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tro il quale se ne stava come dentro a una bussola la poltrona della contessa e nella poltrona Lilia, vestita di grigio, con un libro in mano.

Ippolito, in piedi accanto alla finestra, guardava il cielo che stava coprendosi di nubi. A un tratto, per un movimento troppo rapido, fece cadere dal tavolino sotto alla finestra un piccolo oggetto.

— Il tuo suggello, — disse raccattandolo. — Hai scritto questa mattina?

— Sì, ho scritto.

Ippolito voltava e rivoltava fra le dita il leggiadro ninnolo d’argento su cui era impressa la prima sillaba del motto di Lilia: Se.

— Vuol piovere, — osservò Lilia posando il libro sui ginocchi.

— Lo temo.

— È venuto il tempo di rovistare nella biblioteca della contessa. Sapessi quanti libri ho trovato di Balzac, di Chateaubriand, di Musset, tutti autori vecchiotti che conoscevo di nome ma dei quali non avevo mai letta una sola parola.

— E il volume che hai in mano?

Non era questo che Ippolito voleva dire. Egli voleva dire: «A chi hai scritto oggi?» ma siccome per un bizzarro sentimento di timidità gli uscì invece l’altra domanda, Lilia rispose:

— Ah! questo è un autore italiano. È Guerrazzi. Se devo essere schietta ti confesso che non