Viaggio di un povero letterato/IX
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Capìtolo IX.
MAGISTER ELEGANTIARUM.
Il giovinetto che era con me in quella spècie di scàtola bucata che è l’automòbile Bologna-San Piero a Sieve, pareva su le spine.
Egli era in quella età beata ed ancora implume, in cui nei tempi antichi si andava paggi e damigelli presso qualche barone. Mi si presentò nel fatto: Pierettini Giùlio, impiegato nella ditta «Daruk und Sohn», fabbricatrice di grammòfoni, fonògrafi e dischi dei più cèlebri artisti, con depòsito generale in Milano, via X, n. 7.
Egli non andava, come me, a Scaricalàsino — paese alla sua volta anche a lui sconosciuto — ma più oltre....
— Mio dio, dio mio! — diceva fra il sèrio ed il faceto — se si va avanti così, io sono completamente rovinato!
— Ma in che cosa rovinato, bel signore?
— Ma i miei vestiti, porco can! Non vede lei in che stato sono ridotto?
Confesso che io fui molto sorpreso da queste parole, perchè io ammiravo — oltre che il paesàggio — anche il mio compagno.
Egli era un paradigma: pareva venuto fuori, fresco fresco, da una ditta di mode: High life, English taylor, Al mondo elegante.
Egli non guardava punto il paesàggio; ma si stava tutto composto sul suo seggiolino, e ad ogni colpo del polverone, piegava il capo come il soldato nuovo, ai primi colpi di fucileria.
Disse:
— Supponendo di arrivare sano e salvo, io mi presento che sembro un vero mostro. Pensi, in un hôtel di primo òrdine, pieno di signori e signorine, sbarcare così! Ho preso tutto — e indicava la valìgia — smoking, pijama..., ed ho dimenticato la spolverina da viàggio! Ho dimenticato? Non ci ho pensato.
— Lei va a fare un poco di villeggiatura? — domandai.
— Sì, un po’ di campagna, e se ne ha il diritto! Tutto il giorno in ufficio! — E mi spiegò come il figlio di un conduttore di un hôtel, nel Mugello, impiegato anche lui presso una ditta di Milano e suo buon amico, lo avesse invitato quale òspite graditìssimo per una ventina di giorni. — Un hôtel di nuovo impianto — mi andava spiegando — in posizione splèndida; ottocento metri sul mare; garage, tennis, due fonògrafi monstre, sempre della ditta Daruk und Sohn; insomma tutto il confortàbile moderno: al mattino, prima colazione, caffè latte e che latte! mèglio di Milano; burro, miele, confiture, pròprio come in Germània; secondo lunch a mezzogiorno, potage e due portate; alla sera, poi, minestra, altre due portate, dolce; e fiasco in tàvola. Sentisse che vino! Vero Chianti! Mica di quello che si fàbbrica a Milano! Chi vuole, fa la cura del latte; e chi vuole, fa la cura del vino di Chianti. E tutto questo po’ po’ di roba per lire dieci al giorno. Sono prezzi da fallimento, prezzi réclame: in Svìzzera un trattamento sìmile vale almeno venti lire....
Ora egli si sarebbe divertito, avrebbe fatto rìdere, ballare le signorine, avrebbe mangiato molte fragole, mangiato molti spaghetti col sugo, una cosa che a Milano «lascia alquanto a desiderare». Avrebbe imparato la lìngua fiorentina: Costassù, codesto costì, e non la mi fàccia il nesci! una cosa complicata mica male, che a scuola non era riuscito a capire.
— Lei ha studiato?...
— Tutte le tre tècniche, ma, in confidenza, la lìngua milanese è la vera lìngua del commèrcio.
Naturalmente non andava costassù a mani vuote — e mi mostrò un pacchetto rotondo.
— Una torta? — domandai.
— Mai più! Alcuni dischi straordinari, Caruso, Bonci ed altri cèlebri divi e dive. Non li conosce? No! Nemmeno al fonògrafo? Non la interessa il fonògrafo?
— Sinceramente, preferisco non sentirlo.
Mi guardò con istupore.
— È il primo che sento. E lei dice di vìvere a Milano? — E ammutolì guardàndomi.
Aveva la fisonomia di un buon figliuolo; e siccome ai miei occhi egli pareva moltissimo elegante, così giudicai ùtile di approfittarne per risòlvere il diffìcile problema della differenza che intercedeva fra me e le persone eleganti in gènere, e lui in particolare.
