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xiii. - La pupa, il prete e la guerra | 131 |
la bàmbola si affretta a chiamare dal finestrino: «Facchino, facchino». È impaziente di scèndere. Consegna valige, grosse valige, scatoloni. Gira, però, ogni tanto la fàccia congestionata verso quella sua femminetta. Ella è fresca come un gelato; e non è mica infondato il sospetto che quei grossi imberbi degli ufficiali non àbbiano diritto di rinfrescarsi un poco al contatto di quel gelato di carne. Affare sèrio anche questo della proprietà! Ma non succede nulla. Il grazioso balocco pei grossi bambini si alza placidamente: alzàndosi, làscia cadere a terra il giornale coi bimbi infilzati: raccòglie solamente le rose, discende piano, con gràzia, con amàbile stento.
L’alta penna ondèggia su la folla, densa alla stazione di Viarèggio.
Molta gente è discesa a Viarèggio: il treno è quasi sfollato. Si riprende la corsa. Le Alpi Apuane àprono in fondo il loro scenàrio bianco di marmi. Sento con emozione gridare un nome: Pietrasanta. Qui è nato Giòsue Carducci. Mi pare che tutta la gente debba guardare, debba dire: «Dove è nato Giòsue Carducci?» La gente non dice nulla.