dunque a Pisa — pensai — è lècito calpestare i tappeti verdi ed anche sdraiàrvisi;» e così mi accostai a quei monumenti venerandi «calpestando», ma senza paura; ed un po’ percorrendo quei sentieri marmorei, tracciati come lìnee cabalìstiche, sul verde, fra l’uno e l’altro monumento. L’erba del prato non era gentilina, pettinata, rasata dal giardiniere: ma rubesta, scura, tenace.

Attorno al Battistero, alla Torre, alla Chiesa non trovai, in quell’ora in cui io vi giunsi, alcun tedesco col Bèdaeker rosso, nessun visitatore, nessun cicerone. Il Battistero, il Cimitero, la Chiesa èrano chiusi in quell’ora; ma parèvano vìvere ancora nella vita.

Quei gruppi di gente, che avevo intravveduta, èrano formati di famìglie di artigiani con loro donne e bimbi. Dove cadeva l’ombra dalle mura o dalle cùpole, facèvano merenda in cròcchio: in mezzo, un tegame, un fiasco, pane e frutta; mangiàvano placidamente, fra [p. 112 modifica]il loro Battistero e il loro Cimitero. Poi i bimbi ruzzàvano, e quei monumenti parèvano protèggerli e non adontarsi.



Quel Battistero, quella Chiesa, quella Torre cantante, quel Cimitero, adorni dei più bei segni della resurrezione, che cosa èrano? Asilo e pàtria; il luogo del battèsimo, il luogo delle nozze, il luogo della pace. Una religione, insomma!

La speranza immensa abitava allora dietro queste porte. Oggi le nostre patrie sono più grandi, e vi sono tanti asili e tanti manicomi, con tanta igiene, che una volta non si conosceva nemmeno. Ma questi edifici moderni non sono belli. Perchè? Perchè non li ha edificati la pietà; e nè anche la religione. V’è bensì chi dice oggi di crèdere nella religione dell’umanità. Ma ci possiamo fidare?



Come fuggìrono veloci quelle ròsee ore del vèspero! Il monte di San Giuliano, dietro la Torre pendente, pigliava [p. 113 modifica]certe ineffàbili tonalità violàcee. Conforto di maggior frescura, e profumo di rèsine, recava dal Tirreno la sera imminente.

Passavano intanto donne del popolo coi loro bimbi davanti alla chiesa: li sollevàvano a baciare quelle istoriate porte di bronzo, chiuse come il mistero; e non so perchè, dicèvano ad ogni porta, con accorato accento: «Bello, bello!» con quelle elle che squillàvano come làmine tese fra la dolcezza lamentosa delle vocali; ed i bimbi ripetevano: «Bello».

«Bello», che cosa?

Sì, «bello» e basta.

Quanto più sàvio baciare le impenetràbili porte del mistero, e dilungare piamente, in silènzio, a capo chino, come facèvano quelle donne, piuttosto che urtarvi col capo, come facciamo noi! Ed allora anch’io mi posi a riguardare quei riquadri delle porte ad alto rilievo di bronzo, ed una figurazione più delle altre mi attrasse: essa rappresentava un cancelletto campestre, dietro il quale era un orto fiorito, e, dentro, tante figurine con gli occhi levati verso il cielo. [p. 114 modifica]

Sotto stàvano iscritte quelle parole simbòliche che il D’Annùnzio pose a tìtolo delle sue rime profane: Hortus Conclusus. E tutte quelle figurine di bronzo, che sono gli abitanti del nostro mondo, parèvano estàtiche a contemplare quello che avviene lassù, nel gran sècolo, nella gran pàtria di Dio. E un po’ per volta divenni estàtico io pure.

— Mi accorsi allora di non èssere solo: una vècchia magra, lunga, passava cercando con gli occhi e col tatto, l’una e l’altra porta.

— Che cosa cercate, buona donna?

— E ci deve èssere! L’ho visto quand’io era bimbetta, e non lo trovo più! — disse come parlando a se stessa.

— Che cosa?

— Il pretino, veh! — rispose.

Ella cercava tra quelle figurazioni la stòria di un prete di cui era antica leggenda che avesse rubato l’àbito e la corona di gemme alla Madonna: «E un giorno — diceva la vècchia — trovorno il pretino stiacciato fra le du’ porte, metà di qua, metà di là; e allora si capì che era stato lui. E ci dev’eser qui il pretino, e non lo trovo più».

