Verso la cuna del mondo/V
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Da Ceylon a Madura.
A bordo del Bangalore, 3 gennaio 1913.
E anche l’isola abbagliante diventa un ricordo, cade nel passato. Tutti sono sul ponte a dirle addio. Turisti londinesi che fanno sino a Colombo la loro corsa di due mesi, mercanti olandesi e belgi di cannella e di perle, tamili che ritornano in India dopo il lavoro annuale nelle piantagioni cingalesi di thè e di caffè, tutti sono sul ponte, con occhi fissi alla terra verdeggiante e con un diverso rimpianto; la nave lascia il porto, già beccheggiando al primo corruccio del largo.
E l’isola si vela d’improvviso, quasi per troncare la malinconia degli addii. Dal Picco d’Adamo alle foreste del litorale tutto è avvolto in pochi secondi da una cortina di nubi tondeggianti, cupe e concrete come se scolpite nel marmo livido, mentre il cielo intorno e sul nostro capo resta azzurro e tranquillo; nella cornice fosca, simile all’ovale di nubi artificiose di certi Inferni e di certi Diluvii, guizzano, s’intrecciano lampi azzurri e violetti, e lo scenario interno s’accende di un riverbero sanguigno, profilando in nero i palmizi scapigliati; un’acquata torrenziale, ignota ai nostri climi, appare di lungi, riga il centro del quadro di striature oblique di cristallo; un rombo indescrivibile accompagna l’uragano equatoriale, simile all’orchestra di mille gonghi formidabili.
La nave s’allontana nel sereno, ma il mare è agitato. L’onda freme di continuo in questo Stretto di Manaar che, per fortuna, attraverseremo in una notte soltanto. E domattina, prima dell’alba, sbarcheremo a Tuticorin, la città più meridionale dell’Industan.
4 gennaio.
È l’alba, ma la terra non è in vista. Il mare è furente.
Immune, per mia fortuna, dal mal di mare, ma stordito dalla notte insonne, dolente per le cinghie di sicurezza, sono disteso nella mia cabina, e sento i lagni dei vicini, gli ordini recisi degli ufficiali e il rombo dell’elica, che a tratti turbina nel vuoto. Poi anche l’elica tace; la nave s’arresta; salgo sul ponte, barcollando. — Il Bangalore «ha stoppato» — mi spiega un ufficiale della British India, che s’ostina a parlarmi italiano, — perchè si attende il rimorchio. — Siamo nell’Arcipelago perlifero, tra banchi malfidi, non conosciuti che dai pescatori indigeni.
È il mare che dà le più belle perle del mondo; lo pensavo diverso, ricco di bagliori e di tinte vive, sotto un cielo di fiamma; sembra, invece, un mare nordico o meglio un oceano primordiale, quando l’acque ed i continenti non avevano ben divisi ancora i loro confini; l’orizzonte sembra di stagno fuso, agitato non dal vento, ma dalla corrente che pulsa e ripulsa nei bassifondi e qua e là spumeggia e ribolle come se sconvolta dalla mole colossale di un mostro sottomarino; il cielo afoso e torbido, dal quale il sole proietta i suoi raggi a fasci disuguali, accresce l’illusione malinconica di oceano antidiluviano. Veramente si aspetta di veder emergere il dorso immane, l’alto collo serpentino, la piccola testa vorace d’un Itiosauro. Biancheggiano all’orizzonte, circondate di spume più furiose, le isolette che collegano Ceylon alla parte meridionale dell’Industan: così vicine e regolari che, a bassa marea, servono per l’emigrazione degli elefanti sul continente. Formano per gli Indù il Ponte di Rama, quello che servì all’eroe vedico per irrompere dall’India all’isola dov’era la Principessa captiva; e formano per i cristiani l’Adam’s Bridge: il ponte d’Adamo, che fu passato dal primo uomo piangente, cacciato con la sua compagna dalle valli incantate dell’Eden....
La nave ancorata su queste acque ribollenti e ripulsanti, s’agita in un beccheggio impaziente.