Dissi dunque:
— Lei si lamenta di arrivare a destinazione mal conservato. Che cosa dovrei dire io, allora? Guardi queste scarpe gialle! Sono otto giorni che le porto e non si capisce più di che colore esse sìano. Se poi avessi comperato delle scarpe con la mascherina bianca e nera, come le sue, chi sa in quale stato sarebbero ridotte.... Le sue scarpe dèvono possedere un qualche segreto....
— Sono scarpe di american shoe, — disse — ed è già il terzo mese che le porto.... Ma la sera bisogna mètterci il suo bravo stirascarpe; e così si consèrvano nuove.
— Allora passiamo ai calzoni. Anche lei è in viàggio; ma i suoi calzoni sèmbrano dipinti come nei figurini. I miei..., i miei arrossìscono di fronte ai suoi.
Anche per i calzoni la cosa era sèmplice.
— Quando si lèvano, la sera — diceva — si fìssano nel loro stira-calzoni....
— E tutti questi arnesi per stirare, scusi, li porta con sè?
— Certamente! — rispose meravigliato della mia meravìglia.
— Passiamo ad altro. Confronti il mio cappello col suo....
Sorrise di compiacenza. Se lo tolse e me lo spiegò.
— Cappello sans-gêne, forma capricciosa, qualità extra-extra. Un’ala deve posare su l’orècchia sinistra; il nastrino posteriore va a due centìmetri dalla lìnea di tosatura, e così rimane fisso e non si sforma. Vede?
Nel levarsi che egli fece il cappello, era rimasta scoperta la testa: una testolina oblunga, un poco a forma di cetriolo: ma la lucidezza della capigliatura era ammirèvole.
— Scusi, prima che lei si rimetta il suo copricapo extra-extra, mi spieghi un po’: c’è anche lì qualche cosa per stirare i capelli? Prescindendo — ben inteso — dal colore, i miei capelli hanno l’abitùdine di rizzarsi obbrobriosamente....
— Per lustrare ed ammorbidire i capelli — rispose — io faccio uso della brillantina Organ di Coty, al profumo di eliotròpio. Provi anche lei.
Proverò, ma credo che resteranno ìspidi lo stesso: il difetto sta sotto: nel cervello.
Mi nacque un dùbbio; e dopo avere ringraziato, esposi questo dùbbio così:
— Non le pare, bel signore, che dover lustrare e stirare tutte queste cose, sia un poco come diventare il cameriere di se stessi?
Quel buon figliuolo fece una mossa còmica: levò le ciglia sino a far ritirare la già pìccola fronte del suo lungo pàllido volto; spalancò, storse la bocca, instupidì le pupille. Io lo avevo obbligato ad un esercìzio ben crudele: pensare!
Ma si rimise sùbito, come un vispo galletto che, immerso nell’acqua, scuote le penne coraggiosamente e riprende il contegno di prima.
— Sarà — rispose allegramente. — Ma io ho osservato che quando esco di casa poco soigné, per esèmpio col berretto da ciclista, la gente mi saluta con meno rispetto. Le signorine, poi, quando si è eleganti, guàrdano e guàrdano anche per prime! Ma quando non si è eleganti, niente guardare! Questa, capirà, è una cosa molto sèria, specialmente per un giovinotto. Io poi le dirò per conto mio questo fatto curioso: se non ho la cravatta a posto, non mi sento a posto nemmeno moralmente.
— Bravo! A propòsito di cravatte! Come va che la sua cravatta sta come torre ferma; e la mia gira come un quadrante per il collo?...
— Sèmplice! Lei la fissa con queste molle automàtiche.... Permette?
Mise delicatamente il pòllice e l’ìndice nel taschino del gilè, ne trasse sùbito un astùccio, dall’astùccio due mollette; mi venne vicino con la sua testolina lucidata all’eliotròpio, e come glielo permetteva l’andar balzelloni nell’automòbile, fissò e mise in valore anche la mia cravatta.
Mentre egli si stava così chino, io assaporavo il profumo della sua testolina all’eliotròpio.
— Le cravatte svolazzanti — disse — è bene che lei le èviti. Hanno un caràttere democràtico, ma non sono niente chic.
— Perchè, scusi, lei è aristocràtico?
Vidi la sua fronte incresparsi ancora sotto il martìrio di una meditazione.
— Lasci, lasci, già anch’io non so bene se sono democràtico o aristocràtico — dissi, e ringraziai della molletta e del consìglio.
— E un’ùltima spiegazione, la prego! — aggiunsi di poi: — lei, come ho potuto osservare, ha trovato sùbito la scatolina delle mollette; lì vedo che spunta il fazzoletto; di lì vedo che vien fuori l’astùccio delle sigarette. Io, invece, per trovare un oggetto necessàrio, devo ogni volta fare un viàggio per tutte le tasche: cerco il fazzoletto, viene fuori un toscano; cerco il toscano, viene fuori il temperino....
