Viaggio di un povero letterato/X
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Capìtolo x.
EFFETTI DI SCARICALÀSINO.
Ma non appena la automòbile strombettò, e fuggì via, domandai a me stesso: «Cosa sono venuto a fare a Scaricalàsino?».
Ah, sì, a respirare ària pura.
Avrei voluto riprèndere la automòbile; e andar di lungo in Toscana, ma quel cassettone dell’automòbile era oramai lassù, in vetta a un altro pòggio.
Sì, l’ària a Scaricalàsino era pura; le fontane di Scaricalàsino versàvano lavacri di acque pure; file di buoi e di asinelli baliosi trascinàvano seco il profumo dei presepi. Ma io ero già stanco. Mi dilungai fuori del paese e vidi, per greppi e prati, file di donne, vècchie e fanciulle, che intrecciàvano, col ràpido moto delle mani, trecce di pàglia. Le mani di quelle trecciaiole forse èrano pure; ma sùdice e deformi. Rientrai in paese.
Guardiamo le antichità: una làpide mi avvertì che Scaricalàsino aveva dato i natali al Ramazzotto, uno di quegli avventurieri che vestivano di ferro e, quando garbava, scaricàvano pugni sul pòpolo, che allora era privo della sovranità. Anche il nome Ramazzotto richiama in mente una scàrica di pugni. Cosa strana e certo deplorèvole: vi sono momenti in cui si prova simpatia per gente sì fatta!
Vediamo se vi sono altre làpidi. La interpretazione delle làpidi serve anche a far pèrdere il tempo, come la spiegazione della sciarade. Ne scopro una graziosa, che ricorda il fàusto passàggio del papa Pio IX per Scaricalàsino, il 17 agosto 1857.
A Pio Sovrano,
Al Sommo Pastore,
Noi mìseri figli
Offriamo l’amore.
Dèvono èssere versi, nell’opinione di Scaricalàsino. Mi vènnero anche in mente le poesie di Mimì; e così passai altro tempo.
Oh, ma interessante! Ecco, pròprio vicina alla làpide per Pio IX, un’altra làpide, e un altro fàusto passàggio per Scaricalàsino: il primo giugno 1860, Vittorio Emanuele II, il Duce valoroso di Magenta, qui venendo di Toscana, colse su questi monti i primi omaggi dei pòpoli dell’Emìlia.
Dunque a due anni e mesi di distanza, i mìseri figli di Scaricalàsino, dopo avere offerto il cuore a Pio IX, lo offrìvano a Vittorio Emanuele II. Ma questa non è una specialità di Scaricalàsino: anche fuori di questo paese i pòpoli òffrono con molta facilità il loro cuore ai pastori nuovi.
Valoroso duce di Magenta, però, non era esatto; ma può andare per Scaricalàsino, tanto più che nei libri di scuola si dice lo stesso. Pòvero Napoleone III! Tutta la stòria del Risorgimento d’Itàlia sarebbe da rifare. Ma chissà se questa stòria è finita?
E così pensando, passai altro tempo.
Ma quanta ricchezza di preti c’è a Scaricalàsino! Baldanzosi, messi bene, ben pasciuti.
La buona gente mi assicura che se vado su pel Mugello, di preti e mònache ne troverò anche di più.
Si vede, allora, che la pianura è coltivata a socialismo rosso, e la montagna a socialismo nero.
E guardando i preti, passai altro tempo.
Ma ecco un’altra automòbile, pari idèntica a quella che avevo lasciata, rombò per Scaricalàsino.
— Questa dove va? — domandai.
— Torna a Bologna, — mi fu risposto. — Ma lei non deve andare in Mugello?
Mi avèvano visto scèndere poche ore prima con le mie scarpe gialle, girare per Scaricalàsino, ed ora andavo via. Cos’ero venuto a fare a Scaricalàsino? «No, buona gente, la verità è questa, che io non so dove andare, se andare in Toscana o tornare a Bologna.»
Ma se avessi detto così, avrei dato scàndalo: perchè è lècito seguire ad lìbitum o i sàtrapi rossi o i pastori neri; ma non è lècito ignorare dove l’uomo deve andare, e perchè andare.
Perciò risposi: — Sì, devo andare a Firenze....
— Allora domattina, con la corriera con la quale ella è venuta.