E il rimorchiatore non giunge.
Tuticorin, 5 gennaio.
Siamo approdati a Tuticorin in una specie di chiatta a vapore sulla quale ci hanno sbalzati ad uno ad uno, come balle di mercanzia, cogliendo l’attimo in cui l’onda innalzava il vaporetto all’altezza del piroscafo.
Tuticorin è la città famosa delle perle. Ma da tre anni la pesca è proibita dall’Inghilterra. Si depredavano i banchi perliferi senza metodo e senza tregua. Le valve aperte e gettate in una speranza mille volte delusa, formano bassifondi alti quindici, venti metri, tracciano nuove spiagge, modificano, nei secoli, il profilo del litorale.
E nella città delle perle, naturalmente, non troviamo una perla. Quelle che ci mostrano i mercanti girovaghi, troppo grosse e perfette, troppo nivee nella palma color di bronzo, m’hanno tutta l’aria d’essere fabbricate da un impresario tedesco in una vetreria di Calcutta o di Bombay. Quelle in vendita dai gioiellieri accreditati, che si cedono con regolare contratto e garanzia consolare, hanno prezzi favolosi e non sono bellissime. La merce migliore è interdetta al viaggiatore, e incettata per i grandi mercati di Londra e di Amsterdam.
Degno di nota il sobborgo degli intagliatori, raffinatissimi, per abilità ereditaria di casta, nel lavorare l’ebano, l’avorio e la madreperla: scolpiscono, cesellano elefanti, amuleti, idoletti secondo il modello immutabile nei millennii; un cieco ha intagliato sulla zanna intera di un elefante tutta la leggenda di Rama; e gli episodi si svolgono a spirale, in gruppi non privi di vivezza e di grazia, con un’arte che ricorda i nostri primitivi.
Lasciamo Tuticorin per Madura. Ed eccoci ancora in queste ferrovie indiane che hanno un fascino esotico indefinibile; grandi carrozzoni quasi quadri, a doppio tetto spiovente, dove la raffinatezza inglese stride con l’esotismo dei panka che pendono come immensi ventagli, alternati ai ventilatori elettrici, con le iscrizioni delle targhe, delle réclames in inglese, tamilo, arabo, cingalese, con i fiori strani delle mense del dininge-car, gli strani servi in camice bianco, scalzi e silenziosi e pure imponenti come sultani. Si viaggia verso Madura, «il cuore di Brama», chè così gli indigeni chiamano tutta questa parte meridionale dell’Industan formata dai tre stati di Travancore, Madura, Tanjore, dove il bramanesimo è intatto, immune dall’islamismo che ha dilagato nel Nord e nel centro dell’India e dal buddismo che impera nell’isola di Ceylon. Riconosco la città di Madura subito, da lontano, per il profilo ben noto delle sue piramidi tronche, che s’innalzano sul verdeggiare dei palmizi. Le immaginavo d’oro le alte gopuram di Brama; sono invece d’un color rosso sangue; e l’oro non appare che quando si è più vicini, alternato all’azzurro e al verde, a sottolineare le figure delle quali le immense moli sono coperte. Quando scendiamo alla stazione è troppo tardi per raggiungere il Tempio. Il giorno tramonta; il cielo s’arrossa per un istante e le stelle si accendono tutte insieme sullo scenario che annera d’improvviso, come una ribalta spenta.
Madura, 6 gennaio.
E in questa terra di Brama siamo ospitati dalle Missioni Belga dei Charmelitains déchaussés, presentati da una lettera del vescovo di Bombay. Mancano alberghi a Madura; quello della stazione è inabitabile per il servizio quasi indiano, il rombo e il fischio dei treni, il clamore dei pellegrini.
