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110 la danza d’una “devadasis„

orgoglio ben più fiero ed implacabile, dissimulato da tutta l’etichetta della più cordiale urbanità.

Il teatro, in fondo al grande giardino, è una semplice, vasta tettoia, sostenuta dai tronchi vivi dei palmizi simmetrici, come da snelle colonne vegetali. Da tronco a tronco la diramazione del gas acetilene — anche qui! — intreccia nell’aria i suoi serpentelli di stagno. Molte panche zeppe di torsi bronzei, di capigliature corvine, molte stuoie in terra ed intorno: una povertà primitiva che ricorda non un edificio destinato a una bajadera pagata mille rupie (1600 lire) per sera, ma una tettoia magazzino per legnami o cereali.

La danza è già cominciata quando prendiamo posto nelle prime panche che ci furono destinate; ho la fortuna d’aver dinanzi, a pochi passi, la danzatrice famosa. M’aspettavo di vederla ignuda o quasi, invece è la più vestita tra questa folla seminuda; ed è certo più vestita di una nostra signorina per bene in una serata di famiglia. Una snellezza alla Rubinstein, non so se illeggiadrita o ingolfata da un