Vagabondaggio/...E chi vive si dà pace
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....E CHI VIVE SI DÀ PACE.
Come la batteria partiva a mezzanotte, Lajn Primo aveva invitato la sua ragazza a desinare — una gentilezza per mostrarle il dispiacere che provava nel lasciarla. — Sapevano giusto un’osteria di campagna, appena fuori la porta, bel sito e vino buono, quattro ciuffetti di verde al sole, l’altalena e il giuoco delle bocce, i tavolinetti sotto il pergolato, da starci bene in due soli, senza soggezione; e subito dopo la campagna larga e quieta, grandi fabbriche in costruzione, tutte irte di antenne, un folto d’alberi a diritta, e in fondo la linea dei monti, che digradavano. Anna Maria s’era messa il vestitino nuovo, colla giacchetta attillata, le scarpette di pelle lucida e le calze rosse. Sentiva una gran contentezza, stando insieme al suo bel militare, coi gomiti sulla tovaglia, i mezzi litri che andavano e venivano, Lajn Primo di faccia a lei, col naso nel piatto, dandole delle ginocchiate di tanto in tanto. Però al vedergli il chepì coll’incerato, e la striscia gialla della giberna che gli fasciava il petto, si sentiva gonfiare il cuore nel seno, grosso grosso, da mozzarle il fiato. — Mi scriverai? Di’? mi scriverai? — Egli accennava di sì, a bocca piena, guardandola negli occhi lucenti che l’accarezzavano tutto, il panno grosso dell’uniforme e la faccia lentigginosa di biondo. C’erano nel piatto dei mandarini colle foglioline verdi. Essa ne strappò una, e volle mettergliela alla bottoniera.
Lì accanto si udiva l’urtarsi delle bocce fra di loro. Alcune ragazze schiamazzavano attorno l’altalena, colle gonnelle in aria. Passavano dei carri per la strada, cigolando; delle nuvole grigie d’estate che lasciavano piovere una gran tristezza.
Lajn Primo chiacchierava sempre lui, col sigaro in bocca, la testa già lontana, nei paesi dove andava la batteria, cercando di tanto in tanto la mano di Anna Maria attraverso la tavola, quando in bocca gli venivano le parole buone. Poi, siccome aveva il vino allegro, si mise a canticchiare:
Morettina di la stacioni, |
E tutt’a un tratto la ragazza scoppiò a piangere, col viso nel tovagliuolo.
— Via! via! I morti soli non si rivedono!... — Stavolta però gli tremavano i baffi rossi anche a lui, e le mani, nell’affibbiarsi il cinturone. Vollero fare quattro passi sino al fiume, come le altre volte. C’era un sentieruolo fangoso a sinistra, fra i campi, sotto dei grandi olmi. Anna Maria si lasciava condurre a braccetto, colle sottane in mano, gli occhi socchiusi che non vedevano, un gran sbalordimento dentro, una dolcezza infinita e malinconica, al tintinnío di quella sciabola e di quegli sproni e al contatto di quell’uniforme contro cui tutta la sua persona le sembrava che volesse fondersi. Egli le aveva passato il braccio attorno alla vita, mormorandole ne’ capelli tante paroline affettuose che essa udiva confusamente, l’orecchio però sempre teso verso la tromba della caserma, da buon soldato.
A un certo punto Anna Maria gli sfuggì di mano, e corse a inginocchiarsi sul ciglione del fossatello, senza badare al vestito nuovo, per cogliere delle foglioline verdi che spuntavano dal muricciuolo.
— Per te! Le ho colte per te! —
Egli non sapeva più dove metterle; le diceva scherzando che lo caricava d’erba come un asino, così, per farla ridere. La ragazza però non rispondeva; stava segnando delle grandi lettere storte sulla corteccia di un olmo, con un sasso, due cuori uniti e una croce sopra. Lajn non voleva, per via del malaugurio; però l’aveva presa fra le braccia, intenerito anche lui, tanto non passava nessuno nella stradicciuola fangosa di là dall’argine. Essa diceva di no, diceva di no, col cuore gonfio. Guardava piuttosto un gran muraglione nerastro ch’era dirimpetto, quasi volesse stamparselo negli occhi. Gli diceva: — Guarda anche tu! anche tu! — Aveva il viso triste, poveretta! Calava la sera desolata, con una squilla mesta e lontana dell’avemaria che picchiava sul cuore. Quanto piangere fece Anna Maria cheta cheta nel fazzolettino ricamato!