La buona vècchia, da quanto riuscii [p. 115 modifica]a capire, credeva nella Madonna e nel miràcolo, ma non credeva nei preti.

— E se loro non vi danno l’assoluzione? — domandai.

— Oh, senta — rispose ragionando come si fosse trattato di un affare spìccio e che si poteva còmpiere anche quella sera stessa — , io ho settant’anni e più di vita, e in settant’anni non ho fatto male a nissuni. Possa pèrdere questi occhi e non veder più i miei figliuoli se ho fatto male a nissuni! Quando sarò morta, mi bùttino dove vògliono. Poi farà Dio quello che vuole di me.

— Oh, buona donna, siate certa che porteranno anche voi lì, nel Cimitero....

— Oh, lì non seppellìscono più nissuni. Quant’anni è che non seppellìscono più? Ma gli scienziati — interruppe poi gravemente — ci hanno diritto.

— Gli scienziati soltanto? — domandai — ed i poeti, no?

«Scienziati» voleva ella dire, cioè «i saggi», cioè quelli che sanno le cose che non si vèdono. Mi diede la buona sera, e si allontanò per uno di quei raggi bianchi che lineavano il prato scuro.

Quella donna è nobile certamente — dissi a me stesso seguendo con lo sguardo [p. 116 modifica]la sua magra figura; — non sarà contessa o marchesa: ma nòbile è certamente! Ammette qualche privilègio per gli scienziati e per i poeti. Si rivolge al suo Creatore senza interposta persona: «Ecco, o Dio, a te la mia ànima».

Domattina avrei trovato tutto aperto: la chiesa e il cimitero. Ma non era il caso di ritornarvi. Il trionfo della morte dell’Orcagna, con quei cavalieri che si arrèstano davanti alle bare, lo vedremo quando che sia.



Mi avviai io pure. Non era così caduta la sera che alla luce ancora sospesa nell’aria, non distinguessi in una piazzetta, deserta allora, un edifìcio di nòbile fattura antica, da gèmine scalee esterne aggraziato, le quali sul chiuso portone in alto si congiungèvano.

Una scritta dicea: Scuola superiore di magistero. Una stàtua marmòrea, guerriera, dominava la solitùdine della piazzuola. «Deve èssere — pensai — la simbòlica Minerva, dea della sapienza, perchè questa è la casa della sapienza. Ve ne sono anche altre in Itàlia: ma questa è una delle case più pregiate.» Qui [p. 117 modifica]studiò, in fatti, Giòsue Carducci, il quale fu come tu vuoi, o Minerva: cioè fu sapiente e fu guerriero: e anzi voleva che i professori fòssero i guerrieri della nuova Itàlia. Quando morì, l’hanno rivestito di abiti pontificali con gran riverenza; ed ora con grande irriverenza lo vanno spogliando anche delle fòglie del santo alloro. Minerva, Minerva immortale, non esiste più la immortalità?»

E mi appressai alla stàtua marmòrea. Ohime! Non era la divina armata Pàllade Atena. La stàtua era bensì loricata, ma non era Atena. Era uno dei tanti imbelli prìncipi medìcei, agli òrdini di casa d’Aùstria e di Spagna, che pittori e scultori vestìvano, nel Seicento, da guerrieri romani, sì che finìvano per essere creduti guerrieri veramente romani.

«Minerva, vedete — mi disse il sedentàrio personàggio marmòrio — ha l’inconveniente di inoculare la sapienza agitante. Qui si fàbbrica invece la sapienza riposante.»

Allora per la gèmina scalea di quella scuola mi parve di vedere salire e scèndere una quantità di contributi, saggi, ricerche, congetture: una spècie di un altro cimitero. [p. 118 modifica]

Antiquària! Con tutta la precisione dei moderni sistemi; ma antiquària.

Mi venne, allora, in mente Giacomo Leopardi quando giovinetto uscì dalla biblioteca paterna e si recò in Roma per cercarvi la vita, e trovò invece che tutto in Roma era antiquària. Guai a lui se alla gente romana egli avesse detto: «Io son poeta, io son colui che sentì il suon dell’ora e le voci dell’infinito». E se avesse detto: «Io son colui che dall’antiquària dedussi il verso: Io solo combatterò, procomberò sol io», la gente antiquària di allora avrebbe esclamato: «È pazzo costui?». Eppure per quel verso noi lo chiameremo Liberatore.