— Ma ogni tasca, signore — rispose quel caro giovane — ha la sua particolare missione....
Egli mi spiegava la missione delle vàrie tasche: ma ogni tanto si arrestava: la fuga dell’automòbile, giù per le discese, gli levava il respiro.
Capii come, oltre che dall’assenza della spolverina, il giovanotto era preoccupato della pazza corsa a cui si abbandonava l’automòbile. Diceva anzi:
— Quel diàvolo di chauffeur deve aver bevuto chi sa quanti cicchetti di grappa! Nelle svoltate, che non ci si vede a cento metri, lui lància questo baraccone alla terza velocità. Guardi come cala giù per i tourniquets! Roba da matti! Se ci imbattiamo in un’altra automòbile, mi dice lei dove andiamo a finire?
— Più di morire — risposi — io credo che non ci possa capitare....
— E le par poco? Mi par tanto! — E voleva dire: «Allora, addio cappellino extra-extra, addio spaghetti col sugo, addio fràgole e signorine».
— Ma scusi — obbiettai — se lei deve andare soldato, con la guerra che c’è in Lìbia, con questi nuvoloni neri che passano sull’orizzonte d’Europa, è mèglio star preparati.
— Per questo sono a posto: fìglio ùnico di madre vèdova! — esclamò allegramente.
— Va bene! Però ammetterà che una volta o l’altra bisogna morire....
— Di questo poi non me ne parli, sa! Mi vèngono i brìvidi solo a pensarci.
— Eppure avrà inteso dire che una volta o l’altra bisogna morire....
— Così ho inteso dire, e così sarà: ma io non ci penso. Mi viene una paura, se ci penso! Quasi quasi farei la strada a piedi. Questa è una corsa alla morte!
Io dissi allora gravemente: — Thànaton gar dediènai oudèn allo estì e sofòn eìnai dokèin, me, onta! Così è, il mio caro giòvane, E sa chi dice così?
I suoi begli occhi neri mostravano un acuto stràzio a queste parole.
— Che vorrebbe dire?
— Vorrebbe dire: temer la morte, null’altra cosa è che sembrar d’èsser sàggio, non essendo.
— Rinùncio ad esser sàggio.
— E il suo ideale allora sarebbe?
— Portar il frac in società, aver da pagar da cena a qualche donnina. Un uomo che non ha portato il frac, che non ha puntato a un tappeto verde, che non sa far stare allegre le signorine, che cosa è? Io, veda, ho la specialità per far star allegre le signorine. È che poi mancano i soldi....
— Così che lei vorrebbe avere tanti soldi....
— Eh, già!
— E non le darèbbero il giramento di testa?
— Cosa dice mai!
— Ma guardi, guardi lì — mi disse ad un tratto — quella montagna tutta verde, che pare un triàngolo tirato col compasso....
— Ebbene?
— Come ci starebbe bene una réclame tutta in bianco: «Casa Daruk e compagni. Grammòfoni insuperàbili!».
Un campanile aguzzo, un aggruppamento di case biancheggianti, su di un pòggio, ci venìvano incontro rapidamente.
L’automòbile si arrestò alle prime case dell’abitato. Il conduttore scese, gridò:
— Monghidoro! Mezz’ora di fermata.
Raccolsi le mie cose: mi preparai a scèndere. Salutai il compagno.
— Ma non diceva lei che andava a....
— A Scaricalàsino — risposi. — Monghidoro e Scaricalàsino sono la stessa cosa.
Mi guardò come temendo d’èsser beffato.
— Credevo — rispose — che fosse un nome inventato, ma che il paese non esistesse....
— Non esiste Scaricalàsino? Paese irreale, chimèrico Scaricalàsino? Ma è paese reale, ed è questo: Scaricalàsino! Domandi, ed il pòpolo le dirà Schergalesen! Non sente lei, giòvane e bell’amico, un’ebbrezza nel ripètere a se stesso: «La terra che io calco è Scaricalàsino! l’aria pura che qui respiro è aria di Scaricalàsino! non vede la tranquillità, la felicità nei cittadini di Scaricalàsino?».
Non dimenticherò facilmente gli occhi esterrefatti del mio giòvane compagno di viàggio. Mi disse: — Lei, signore, scusi, sa! deve èssere poeta.1
- ↑ Il giòvane, rispondente al falso nome qui scritto, fu due volte ferito nella Guerra; e allegramente lo vidi portare le sue ferite. Nota del 24 marzo 1916.