Mi sveglio invece in questa camera linda, aperta sopra un giardino tranquillo. Non è più la selvaggia flora di Ceylon. Esco tra le aiuole ben pettinate, dove le rose bengali s’alternano con ortaggi europei, tanto che in questo mattino di gennaio ho l’illusione di passeggiare in un giardino canavesano, nelle nostre più belle giornate estive; ma una frotta di pappagalli verdi, una farfalla troppo ampia e troppo abbagliante, inconciliabile col nostro cielo, mi ricorda il tropico, mi dà l’incubo, quasi, dell’estate sempiterna. Giunge di lontano un suono discorde e assiduo di tam-tam, di gonghi, di pifferi, che sovrasta il suono delle campane cattoliche, un’orchestra selvaggia che mi parla di misteri paurosi e d’idolatria.
— L’idolatria! — dice il missionario che m’accompagna, una figura ancora giovane di fiammingo indurito a tutte le fatiche e a tutte le prove — l’idolatria è la piaga insanabile di questi popoli. La loro stessa letteratura sacra, che contiene capolavori di filosofia edificante, ottima preparazione a ricevere la luce del cristianesimo, è ignota a questa gente, ignota ai loro stessi sacerdoti specializzati, per eredità di casta, in pratiche esteriori ed assurde. L’Indu vuole l’idolo. E siamo costretti a rivelare i simboli cristiani nella forma più concreta: l’immagine. Tutto ciò che è Vangelo, disciplina morale, cosa astratta non ha presa su questi spiriti, avvezzi al loro Olimpo dravidico popolato da migliaia di dei. Sono anime docili, pronte alla fede, ma una fede eretica che li fa appaiare sui loro altari la Trinità di Brama alla Trinità di Cristo, Maia-Devi a Maria Vergine, Mara a Satanasso. E Satana non è per loro il Male, ma una potenza terribile, quasi rispettabile, certo da ossequiare più della divinità, da placare con doni e ghirlande. Accettano Cristo, gli stessi sacerdoti l’accettano, ma per collocarlo tra Ganesa e Parvati, come un avatar, un’incarnazione di più. È forse più facile illuminare un Niam-Niam che questi cervelli ottenebrati da un’idolatria tre volte millenaria....
Passiamo nella Chiesa. La Messa volge al termine e la folla è al completo; devoti che assistono genuflessi, quasi carponi, con un raccoglimento ignoto fra noi. Ma vedo che le navate sono divise in tre reparti in muratura: divisione di casta, senza la quale i devoti si rifiuterebbero d’intervenire; perchè nessuna dimostrazione evangelica potrà mai indurre un indiano ad accostare un indiano di rango diverso; e accettano il paradiso promesso, ma a patto di suddivisioni di casta ben definite.
E il missionario mi fa notare sul collo bronzeo delle devote genuflesse i più strani amuleti pagani: zanne di tigre, idoletti, lingam fallici alternati a scapolari, crocette, medagliette di santi.
M’avvio verso la città per un viale alberato di baniam colossali che formano come una galleria di tronchi e di radici aeree. E fra i tronchi, ad intervalli, sono tempietti, tabernacoli d’un arcaismo remotissimo, che contengono idoli minuscoli, orridi e grotteschi, simili a feti sculpiti in metallo od in pietra; e grosse inferriate li custodiscono come se fossero belve feroci. Alternati ai tempietti noto certi alti scranni in granito, perchè le donne che passano sotto anfore enormi, fasci pesanti, possano deporre il carico e riprenderlo senza aiuto. Passano uomini, tamili foschi, razza aborigena di bassa casta, bramini dalla pelle chiara, sdegnosi di vesti e d’orpelli, ma dignitosi nella loro nudità completa, con non altro ornamento che la cordicella sacra simbolo battesimale d’alta casta, e il monogramma di Visnu, il tridente disegnato sulla fronte, sul petto; lo stesso tridente di Visnu che vedo dipinto sulle pareti delle case, sul tronco degli alberi, sulla fronte spaziosa degli elefanti.