Prima di lasciarla, sull’angolo della via, egli le aveva detto: — Verrò a salutarti un’altra volta, prima di partire; fatti portare sulla porta. — E si tenevano per mano, non si risolvevano a staccarsi l’uno dall’altro. Lajn Primo tornò infatti a salutarla un’altra volta, prima di partire, come passasse per caso, nell’andare in quartiere. Anna Maria teneva per mano la figlioletta del portinaio — un pretesto per star lì sulla porta — e gli fece segno che c’era gente dietro l’uscio. Allora scambiarono ancora quattro parole per dirsi addio, senza guardarsi, parlando del più e del meno: lui che gli tremavano i baffi rossi un’altra volta. — Passerete di qua, per andare alla stazione? — Sì, sì, di qua! — Ogni momento della gente che andava e veniva; Ghita nel cortile ad accendere il gas. Lajn Primo accese anche un sigaro, e se ne andò colle spalle grosse. Anna Maria lo guardava allontanarsi.
La gente si affollava per la via, a veder passare i soldati che partivano pel campo: tutti gli inquilini della casa, sotto il lampione della porta; Ghita che teneva abbracciata Anna Maria; suo padre, il portinaio, e i padroni anche loro, alle finestre, coi lumi. Così la povera ragazza vide passare la batteria dov’era il suo artigliere, in mezzo alla calca e ai battimani; i cavalli neri che sfilavano a due a due, scotendo la testa, dei cassoni enormi che facevano tremare le case; e sopra, sui cappelli e i fazzoletti che sventolavano, i chepì degli artiglieri coll’incerato, dondolando. Non vide altro; tutti quei chepì si somigliavano. Il suo Lajn però la scorse, alle folte trecce nere, in mezzo alle comari, la mamma di Ghita che stava contandole delle frottole; la vide che lo cercava, povera figliuola, con gli occhi smarriti e il viso pallido, senza poterlo scorgere, seduto basso com’era sul sediolo accanto al pezzo, il guanto sulla coscia, al suono triste della marcia d’ordinanza, che si allontanava.
Passarono città, passarono villaggi; dovunque, sulle porte, uomini e donne che s’affacciavano a veder passare i soldati. Alle volte, nella folla, un musetto pallido che somigliava ad Anna Maria — «Morettina di la stacioni....» — Alle volte, lungo lo stradone polveroso, un’osteria di campagna coll’altalena e il pergolato verde, come quella dov’erano stati a desinare insieme. Alle volte un fossatello con due filari d’olmi, o un muraglione nerastro che rompeva il verde. Oppure una cascina coi panni stesi al sole, una vecchierella che filava, un sentieruolo come quello per cui era disceso dai suoi monti, col fagottino sulle spalle larghe e robuste che lo avevano fatto prendere artigliere. Poscia la via bianca e polverosa, rotta, sfondata dal passaggio della truppa, formicolante di uniformi; e di tanto in tanto uno squillo di tromba, che sonava alto nel brusío.
Di qua del fiume una gran folla: soldati di tutte le armi, un luccichío, tende di cantiniere che sventolavano, e cavalli che nitrivano; delle canzoni dolci e malinconiche, in tutti i dialetti, come un’eco lontana del paese, in mezzo alle risate e al rullo dei tamburi: — «Morettina di la stacioni, mi rincresse di lasciarti!...» — Sull’altra sponda la campagna calma e silenziosa, coi casolari tranquilli affacciati nel verde delle colline, e sulla linea scura che traversava il fiume luccicante qua e là, l’ ondeggiare delle banderuole turchine, una lunga fila di lancieri polverosi che sfilavano sul ponte.
