Verso la cuna del mondo/VII
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Le caste infrangibili.
Madras, gennaio.
«Prima l’Egitto, poi l’Arabia, poi l’India tutta: l’islamismo insorto sarà la miccia più sicura attraverso la potenza britanna». Nelle sfere politiche inglesi si pensa seriamente all’Egitto, ma si deve sorridere non poco sul possibile pericolo indiano. I maomettani dell’India ignorano la Turchia; il loro stesso islamismo è travisato dai secoli e dall’ambiente; la loro patria lontana è l’Inghilterra: Londra — e non Costantinopoli — è la capitale dei loro sogni e delle loro ambizioni.
Percorrete tutta l’India vasta, dalle nevi di Simla alle foreste di Colombo, interrogate un nativo qualunque: maomettano, bramino, parsi, buddista, di qualunque casta e di qualunque cultura: il facchino che vi porta i bagagli, l’albergatore che vi ospita, il filosofo incontrato nei musei, interrogatelo d’improvviso: «E voi, di che paese siete?». L’altro vi guarderà meravigliato e vi risponderà subito: «I am English!», con la stessa vivacità un po’ risentita con la quale io e voi risponderemmo: «Sono italiano». L’indiano non dubita d’essere un inglese. L’anglomania è una delle sue debolezze ben note. Non per nulla la figura più buffa del teatro parsi è Katiba, una specie di bellimbusto, che si spaccia per baronetto londinese, mentre ha avuto i natali a Oodeypore, da un lenone maomettano. Per anglomania lo studente dell’Università di Bombay, di Calcutta si dà a sports nordici, intollerabili sotto il tropico, frena il suo gesto vivace, riduce la loquacità istintiva del suo dire alla più corretta freddezza; e se v’invita a prendere il thè, nella sua gaia stanza universitaria cercherete invano alle pareti i testi indiani: Avagoka e Kabir sono sostituiti da Kipling e da Shelley; e nel congedarvi, stringendovi la mano colla sua mano color di bronzo, non mancherà di raccomandarvi la poca confidenza coi nativi.... Per anglomania le figlie e le mogli del Maharaja s’imbiondiscono i capelli e s’imbiancano il volto, implorando dal marito o dal genitore — premio supremo — una season a Londra; una season a Londra con tutte le delizie della vanità esasperata: i ricevimenti a Corte, l’amicizia con mogli di lords e di baroni, i trafiletti mondani, le istantanee compiacenti a lato del Re e della Regina; istantanee e trafiletti da rimbalzare su tutti i giornali di Bombay, Madras, Calcutta. Per anglomania — e il probabile titolo di baronetto — i banchieri maomettani e parsi si quotano per uno, due milioni di rupie sulla lista d’un erigendo ospedale inglese. L’India è inglese, vuole essere inglese. È radicata nel cervello d’ogni indiano, intellettuale o analfabeta che sia, l’idea d’una patria lontana è necessaria, lassù, in Europa, nella curva nebbiosa della terra, una patria che è il cervello e il cuore del mondo.
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S’aggiunge alla fedeltà, ribadita ormai da un atavismo due volte secolare, un altro elemento importantissimo che forma la debolezza organica dell’India: le caste nelle quali l’India è divisa e che fanno di essa un colosso dove ogni vertebra è infranta. Che, altrimenti, non si potrebbe concepire la mansuetudine dell’impero sconfinato — più d’un quarto dell’Asia tutta — e che l’Inghilterra tinge del suo colore sulla carta immensa delle sue colonie. Ma se l’India dovesse colorirsi secondo le caste presenterebbe il più minuto mosaico. Dall’ultimo censimento inglese risultarono più di quindicimila caste nel solo Rayputana, la regione settentrionale dove l’influenza inglese ha maggiormente cancellato le consuetudini locali. Negli Stati bengali, nell’Industan, dove tutto è intatto come nei secoli andati, le caste sono infinite, divise e suddivise, ostili fra loro, conservate con rigidità millenaria. Due cose sono care all’indiano: l’Inghilterra e la sua casta. «L’India declina?....» — «Poco importa l’India, purchè sia salva la fede». — «Declina la fede....» — «Purchè sia salva la casta....». È il dialogo approssimativo con ogni bramino ben pensante.