Madura è la città sacra del bramanesimo, mèta di pellegrinaggi senza fine, luogo d’adorazione continua, dove la vita e la realtà non servono che alla contemplazione e alla preghiera. La città contiene quasi più templi che case, più sacerdoti che cittadini. La grande pagoda a Siva e a Minakshi «la dea dagli occhi di pesce» è per sè sola una città e un labirinto. Come tutti i templi bramini, non consiste in un edificio soltanto, ma in varie costruzioni chiuse in cortili concentrici, in recinti sempre più vasti, ed ogni recinto è sormontato da due gopuram, le cuspidi che innalzano a ottanta metri nel cielo il simbolismo pazzesco delle loro sculture. Nei cortili sono le abitazioni per i bramini d’alta casta, le piscine per le abluzioni dei fedeli, statue, idoli colossali, mercati coperti, tutto quanto concorre alla vita materiale e morale d’un popolo in adorazione.
Giungo nel Tempio quasi senza accorgermene, lungo una larga via fiancheggiata di case a veranda che ricorderebbero le costruzioni di Roma provinciale se le colonne classiche non fossero sostituite dalla colonna indiana, quadra, dal capitello a testa elefantina, a mostri sogghignanti. La via giunge fin sotto la prima piramide, prosegue dentro il tempio, ampia e popolata, attraverso un arco ciclopico che s’apre nella piramide stessa; e la città profana continua nella città sacra. Passo dalla luce abbagliante nella penombra religiosa, m’addosso alla parete di granito, per orizzontarmi, e sento che il granito palpita e cede; è uno degli elefanti sacri, un colosso decrepito che sembra scolpito nella pietra stessa del tempio, la sua proboscide mi sfiora le mani, il volto in una carezza indulgente; un altro è sdraiato e profila l’immensa groppa tondeggiante, ingombrando il bel mezzo della via, deviando il traffico e il transito dei devoti; tre elefanti novelli, minuscoli ancora, passano al trotto, con tinnito di sonagli, una mucca zebu s’avanza incerta ammusando gli erbaggi, i frutti offerti dai fedeli; mucche ed elefanti di questo recinto sono animali sacri, addetti a cortei religiosi, idoli viventi del tempio di Madura, e non si gettano come vili nemmeno i loro escrementi. Incombe su tutto il tempio un senso d’idolatria che mi fa pensare al feticismo dell’Africa più nera e non alle divine speculazioni dei Veda. Passa il corteo di Parvati, un rito che si ripete due volte al giorno, portando in giro l’immagine della moglie di Siva, in visitazione a tutti i tabernacoli del sacro recinto; il feticcio, pupattola d’oro massiccio, dalla vita sottile, dai seni turgidi, dagli occhi tondi d’onice incastonato sotto l’alta mitra ingioiellata, appare, dispare attraverso le cortine della ricca portantina. Accompagna la scena un rombo di tam-tam, uno stridìo discorde di trombe e di pifferi, incutendo nell’anima del forestiero un senso di paurosa diffidenza, di ripugnanza, come un mistero tetro e grottesco. Ovunque nel tempio famoso è la profusione di tesori e l’incuria più laida.
M’avventuro fino al secondo, al terzo recinto, passo dall’ombra alla penombra, alla luce, rientro sotto l’immense vòlte sepolcrali costrutte a blocchi monolitici di quindici metri di lunghezza, alzati, ordinati a formare un soffitto titanico che ricorda l’Egitto faraonico. Sotto la gopuram centrale le colonne si moltiplicano, si perdono nell’ombra, come tronchi centenari in una foresta d’abeti. Fuori è ancora la chiara luce del tramonto, ma qui è la notte completa costellata da un’infinità di lampade votive che disegnano, senza illuminarle, le colonne, le cancellate sacre, gli idoli colossali. L’occhio si abitua a discernere a poco a poco la folla di carne, di pietra, di metallo. Veramente non pensavo di trovare così intatta l’India favolosa, le forme imparate a conoscere fin dall’infanzia sulle incisioni e sui libri. Sono deluso invece nella mia attesa filosofica, nel mio amore per la più grande religione che abbia espressa l’umanità nel suo sgomento di dover nascere, di dover morire.
