Verso la cuna del mondo/VI
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La danza d’una “Devadasis„.
Madras, 9 gennaio.
Per i buoni offici del dottor Faraglia assisteremo questa sera alla danza d’una Devadasis: una bajadera d’alta casta, ospite in una famiglia indiana tra le più ligie al passato e le meno accessibili alla curiosità del forestiero.
Una bajadera: il nome suscita nella mia ignoranza occidentale una serie d’immagini assolutamente false: complici i libri d’avventura, le oleografie, i melodrammi, l’operetta. Bajadera, odalisca, uri, ecc. Una di quelle signore, insomma, di quelle signore d’Oriente, preferibilmente bruna, ma se occorre, se il soprano ha una bella chioma ossigenata, anche biondissima, da vestirsi «all’orientale» con quell’unico costume che la prima donna adatta serenamente a Thais e a Semiramide, a Cleopatra e a Salomè, vale a dire: due coppe gemmate, ottime per l’assenza e la presenza eccessiva, una guaina qualsiasi di tulle stretta alle reni e alle ginocchia da un impaccio d’orpello e sotto due gambe insolentemente europee, calzate di seta rosa e di due trampoluti stivaletti Luigi XV.... Bisogna rinunciare a questo figurino e bisogna sopratutto rinunciare al preconcetto che una bajadera non sia una signora per bene.
Una Devadasis (ancella della Dea) cioè una bajadera di casta bramina, vanta, anzitutto, una nobiltà millenaria, poichè non può essere che figlia di una bajadera come i suoi figli non possono essere che bajadere, se femmine, musici e letterati, se maschi. È facile comprendere come, anche per solo istinto ereditario, s’affini in una Devadasis l’arte del gesto, del passo, dell’atteggiamento, l’arte della voce e della maschera, l’attitudine letteraria a penetrare, commentare insuperabilmente i capolavori della poesia indiana.
Nata, cresciuta nel Tempio, educata con una regola inflessibile, essa non ha bisogno d’imparare le lingue sacre: il sanscrito, il pali, le sono famigliari sin dall’infanzia; le strofe dei Pouranas, i poemi storici e sacri indiani, cullano i suoi primi sonni; i suoi primi passi si muovono istintivamente ad un ritmo di danza, le sue prime parole ad un ritmo di canto e di poesia, i begli occhi tenebrosi si sono appena schiusi alla luce e riflettono per immagini prime la favolosa architettura del recinto sacro, gli Dei, gli eroi, i mostri di pietra e di metallo, la madre, le sorelle officianti e danzanti nelle cerimonie e nei cortei. Prigioniera nel tempio fino a quindici anni, essa limita l’orizzonte dell’universo tra lo stagno dei coccodrilli sacri e l’alte mura vigilate dagli elefanti di pietra. La sua carne, la sua anima s’accrescono esclusivamente di religiosità. Essa è nata e vive nella favola mistica. Tutta la sua educazione è intesa a fare di lei la viva scultura del tempio.
Il fiore della sua bellezza, appena pubere, può, deve anzi, essere raccolto da un protettore di stirpe nobile, un nabab che sarà legato a lei, ufficialmente, con un vincolo sacro e indissolubile. Costui deve dotare la bajadera di un patrimonio cospicuo, riconoscerla, beneficarla nell’eredità, subito dopo la moglie e prima dei figli, obbligarsi ad una offerta annua verso il tempio. Questo legame non esclude, anzi inizia da parte della bajadera un tenor di vita che a noi parrebbe della più spudorata infedeltà. Poichè da quel giorno essa è addetta al culto di Ramba-Devi, la Venere del Paradiso d’Indra, attende a cerimonie non descrivibili, ed è offerta dal sacerdote a tutti quei devoti — d’alta casta — che pagano un obolo adeguato, il quale obolo non va alla Devadasis, ma al tesoro del tempio....
Ohimè! A questo punto un occidentale non si ritrova più e pensa che nel suo paese un tempio, un sacerdote, una sacerdotessa di tal fatta corrispondono ad una nomenclatura assai meno arcana e meno rispettabile.
Ma tutto è questione di latitudine. Latitudine nello spazio e nel tempo. Sono i venti secoli di cristianesimo che dinanzi a tali consuetudini ci fanno arrossire di pudore o sorridere di malizia. Il bramino non arrossisce, nè sorride, come non sorrideva, nè arrossiva il pagano che giungeva in Pafo e in Amatunta e offriva l’obolo al tempio famoso. È risaputa l’identità di origine dei greci e degli indiani, la parentela che unisce la teogonia bramina alla teogonia ellenica. Ora Ramba-Devi, col suo Eros dal volto fosco, armato non di strali, ma di serpenti cobra, è la Venere del paradiso di Indra, la sorella certa della Venere greca che sopravvive nella terra di Brama mentre l’altra si è dileguata per sempre dinanzi all’avvento della nemica: la Vergine Madre.