Per casta — è risaputo — s’intende la sanzione legale e religiosa delle disuguaglianze sociali, elevata a dogma attraverso i secoli. L’origine delle caste — per quanto i bramini le pretendano istituite dagli Dei in persona — va cercata nella diversità di razza e di mestiere; quando i popoli ariani si rovesciarono dai passi dell’Imalaja nelle pianure dell’India, lottarono con gli aborigeni che — vinti — ebbero il titolo di Dasyon (impuri), mentre l’appellativo di puri: Sudra, fu privilegio dei vincitori. Poi tra i vincitori stessi si delinearono le prime caste rivali ed avverse: la casta sacerdotale coi Bramini, la guerriera con i Kehatryas; poi la casta dei mercanti con i Vaisyo, suddivisi in infinite corporazioni ostili: Marvary-Bandiary-Baniak, ecc...., la casta degli agricoltori, dei pescatori, ecc.... Le caste, sotto questo aspetto, avrebbero dunque qualche analogia con le nostre guilde antiche, le nostre corporazioni d’arti e mestieri. Ma il medio evo nostro, anche ai tempi più feroci, non offre un parallelo adeguato con la barbarie insensata delle caste indiane.
L’europeo sbarcato da poco sbigottisce ad ogni istante. Nelle belle vie delle grandi capitali, sotto il riverbero delle lunule elettriche, la folla indiana s’avanza con uno sguardo ed un passo che non è soltanto preoccupato dai tram e dalle automobili. Che ha mai questa gente? Obbedisce a un ordine coreografico o teme il contagio di qualche epidemia? È semplicemente preoccupata di mantenere le distanze prescritte dal diagramma delle caste indiane. Quattro passi tra un bramino e un soldato, due tra un soldato e un contadino, tre tra un contadino e un paria, ecc.... Prima della dominazione inglese il paria non poteva comparire nel campo visivo d’un bramino o costui aveva facoltà di ucciderlo o di farlo schiavo. Perchè l’ombra del paria lascia una macchia sul passante, il quale non se ne può lavare che con un rito specialissimo. Il paria è il rifiuto dei rifiuti, non può piangere i suoi morti, non leggere i testi sacri, non pronunciare il nome di Brama; l’antiche leggi indiane non fanno cenno di punizione per chi ne libera la terra. All’altro estremo sta il Bramino, «il quale, per nascita, ha diritto a tutto ciò che esiste e lascia vivere gli uomini per pura generosità». Tra questi due estremi le caste si dividono e suddividono all’infinito. Il viaggiatore europeo vede il suo fedelissimo boy fermarsi sulla soglia d’un rivenditore di libri antichi, quasi impedito da una parete invisibile: «Il bookseller è di casta nakari: io sono kardy, non posso entrare.... Dovrei pagare dieci rupie al priest per rientrare nella mia casta...». E siete costretto ad attraversare, solo, il cortile e la piazza con dieci chili di libri e il vostro servo costernato non può venirvi in aiuto prima del limite prefisso. Ogni servo, poi, è specializzato in una sola occupazione casalinga: quella permessa dalla sua casta: le altre incombenze sono immonde; di qui la necessità di una servitù dieci volte numerosa e di salari — mal per loro — dieci volte ridotti. La vita d’un indiano è preoccupata, per quattro quinti, dalla paura di «macchiarsi», di «uscire di casta». E questo fanatismo è inestirpabile, sopravvive anche alla conversione religiosa. Mi raccontava un missionario anglicano di ottimi fedeli che si rifiutano di mangiare o di bere con il prete che li ha convertiti. Più buffo è il caso dei nobili soldati Nair che alle prese con prigionieri di casta inferiore li circondano con i