È questa la terra di Brama? Di Brama «l’ineffabile, colui che non dobbiamo nominare, se vogliamo che sia presente?» Ma qui il nome divino è feticismo immondo, praticato da un popolo forsennato che ha ridotto le speculazioni astratte ad un simbolismo pazzesco; un popolo che adora questi simboli e li ignora, un popolo che si genuflette, grida, invoca e non sa chi, non sa che cosa.
M’avanzo nella penombra, sempre fra le colonne infinite, sotto le vòlte piatte e sono guidato da due indigeni che sollevano le fiaccole resinose; e le pareti s’illuminano un poco, e appaiono strane divinità, sempre chiuse in gabbie dalle sbarre robuste, come belve da custodire; e Ganesa, il Dio della saggezza che appare più frequente, con tutti i suoi congiunti a testa elefantina; o una divinità innominata dal corpo di mucca e dalla testa femminile: e il corpo bovino e gibboso, è imitato fedelmente sul modello degli zebu indigeni, e il volto femminile è scolpito sul tipo indiano, con gioielli alla fronte, agli orecchi, al naso, e un sorriso insostenibile di baiadera convulsa. Le fiaccole sollevate in alto turbano il sonno dei grandi pipistrelli-vampiro ed è uno squittire di sorci impauriti, un turbinare di ale silenziose che ci ventano in volto come grandi lembi di seta nera.
Si esce all’aperto, nel cortile centrale. E alla luce del tramonto appare la grande piscina del tempio, un rettangolo di cento metri di lunghezza, chiuso ai quattro lati da scalee di marmo, circondato da colonne leggiadre, evocanti la grazia d’un peristilio pompeiano. Dopo l’ombra tetra e le fiaccole gialle e gli idoli spaventosi, l’anima si ristora in riva a quest’acqua cristallina, liscia come uno specchio, dove il cielo riflette con un nitore preciso le nubi sanguigne, alternate all’azzurro cupo, e le prime stelle della notte che giunge. Intorno, vicine e lontane, s’alzano le gopuram, le cuspidi che dominano Madura, da tutte le parti. E prima del tramonto voglio salire sui fianchi della gopuram d’ingresso, vedere vicine, palpare le sculture famose. Non c’è spazio che non sia stato scolpito a fregi, a divinità, a mostri; e con altorilievo così audace che le figure sembrano gesticolare, staccarsi, precipitare verso il profano per farlo a pezzi con le loro venti braccia armate di scimitarra, con le loro coorti di tigri, di serpenti che salgono alla sommità dove la cuspide tronca sfida il cielo con venti lancie disuguali. È tutta una teogonia simbolica, una personificazione delle forze della Natura che lo spirito induista ha diviso, suddiviso con un’analisi tragica e grottesca che suscita lo spavento ed il sorriso. Dal fianco di questa gopuram si domina la città e la campagna, dove altre pagode s’innalzano sull’ondeggiare verde vivo dei cocchi: e molte pagode sono chiese cristiane: chiese costrutte nello stile Indu, e che sono più antiche delle nostre più antiche cattedrali. Poichè il cristianesimo fu predicato in questa parte dell’India da San Tommaso, e le Missioni seguirono le Missioni, indisturbate nei secoli, bene accolte dagli stessi sacerdoti, in questa terra indulgente per tutti i culti, purchè si adori, purchè si creda....
Qui dunque, si pronunciava il nome di Cristo quando l’Europa era ancora pagana! È un pensiero che dà quasi uno sgomento d’esotismo estremo, di lontananza misteriosa nello spazio e nei secoli. È un pensiero che sembra inconciliabile con questa piramide popolata di eroi e di mostri che dànno la scalata al cielo di fiamma. E nel cielo che s’arrossa turbinano falangi di corvi e di pappagalli che ritornano ai loro nidi sospesi tra le sculture di quest’Olimpo furibondo. Allo stridìo dei pennuti, che giunge all’alto, s’accorda lo stridìo dell’orchestra che giunge dal basso del Tempio, da tutti i templi vicini e lontani: tam-tam rombanti, pifferi striduli che parlano di furore selvaggio e d’idolatria....