E l’automòbile passò.★
La gente mi parlava pittorescamente del Mugello, del Giogo, e della Futa. Lassù avrei mangiato fràgole di bosco. Dal vàlico, per Barberino di Mugello, avrei raggiunto San Pietro a Sieve; lì avrei preso il treno, e in mezz’ora sarei stato a Firenze e di lì a Pisa. Non avevo mai visto il Mugello; ma ne avevo l’imàgine di un paesàggio composto ed adorno, come la prosa del Firenzuola. E il nome di Barberino di Mugello mi fece balzar fuori la Nència da Barberino, la quale, in realtà, era una contadina, ma quei versi di Lorenzo il Magnìfico che tanti anni addietro avevo sentito recitare, io direi divinamente, in iscuola dalla bocca amara di Giòsue Carducci, mi rifiorìvano alla memòria:
I’t ’ho agguagliata alla fata Morgana,
Che mena seco tanta baronia,
e me la trasfiguràvano: fata Morgana, così pròprio, che sorrise per breve ora nella mitezza del cielo toscano. Poi la realtà: la servitù della pàtria.
E anche Pisa non avevo mai veduto; ma mi piaceva nominarla in latino: Pisae-Pisarum, e la vedevo con tante galee antiche; àuree, rosse su per l’Arno azzurro: e il cimitero di Pisa non avevo mai veduto, e lo vedevo come un gran porto silenzioso e adorno, dove approdàvano coloro che avèvano navigato.
Allora domani andremo a Pisa.
Era questione di far venìr sera nell’interminàbile giornata di Scaricalàsino, poi chiùdere òcchio, la notte.
Mi fu indicata l’osteria del Ramazzotto; e quell’ostessa mi assicurò che in un’ora mi avrebbe preparato delle tagliatelle, e un pollastrino su la graticola.
— Lei, intanto, — disse — vada a vedere i monti.
Ripresi il cammino per sentieri e prati attorno a Scaricalàsino. Vecchie e donzelle erano ancora accoccolate sui greppi a intrecciare la pàglia.
C’era la donzelletta e c’era la vecchierella incontro là dove si perdeva il sole oramai, come nella poesia del Leopardi. Ma allora capii perchè Leopardi si annoiasse tanto a Recanati, sino al punto da fare, a vent’anni, della filosofia su la donna.
Quelle feminette lavoràvano in silènzio, immòbili, con ràpido muòvere delle mani. Non so perchè quelle mani pure, ma sùdice, mi fècero venire in mente le mani impure di quella cortigiana, laggiù al caffè dell’Arena.
Sì, ella levàndosi, mi aveva sussurrato, «Venite?», offrèndomi indifferentemente il resto della sua notte immonda.
Ed io la avrei anche seguita: ma era l’alba, l’ora delle cose pure, l’ora che i bimbi dòrmono ancora. E poi c’era quell’arrière-goût di fègato con cipolla.
L’ostessa aveva apparecchiato in una spècie di giardinetto con una grossa tovàglia spighettata, che sapea di fresco odor di lavanda, e vi avea posato un fiasco di vino bianco, che pel collo sottile aveva le graziose bollicine, che andàvano su e giù. Gran quiete e solitùdine. E allora pensai a quell’antica istituzione che èrano i conventi antichi: una specie di fortezza spirituale, dove i flutti mondani si venìvano a fràngere. Quivi oh, lievemente vìvere, trascòrrere caldi e geli! Ebbene, quando sarò a Pisa, domanderò in una biblioteca, il De òcio religiosorum, che non avevo mai letto.★
Malauguratamente nel giardino c’era una pianta di gardènie, e tutta la colpa fu delle gardènie. Nei rossi vèsperi davanti al teatro dell’Arena del Sole, a’ bei tempi, si vendèvano gardènie.
In verità non bàstano i conventi, ma è necessària la rinùncia, anche alle gardènie; e invece ne spiccai una ed immersi tutto il naso in quella freddezza dei pètali carnosi sino a spezzare i pètali e a far nera la gardènia.
Intanto l’ostessa aveva portato in tàvola le tagliatelle.
— Ma che mostruoso piatto — dissi. — Lei ne ha portate per due.
— Ne màngia fin che vuole.
Molto eccellenti e toste.
Avèvano un afrore fresco e quasi carnale.
È necessàrio rinunziare anche alle tagliatelle.
Calava il vèspero. Il vino mi fece vedere Bologna, la rossa, Bologna d’altri tempi quando non èrano sorti i deformi casamenti e il pòrtico del Pavaglione odorava di felsina, e di gaggie, in quella sua composta signorilità. E si vedèvano i pochi edifici sopra i colli imminenti, spiccavano con purità ellènica.
Poi, non so come, sentivo mormorare questi versi del pòvero Severino Ferrari:
Vedi?
L’alba s’accende ed alza le ben cento
Torri Bologna fùlgida a’ tuoi piedi.
E Severino Ferrari richiamava Biancofiore:
O Biancofiore, i tuoi rìccioli d’oro
Come belli dormian sovra il tuo sen!
E allora anche Carducci, così maldestro a cantare d’amore, si commoveva per consenso, e sospirava:
O alti pioppi che tutto vedete,
Dìtene, adunque, Biancofiore ov’è?