Le quattro trombe della batteria tutte insieme sonarono — Avanti. — Poscia, di là del ponte — A trotto! — in mezzo a un nugolo di polvere, alberi e casolari che fuggivano, pennacchi di bersaglieri ondeggianti fra i seminati. Di tanto in tanto, in mezzo al frastuono, si udiva un rombo sordo, dietro le colline. E fra gli scossoni dell’affusto la canzone della partenza che ribatteva: — «Ecco il trenno che già parti....» — A galoppo, Marche! — Addio, Morettina! Addio! —
Su, su, per l’erta, sfondando i solchi, sradicando i tralci, saltando i fossati, i cavalli fumanti e colle schiene ad arco, gli uomini a piedi, spingendo le ruote, frustando a tutto andare. Poi, sulla cima del colle, due carabinieri di scorta immobili, a cavallo, dietro un gruppo di ufficiali che accennavano lontano, alle vette coronate di fumo, e dei soldati sparsi per la china, fra i solchi, come punti neri. Qua e là, dei lampi che partivano dalla terra bruna; e il rombo continuo, nelle colline dirimpetto: delle nuvolette dense che spuntavano in fila sulla cresta.
Detto fatto, i pezzi in batteria, e musica anche da questa parte. Allora, dopo cinque minuti, attorno alla batteria cominciò a tirare un vento del diavolo; la terra che volava in aria, gli alberi dimezzati, solchi che si aprivano all’improvviso, dei sibili acuti che passavano sui chepì. Però attenti al comando, e nient’altro per il capo; nè capelli bianchi, nè capelli neri. — Abbracci’ avanti! — Alt! — Caricat! Prima il povero Renacchi che stava per compir la ferma. — Mamma mia! Mamma mia — Numero due, manca! — Attenti! — Si udiva il comando secco e risoluto del biondo ufficialetto che stava impettito fra i due pezzi, ammiccando nel fumo, cogli occhi azzurri di ragazza, i quali vedevano forse ancora il piccolo coupé nero che aspettava in piazza d’armi, e la mano bianca allo sportello. — Abbracci’ avanti! — Alt! — Caricat! — Tutt’a un tratto giù in un gomitolo anche lui, fra un nugolo di polvere, gemendo sottovoce e mordendo il cuoio del sottogola. Solo il comandante rimaneva in piedi, ritto sul ciglione, in mezzo al vento furioso che spazzava via tutto, guardando col cannocchiale, come un gran diavolo nero.
Lajn Primo in quel momento stava chino sul pezzo, a puntare, strizzando l’occhio turchino, come soleva fare per dire ad Anna Maria quanto gli piacesse il suo musetto, e facendo segno colla destra al numero tre di spostare a sinistra la manovella di mira, quando venne la sua volta anche per lui. — Ah! Mamma mia! — Colle mani tentò di aggrapparsi ancora all’affusto, delle mani che vi stampavano il sangue — cinque dita rosse. — Numero quattro, manca! — Attenti!
Il telegrafo portava le notizie, una dopo l’altra: tanti morti; tanti feriti. — Ciascun bollettino cinque centesimi. — Anna Maria ne aveva raccolto un fascio, lì sul cassettone. E poi, due volte al giorno, all’andare e venire dalla fabbrica, passava dalla posta. — Nulla, nulla. — Che gruppo allora nella gola! che peso sul cuore e dinanzi agli occhi! La sera soprattutto, quando sonava la ritirata! La notte che se lo sognava, e lo vedeva sotto il pergolato, canticchiando — «Mi rincresse di lasciarti,» — e le stringeva la mano sulla tovaglia! Avesse avuta la mamma almeno, per sfogarsi! Il babbo, poveretto, cosa poteva farci? notte e giorno sulla macchina, a correre pel mondo. La sua amica Ghita, che non aveva fastidi, lei, e non se la prendeva di nulla, faceva spallucce, ripetendole:
— Gli uomini, mia cara, son tutti così. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! — Quanto piangere fece in quel fazzolettino!