fucili spianati, ma non possono agguantarli, per paura di macchiarsi le mani. Più buffo ancora è lo zelo degli onesti discendenti delle antiche corporazioni di malfattori, i quali fanno petizioni al Governo inglese per riavere il nome di casta che li distingueva nei tempi gloriosi e sono gelosissimi di appellativi come questi: «Cacciatore di naufraghi». — «Jena del Dekkan». — «Sciacallo del viaggiatore», ecc...., e gli uni guardano gli altri con infinito disprezzo, secondo che sono discendenti di ladri di terra o di mare, di assassini di pianura o di monte. Il fanatismo grottesco, incredibile, non s’attenua, anzi si fa più intenso nelle classi elevate ed abbienti dove il bisogno e la fame non impongono transazioni di sorta. Così v’incontrate ad una serata del Governatore, con un giovanotto affabilissimo, architetto laureato all’Università di Bombay. Egli vi parla dell’architettura indiana con una grazia che v’incanta. Per gusto di reazione gli chiedete che cosa pensi del Partenone, dell’Abbazia di Westminster. Non risponde. Parlate ancora; gli dite che sareste ben lieto, se il destino lo portasse in Europa, di fargli da cicerone a Roma, a Firenze.... Ma vi mozza la parola il suo voltafaccia improvviso, tra quel silenzio speciale che distingue una gaffe. «.... Ma non sapete che l’Ingegnere è cugino in sesto grado col Maharayalo del Travancore, Razza Lunare, capite, discendente da Rama; razza che non ha lasciato l’India mai, che non può lasciarla sotto pena di uscire di casta. Parlare dell’Europa all’Ingegnere è come mettere in dubbio i suoi titoli di nobiltà. Una sconvenienza imperdonabile!» Ohimè! Perdonabilissima. Chi poteva immaginare un pronipote di Rama in quel signore in marsina e monocolo? Chi poteva fiutare il sangue lunare in quelle sembianze semplicemente lunatiche?...
Episodi che si prestano alla celia. Ma non sorridete più se pensate che la tradizione di casta chiude milioni e milioni d’uomini, li asserva nella cerchia illusoria e pure infrangibile come un malefizio. Si tratta, in realtà, di un tragico millenario fenomeno di suggestione. Oggi, dopo tanti evi, la casta non si discute; si nasce dominati o dominatori come si nasce maschi o femmine, biondi o bruni. La casta è fatale come il destino.
Contro questa follia a nulla vale l’avveduta forza colonizzatrice degl’inglesi, l’illuminata parola degl’intellettuali indiani, a nulla valse la riforma di Gotamo. Il buddismo — reazione necessaria a tanta barbarie — passò sull’India senza lasciar traccia, ed è confinato ora a Ceylon e nella Cina. L’India è ligia alle caste oggi più che mai; e la casta s’estende a tutti: maomettani, parsi, cristiani: anche cristiani, poichè per mimetismo d’opportunità bisogna conformarsi all’ambiente, e le chiese cristiane sono divise in riparti numerosi e ben distinti, senza di che i fedeli non interverrebbero alla Messa....
Non solo, ma ogni nuovo mestiere introdotto dall’europeo crea una casta che oscilla in potenza secondo la floridezza dell’industria (the, cannella, pelli, indaco, ecc.): si direbbe che l’umanità, in India, non possa aggrupparsi che così, per misteriose tendenze etniche dell’ambiente, come certe sostanze non possono aggrupparsi che in cristalli.... Gl’indiani non formano un popolo e l’India non pensa e non può ribellarsi. È risaputa la risposta dei bramini a gl’intellettuali innovatori: «Poco importa essere oppressi. Pur che la casta avversa lo sia più di noi!».
Nemmeno è necessario il categorico: Divide et impera!