Potrò io rinchiùdermi in una biblioteca, come in un chiostro dalle spesse mura e dilettarmi dell’antiquària, o, sopra un bel leggìo, lèggere il De òcio religiosorum: potrò io godere nel non sentire più l’ossìgeno della vita: ma per i giovani, no! Esiste negli anni giòvani un servìzio militare obbligatòrio. Non sarà più — come si va dicendo — il servìzio materiale delle armi, ma veramente, comunque, pei giòvani militare, navigare est necesse! [p. 119 modifica]

Una luce violenta mi abbagliò. Ero arrivato presso i Lungarni. Bars, buvettes cinematògrafi con le sòlite proiezioni deformi o grottesche, caffè all’aperto, gran folla, gran luce elèttrica. Mi accostai al parapetto del fiume e vi rimasi finchè l’ùltima luce rossa del tramonto, sospesa su le acque, disparve.

Al mattino mi levai presto, e andavo lungo le rive dell’Arno. Il mattino rugiadoso tremava di un pàlpito di giovinezza. La riva dell’Arno era deserta in quell’ora, e mi si animò per una fantasia d’altri tempi. Una cavalcata orgogliosa risale le sponde dell’Arno: Lord Byron, la Guìccioli, la leggiadra contessa, poi altri gentiluòmini, poi il corteo dei servi in gran contegno. Dall’alto dei lùcidi palafreni quegli stranieri guàrdano l’ùmile gente, guàrdano le onde cilestrine del fiume, mèmore delle glòrie di Pisa. Ma ora, Rule Britania. Le galee [p. 120 modifica]di Pisa non ci son più. Britànnia impera sull’onde.

Giòrgio Byron, pàllido orgoglioso poeta britanno! Peregrinava per le città già imperiali d’Itàlia: Venèzia, Ravenna, Pisa, che allora erano le città del silènzio. Vìvono i santi e i màrtiri sui mosàici d’oro a Ravenna e vìvono i pini in Ravenna; scintilla cilestrina l’acqua dell’Arno. Ma l’Itàlia è nelle sue grandi arche marmòree. Quante arche all’aperto, fra gli sterpi, in Ravenna! Napoleone è morto a Sant’Èlena, il tricolore è stato sepolto anche lui. Sull’Itàlia ora è stesa una dura, bianca assisa austrìaca: il papa benedice la morte d’Itàlia. E allora discèsero in questa pàtria i giòvani poeti oltramontani, figli delle lor pàtrie potenti. Venìvano ad inspirarsi visitando le belle regine morte: Roma, Venèzia, Ravenna. Quale voluttà! Avèvano seco le belle loro arpe romàntiche, e questo cimitero d’Itàlia era quello che ci voleva per riportare in pàtria gloriose canzoni.

Quali tocchi alle loro arpe romàntiche! E bello, con inanellata la chioma, azzurre le pupille, venne Lord Byron e chiamò l’Itàlia: «Nìobe delle Nazioni». A Venèzia le belle donne, dai nomi [p. 121 modifica]dogali, elevàvano troni a lui, per lui degnamente accògliere. A Ravenna, quasi staccata dalla processione delle spiritali màrtiri esàngui, nel musàico d’oro di Sant’Apollinare, venne a lui incontro Teresa Guìccioli, la contessa.

Ma ella era tutta di carne, era tutta palpitante, e ti si disciolse fra la bràccia. Sentisti tu, o poeta, nell’allacciamento di lei la voluttà come se la morta Nìobe rivivesse e ti baciasse in prèmio della pietà che tu avesti per lei?

La morta Nìobe rivivrà!

Pineta di Dante, pineta del Boccàccio! Batte il mare ai tuoi màrgini, e il cielo vi trasporta, al tramonto, fulgori orientali, e allora le chiome dei pini si colòrano di sàngue. Le màrtiri in fila hanno un insensìbile moto di vita: dall’abside azzurra di Santo Apollinare in Classe, Cristo, possente e giòvane, pare in atto di levarsi e dire: «Risorgerà! La morta Nìobe rivivrà!».

Quale amore, o Giòrgio Byron!

Ma poi tutto si fa cupo e sanguinoso: prima è il rogo del poeta Shelley, da te acceso, o Giòrgio Byron, in fàccia al Tirreno; poi è la tua giòvane morte, eròica, come un’espiazione, a Missolungi. [p. 122 modifica]Come in un’antica tragèdia! Perchè tu, felice poeta, ricercasti la tua morte?