Tornavano i soldati, lunghe file di cavalli, battaglioni interi. Dinanzi al castello, in piazza d’armi, erano pure tornati i carretti colle arance, e quelli del sorbetto a due soldi, e le bambinaie coi ragazzi, e le coppie che si allontanavano sotto gli alberi. Artiglieri che andavano e venivano, coll’incerato sul chepì, tale e quale come Lajn Primo. — N. 7, N. 9. — Solo mancava il numero del suo Lajn. Nella fabbrica aveva sentito dire che molta truppa era stata mandata in Sicilia — laggiù, lontano. — Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! — Neppure un rigo, in tre mesi! Quante gite alla posta! quante volte ad aspettare il portalettere dal portinaio! Tanto che Cesare, il servitore dirimpetto, il quale veniva a pigliare le lettere della contessa, le diceva anche lui, ridendo:
— Nulla, eh? Ha male alla penna il suo artigliere? —
Una vera persecuzione quell’antipatico, colla faccia di donna, e i capelli lucenti di pomata! Aveva un bello sbattergli la finestra sul muso! Tutto il giorno lì, di faccia, in anticamera, a farle dei segni colle manacce sempre infilate nei guanti bianchi, scappando solo un momento appena sonavano il campanello, e tornando subito a montare la sentinella. Sempre, sempre, quasi si cocesse anch’esso a poco a poco, al vedersela ogni giorno lì di faccia. Sicchè una volta la fermò per le scale, e le disse: — Cosa le ho fatto, infine? Almeno me lo dica! — E come si vedeva che le parole gli venivan dal cuore, essa non ebbe animo di mandarlo a quel paese.
Pensava sempre a quell’altro, però, lavorando alla finestra. Chissà, chissà dov’era? di là da quelle case, dove andavano quelle nuvole scure? Che tristezza quando giungeva la sera! La campana di Sant’Angelo, lì vicino, che le picchiava sulla testa, e in cuore la tromba della ritirata, che piangeva. Il servitore accendeva i lumi, dirimpetto, e poi rimaneva ancora lì, nell’ombra delle cortine, si scorgeva dai bottoni che luccicavano. Quanto piangere in quel fazzolettino ricamato! Tanto che il cuore era stanco e s’era vuotato intieramente.
Il giorno di san Luca, ch’era anche la festa del portinaio, andarono tutti al Monte Tabor. Ghita era venuta a prenderla per forza, e anche Cesare, il quale s’era fatto dare il permesso quel giorno dalla padrona, e le aveva detto, stringendole le mani: — Venga, venga con noi! Così, a star sempre chiusa, piglierà qualche malanno! — Una gran tavolata all’aria aperta, l’altalena e il giuoco delle bocce. — Cesare, che pensava sempre ad una cosa, le rispose: — M’importa assai delle bocce adesso! Mi lasci stare vicino a lei piuttosto, chè non la mangio mica! — La sera poi, al ritorno, le diede il braccio; tutta la brigata a piedi pel bastione, sotto i platani che lasciavano cadere le foglie. Una bella sera tutta stellata. Delle ombre a due a due che si parlavano all’orecchio, sui sedili, voltando le spalle alla strada.
Anna Maria chiacchierava di questo e di quello, per non lasciar cadere il discorso. L’altro zitto, a capo chino. — Buona sera, buona sera. — Aspetti, aspetti. L’accompagno sino all’uscio, di sopra. Non voglio che salga le scale così al buio e tutta sola. Ora accendo un cerino. — No, no, ci son le stelle. — Delle stelle lucenti che scintillavano sui tetti, attraverso i finestroni ad arco, ogni ramo di scala — sei rami. Anna Maria, digià stanca, s’era appoggiata al muro, proprio accanto al finestrone, col fiato ai denti. — Ah! le mie povere gambe! — Egli sempre zitto, guardandola nella poca luce che lasciava vedere soltanto il musetto pallido e gli occhi lucenti. — Che fatica! Una giornata intera! Dev’essere molto tardi. Guardi quante stelle! — Batteva un po’ la campagna anche lei, poveretta, per sfuggire a quel silenzio. Ma lui non rispondeva ancora. — Bella sera! Non è vero? — Allora egli le prese la mano e balbettò con voce mutata: — Se crede che abbia capito quel che m’ha detto, sa!... — E anche lei fu vinta da una gran dolcezza, da un grande abbandono. Gli lasciò la mano nella mano e chinò il capo sul petto.