Noi, devoti della Madre di Dio, affermazione dello spirito, negazione della carne, non possiamo comprendere un culto erotico; tutta la nostra intima essenza foggiata secondo una morale due volte millenaria, sussulta, si rivolta, vedendo ricomparire dalla notte dei tempi la sorella dell’antica avversaria.
Per questo non possiamo comprendere una Devadasis, nè definirla. Bisognerebbe aggiungere all’attrice somma, alla mima insuperabile, all’erudita, alla cultrice di poesia, la figura della sacerdotessa invasata, della menade folle.
Ma arrossiamo di pudore o sorridiamo di malizia.*
Non ridere e non sorridere — non rifiutare la ghirlanda di gelsomini al collo e la essenza di rose alle mani — non tendere la mano al padrone di casa — non lodare al padrone di casa la bellezza della figlia e della consorte, ecc., ecc. Il dottor Faraglia ci espone tutto un decalogo contro ogni possibile sconvenienza, mentre si viaggia nella notte illune su carrozzelle indigene trascinate da zebù, i minuscoli, agilissimi buoi indiani, dalle pelle tatuata, dalle corna lunghe e ricurve, dipinte in oro. Siamo una quindicina d’europei. Si viaggia verso Calam, nei sobborghi di Madras, sotto la vòlta dei cocchi eccelsi che disegnano sul cielo nero il profilo più nero delle foglie frangiate; in alto, in basso, uno spolverìo, un tremolìo di stelle e di lucciole, un profumo acuto di fiori ignoti, un sentore di terra non nostra, abbeverata dall’uragano recente. È nell’aria di questa notte invernale l’afa pesante delle nostre più calde notti d’agosto. Una palizzata: si entra in un giardino preceduti da due servi che illuminano i viali con un gran fanale — un fanale ad acetilene! — ; appaiono le foglie strane, a cuore, a lancia, a colori vivaci, la vegetazione di zinco, di latta dipinta, di velluto e di carne malefica, l’intreccio delle radici e dei rami serpentini; un giardino indiano il quale non si distingue dalla jungla che per le piante moderate dalle cesoie e per i viali sparsi di ghiaia a vari colori, disposta a disegni geometrici che i giardinieri pazienti rinnovano ogni giorno. In fondo la casa, che non si direbbe in verità la dimora d’un indu molte volte milionario; un edificio basso, imbiancato a calce, a verande spioventi, a colonnati in legno, un’architettura che ricorderebbe una nostra stazione di provincia se non le facessero cornice i flabelli verdi delle palme-palmira, gli zampilli vegetali dei cocchi. Siamo ricevuti nell’atrio, abbeverati con nostra gran meraviglia di champagne e whisky and soda che il padrone di casa ha fatto venire, con delicata ironia, dalla città lontana per dissetare gli impuri con le loro impure bevande: il padrone di casa che non accetterebbe da noi un bicchier d’acqua e collocherà certo in disparte, per altri europei, i calici dove abbiamo bevuto. Davvero non credevo di trovare l’India così intatta. Fuori delle grandi metropoli è Brama dovunque, Brama che domina come duemila, come quattromila anni or sono. Il padrone di casa, un indu sulla cinquantina, ci viene incontro seguito dal figlio, s’inchinano entrambi con le due mani alla fronte. Non sono vestiti che di un panio alle reni, ma traspare da tutta la persona ignuda una nobiltà che impone assai più dell’irreprensibile sparato degli alti funzionari europei. S’informano benevolmente sui casi nostri, non disdegnano qualche cortese parola inglese, sorridono, mostrando i denti abbaglianti fra le labbra rosse, le barbe bidivise e ricurve, ma gli occhi magnifici sono assenti, freddi, impenetrabili. Il figlio ci offre alcuni fogli stampati in caratteri industani, dove con gentile previdenza è stata.... dattilografata a tergo la traduzione del programma sacro.
Un servo ci versa l’essenza di rose sulle mani e sugli abiti, da certe lunghe ampolle d’argento cesellato, ci passa al collo le ghirlande di fiori intrecciate a fili e pagliuzze d’oro, come quelle dei nostri abeti natalizi. Sembra, questa, un’usanza favolosa ed è invece l’omaggio più frequente e più diffuso in tutta l’India, anche nelle grandi metropoli, anche nei ricevimenti quasi esclusivamente europei: delicata poetica usanza; ma certo questi lunghi boa di grosse magnoliacce odorose se stanno bene al collo d’una miss, fanno sorridere sullo smoking di un gentleman: dànno, per esempio, al panciuto roseo, lucente console d’Olanda, non so che aspetto muliebre di suocera in caricatura....