E allora mi venne incontro un’imàgine evanescente, quella della tua bimbetta, o Giòrgio Byron, che tu avesti da altra donna, e che tu quasi abbandonasti in un convento di Romagna.

Di lei più nulla si sa, più non si parla, e pure mi pareva che la sua imàgine mi venisse incontro di là dove agli innocenti si risponde.

Quale strano nome tu le imponesti! Ma era un nome itàlico: Gaja? Letìzia? Alba? Allegra? Sì, Allegra, tu la chiamasti così: ma ella morì da te lontana, e aveva cinque anni, in quel convento di Romagna. Morta la tua pìccola gaiezza! morta la tua letìzia, la bimbetta tua! Perchè è morta? e di qual male è morta? e dove adesso ella è?

Le mònache di quel convento la chiamàvano la figlia dell’inglese, e questo è quello che esse ricòrdano di lei: «aveva gli occhi azzurri, i capelli neri, le manine affusolate. Aveva nome Allegra, ed era figlia di Lord Byron. Era buona e gentile ed era la nostra gràzia. È morta, non sappiamo di qual male. È morta. E poi che ella fu morta, venne [p. 123 modifica]un uomo di terra lontana, alto della persona, coi capelli inanellati e gli occhi azzurri. Si sentìrono forti grida nel monastero. Milord piangeva perchè era morta la sua creatura. Fu composta in una ghirlanda di fiori, fu deposta in una tomba, e il padre incise il motto: «Io andrò a lei, ma lei non tornerà a me».1

Non so perchè una gioja di pianto allora mi ravvolse. Mi pareva che veramente ci fosse il paradiso per gli innocenti: e la pìccola inanellata Allegra io la vedevo che si sollevava ridente sopra le mònache morte; ella diceva: «Io sono la pìccola Ifigenia!».

E fu dopo di allora che il poeta corse alla sua morte. Certo tu non l’hai lasciato per iscritto, o poeta, perchè soltanto alla morte e non alle muse si confidano le parole supreme. [p. 124 modifica]

Le acque dell’Arno corrèvano continuamente; e altre parole supreme mi vennero incontro. Perchè fu a Pisa che la lèttera del padre Monaldo Leopardi raggiunse il figlio Giàcomo. A Giàcomo Leopardi nessuna venustà della persona, nessuna voluttà, nessun onore in vita! Giàcomo Leopardi aveva fuggito il padre e la gran casa di Recanati, come una maledizione. Ora egli dimorava in Pisa, e qui lo raggiunse quella lèttera del padre Monaldo, scritta da Recanati il 16 màggio 1828, che gli annunciava come l’àngiolo della morte era passato sopra la sua casa, inalberando lo stendardo del pianto. Era morto Luigi, il giòvane fratello di Giàcomo. Diceva Monaldo: la morte spezzò la corona delle giòvani olive che èrano l’allegrezza e il decoro della paterna mensa. Quali parole! Allegrezza, giòvani olive, paterna mensa! Che cosa era in confronto la glòria ricercata dal figlio? Egli cercava la glòria e la sapienza, e incontrava sempre la vanità. Quello e non altro che gli scriveva accoratamente, [p. 125 modifica]timidamente suo padre in quella lettera: Giacomo mio, salviàmoci. Tutto il resto è vanita! Forse quel salviàmoci può sembrare grottesco; ma fu destino del conte Monaldus de Leopardis, in parrucca e spadino, già nel secolo XIX, parère grottesco; eppure se il padre e il fìglio fùrono divisi nella vita, io li vedevo congiunti nella morte.

Tutti morti nella giovinezza, Byron, Shelley, la pìccola Allegra, Leopardi: ma una imàgine perdurava nella vita: impinguava, deformemente impinguava. Chi? La contessa Guìccioli.

C’è il barone Hübner che nelle sue memòrie parla di una decrèpita dama alle Tuileries, obesa e semi-idiota, a cui però tutti rendèvano onore di curiosità, perchè era stata l’amante di Byron.

  1. Vedi il raro opùscolo di Emilio Biondi, La figlia di Lord Byron, Faenza, tip. Montanari. Byron dettò l’epigrafe: In memòria di Allegra, figlia di G. Q. Byron, che morì a Bagnocavallo in Itàlia, il xx aprile mdcccxxii, in età di anni v e iii mesi, e vi appose il motto biblico: Io andrò a lei, ma lei non tornerà a me