Quest’altro aveva le mani bianche e pulite di uno che non fa nulla, i capelli lisci, la pelle fine, certe garbatezze d’anticamera che la accarezzavano. Lo vedeva ogni giorno, l’aspettava alla porta, si lasciava condurre la domenica a desinare in campagna, alla stessa tavola, sotto il pergolato, colle ragazze che schiamazzavano sull’altalena, e gli avventori che giocavano alle bocce. Avevano passeggiato insieme per quella stradicciuola fangosa, sotto i pioppi, stringendosi l’uno all’altro, nella sera che li celava. Poi egli voleva sapere questo e quello; voleva frugare come un furetto nel presente e nel passato. La faceva ritornare, passo passo, verso quelle memorie che le rifiorivano in cuore come una carezza e una puntura. Era geloso della stradicciuola dove era stata a passeggiare con quell’altro, geloso della campagna che avevano vista insieme, della tavola alla quale s’erano seduti e del vino che avevano bevuto nello stesso bicchiere. Diventava a poco a poco ingiusto e cattivo. Un vero ragazzo, ecco. Un ragazzo bizzoso da mangiarserlo coi baci. Che dolcezza per Anna Maria allora! Che dolcezza triste ed amara! Tutte le lacrime che egli le faceva versare le restavano in cuore, e glielo rendevano più caro.
Le bruciava le labbra; ma infine.... infine glielo disse: — Non ci penso più, ti giuro! Non ci penso più a quell’altro!... — Cesare non voleva crederle! Anzi, a ogni cosa che ella facesse per provarglielo, ogni bacio, ogni carezza, ogni parola, era come se quell’altro si mettesse fra loro due. Allora Anna Maria un sabato sera gli fece segno dalla finestra, con tutte e due le braccia, col viso illuminato. — Domani! Domani! — E all’ora solita si vestì in fretta, colle mani tremanti, tutta radiosa, le calze rosse, le scarpe lucide, la giacchetta attillata, tale quale come quel giorno ch’era andata l’ultima volta coll’artigliere, e volle condurlo proprio là, nel sentieruolo sotto i pioppi. — Perchè? cosa vuoi fare? — domandava Cesare. — Vedrai! Vedrai! —
Erano cresciute delle altre fronde all’olmo, nel maggio che fioriva, del verde che celava i due cuori color di ruggine, legati insieme dalla croce. Essa però li rinvenne subito, e con un sasso, gli occhi lucenti, il seno che le scoppiava, le mani febbrili, si mise a raschiare da per tutto, sulla corteccia dell’olmo, le iniziali, i due cuori, la croce, tutto. Poi gli buttò le braccia al collo, a lui che stava a guardare con tanto di muso, e se la strinse al petto, furiosamente.
— Mi credi ora? Mi credi ora? —
Egli le credette allora, con quelle braccia annodate al collo, e quel seno che si gonfiava contro il suo petto. Ma dopo fu la stessa storia; ogni cosa gli dava ombra: se era allegra, se era malinconica, se cantava, se taceva, se si pettinava in un certo modo, e se non voleva confessare che quegli orecchini fossero un ricordo di quell’altro, se la vedeva dal portinaio, o se la incontrava vicino alla posta. Ogni carezza, ogni parola — delle parolacce amare, dei musi lunghi, delle risate ironiche, degli impeti di collera, dei voltafaccia bruschi di servitore che sputi villanie dietro le spalle dei padroni. — Con lui non dicevi così! — Con quell’altro era un altro par di maniche! — No! no! te lo giuro! Non ci penso più! Tu solo adesso! Tu solo! — Poi gli arrivò a dire: — Non gli ho mai voluto bene!...
— O allora? — rispose il servitore.
E infine un giorno essa gli mostrò una carta; una carta che gli aveva portata nel petto, come una reliquia. — Guarda! Guarda! — Era il certificato di morte del suo artigliere, come glielo buttava in faccia a ogni momento Cesare. Il certificato di morte di Lajn Primo, soldato del 5º artiglieria, c’era il bollo e tutto, non ci mancava nulla; la povera donna glielo portava come un regalo, come un regalo del bene che aveva voluto e delle lacrime che aveva versate, come un regalo di tutta sè stessa, della donna innamorata e sottomessa.
L’altro, il maschio, per tutta risposta fece una spallata.