Attraversiamo il giardino per andare al teatro: è tardi. I padroni non ci seguono: perchè? Perchè, mi spiega Faraglia, è la terza sera che la bajadera si produce, ed è la sera riservata a tutte le caste, anche le caste con le quali un bramino non può avere contatto. Capisco, per questo siamo stati ammessi. È molto lusinghiero per noi!
Questi indu — quelli veri, ligi al passato, immuni da anglomania — hanno l’arte d’opporre alla tracotanza europea un orgoglio ben più fiero ed implacabile, dissimulato da tutta l’etichetta della più cordiale urbanità.
Il teatro, in fondo al grande giardino, è una semplice, vasta tettoia, sostenuta dai tronchi vivi dei palmizi simmetrici, come da snelle colonne vegetali. Da tronco a tronco la diramazione del gas acetilene — anche qui! — intreccia nell’aria i suoi serpentelli di stagno. Molte panche zeppe di torsi bronzei, di capigliature corvine, molte stuoie in terra ed intorno: una povertà primitiva che ricorda non un edificio destinato a una bajadera pagata mille rupie (1600 lire) per sera, ma una tettoia magazzino per legnami o cereali.
La danza è già cominciata quando prendiamo posto nelle prime panche che ci furono destinate; ho la fortuna d’aver dinanzi, a pochi passi, la danzatrice famosa. M’aspettavo di vederla ignuda o quasi, invece è la più vestita tra questa folla seminuda; ed è certo più vestita di una nostra signorina per bene in una serata di famiglia. Una snellezza alla Rubinstein, non so se illeggiadrita o ingolfata da un costume singolarissimo, formato di sete, di velluti, di tulli sovrapposti, che lasciano ignude le spalle e le braccia; ma dalle spalle alla gola, dalle spalle alle mani è uno scintillìo d’oro e di gemme, oro e gemme autentici, poichè così è prescritto dalla regola monastica, tutto un tesoro che tremola e corrusca sulla fine epidermide bruna: oro giallo del Coromandel, perle di Manaar, rubini, smeraldi, zaffiri di Ceylon; e dalle stoffe, dall’oro, dalle gemme emergono ignudi soltanto la maschera del volto, le mani, i piedi perfetti. Il volto! Non ho più potuto distoglierne lo sguardo. In una razza dove tutti: uomini, donne, vecchi, bambini, sembrano scelti da una giuria artistica, passati e corretti in un istituto di bellezza, si può comprendere a quale prodigio d’armonia impeccabile giunga una bajadera, un esemplare che è il prodotto d’una selezione millenaria. E quel volto sarebbe in verità troppo bello, troppo grandi gli occhi, piccola la bocca, regolare il profilo, troppo simile a certe miniature indiane che credevo di maniera, se la maschera perfetta non fosse agitata, scomposta dai sentimenti dell’anima in tempesta. Il gioco mimico è così espressivo che io temo per qualche secondo che la donna sia furente contro di noi. Ma non è furore, è dolore, è ansia mortale che s’accresce viepiù, contrae la bella bocca, dilata le narici vibranti, increspa i vasti sopraccigli.... È il volto di un’agonizzante, contratto da una visione spaventosa.
Forse — ho letto sul programma l’intreccio dei vari brani cantati e mimati — la Devadasis ci rivela lo spasimo della Maharajna agonizzante che è portata nella sua lettiga d’oro verso il Gange sacro e vede la morte avanzarsi e teme di non giungere in tempo alle acque purificatrici.
La Devadasis non danza, s’avanza e retrocede con un ritmo prestabilito, seguendo la musica e le strofe. Alcuni musici infatti — io non li avevo nè visti nè uditi, tanto mi aveva preso il gioco di lei — stanno seduti sulle stuoie e suonano stromenti singolari; enormi mandole dal lungo manico ricurvo, flauti affusolati, strani tamburi oblunghi che agitano febbrilmente scuotendone una pietra interna. Ma l’insieme di quell’orchestra formidabile è lieve come un ronzìo, come un aliare di libellule e di falene. Nessuno canta, ma tutti, musici e spettatori, sillabano a mezza voce i versi del poema sacro che la bajadera ripete per conto suo, come per rammentarsi o per intesa. Ma più nulla si sente, più nulla si vede che la maschera ovale, il sorriso triangolare, gli occhi già troppo lunghi, prolungati dal bistro fin sotto la benda dei capelli compatti, lucenti come se scolpiti in un ebano raro; una maschera che sembra staccarsi dalla persona, far parte a sè come un’evocazione spiritica; e spettrali veramente sembrano le mani, come quelle che apparivano volanti nelle leggende bibliche e scrivevano sui muri la condanna dei tiranni. Le mani di questa Devadasis, all’estremità delle braccia immobili, s’agitano con un movimento vertiginoso di rotazione e di distorsione che sembra sconvolgere ogni legge anatomica; hanno — mi fu detto — un officio importantissimo: significa disegnare lo scenario e le didascalie. La sdegnosa povertà dell’allestimento teatrale di Shakespeare; il cartellino con the forest, the king’s house; la foresta, la casa del re, è abolito, e le cose sono disegnate dall’arte digitale di due belle mani; disegnate nell’aria, ma restano impresse negli occhi di questi spettatori frementi che ne fanno sfondo invisibile all’artista; sulla misera cortina di stuoia appare la reggia favolosa, la riva del Gange, il paradiso di Indra. Il mio sguardo profano, ignaro di quell’arte, non può naturalmente godere dell’incantesimo, come non mi è dato di capire una sillaba del testo famoso, ma la sola mimica della donna basta a rivelarmi che in quell’istante, la regina agonizzante giunge sulla riva del fiume, scende nelle acque sacre. Il dolore, l’ansia, si trasmutano in una gioia che fa del volto contratto un mistero di delizia ineffabile. La morente rivive, invoca l’Eros dell’Olimpo bramano in una strofa erotica che certo non troverebbe veste decente in nessuna lingua europea, e la mimica si esprime con un’intensità che dà il brivido: brivido d’amore, brivido di morte. La donna arrovescia il capo, lo rialza; il suo volto è calmo, è uscita dalla ruota dell’esistenza, è giunta nel regno dell’impossibile: il non essere più; la grazia le è stata concessa nell’amplesso del Dio. Ancora una volta noto nell’arte indiana, letteratura, scultura, la predilezione d’avvicinare l’amore e la morte, facendo dei due simboli un simbolo solo: la felicità del non essere nati o essendo nati ritornare al non essere....
Il pubblico, un pubblico di forse mille spettatori, ha seguito ogni sillaba, ogni moto della Devadasis con un’attenzione sconosciuta nei nostri teatri europei. Ma non è attenzione soltanto: è passione, è religione, è trasporto di tutte queste anime verso il tesoro della loro poesia. Poesia! Io penso ad una qualche attrice nostra che comparisse dinanzi al nostro pubblico e avesse la crudeltà inaudita di infliggergli un canto d’Omero o di Virgilio; il nostro pubblico il quale — confessiamolo una buona volta — s’annoia mortalmente a sentir sillabare, sia pure da dicitori sommi, il non remotissimo Dante. Ora è meraviglioso il vedere come poemi di tre, di quattro mila anni or sono accendano di fervore tutta una folla, nessuno escluso: il mercante di spezie e il Marajà, il monello e la donnicciuola; tutti sono presi nello stesso cerchio magico, beneficati da un’illusione che non è letteratura, ma sentimento artistico, ereditario, che confina, si fonde con la fede più intensa. Arte e fede espresse dalla stessa armonia, una felicità che noi occidentali non conosceremo forse mai!
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Dopo l’ultima sillaba la Devadasis raggiunge con un balzo il tappeto, si siede con un sospiro di sollievo come una scolaretta in riposo. Le siamo intorno rispettosamente, per osservarla, ma sul suo volto è la completa assenza spirituale; è cessata la musica e la fiamma e si ha veramente l’impressione di accostarsi ad una lampada spenta, ad uno stromento che ha finito di vibrare.
Poichè il dottor Faraglia — l’unico che conosca l’industani — le rivolge un complimento sulla sua arte, la donna tarda a comprendere, poi sorride, si copre il volto con l’avambraccio alzato, come un’educanda, alla quale un temerario dica cose inaudite: un gesto spontaneo di sincero pudore, che sbigottisce in una sacerdotessa di tal fatta. Io, che non so l’industani, le accenno alla gota sinistra che mi sembra tumefatta. Essa porta l’indice e il pollice alle labbra, ne toglie un bolo vermiglio, che mi porge affabilmente.
— Betel!
Poichè rifiuto la droga pessima, essa riporta il bolo alla bocca, passandolo dall’una all’altra guancia, battendovi sopra le due mani, per gioco, con un malvezzo di bimba screanzata.
— Le dica che deploro di non aver capito una sillaba dei suoi poemi. Le domandi in quanti anni potrei sapere il sanscrito, il pali, il giaïna....
La donna ascolta il dottore, poi mi fissa, ridendo, alza le dieci dita ben tese. Dieci anni! Ohimè, no! Non vale la pena improba. E penso che superata pur anche una tale fatica, padrone degli idiomi difficili, resterei estraneo all’essenza prima dei testi sacri. Mi divide da essi una barriera più insuperabile del linguaggio: ed è lo spirito diverso, la fede opposta. L’occidentale, che ritorna in India, non riconosce più la sua cuna.
So bene, questi Indu sono ariani del nostro ceppo, fratelli nostri, ma fratelli che rifiutano di tenderci la mano. Siamo troppo diversi. Ci dividono troppi millennii. Da troppo tempo ci siamo detti addio.