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— Sei troppo bella, — disse egli smarrito e confuso: — perchè vuoi farti più bella ancora? Io ti vorrei brutta, deforme, ma mia, mia per sempre.

— Se fossi brutta non mi ameresti, — rispose Lilia scostandolo con dolcezza.

— Non ti amerei? Ah! non ti amerei... Dio! Dio!

Fuggì colle mani nei capelli e pochi giorni dopo le fece una scena di gelosia a proposito di un nome d’uomo che trovò scritto nelle pagine del di lei taccuino. Poi le domandò scusa gettandosi ai suoi ginocchi, pallidissimo, colle lagrime che gli tremavano sotto le palpebre.

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Pioveva, pioveva sempre, disperatamente, con una specie di frenesia.

Non tanto per il freddo quanto per l’umidità insopportabile facevano accendere il caminetto del salotto e tirato il paravento vi si chiudevano, alla sera, in una intimità piena di calore e di luce, guardando la fiamma che saliva alta dai ceppi di pino inghirlandati di ginestra, scoppiettando su per la cappa da tanti anni deserta con un gridìo amorevole quasi eco di vita lontana.

— Quante cose mi dice la fiamma! — mormorava Ippolito attizzandola con una cura che svelava una lunga abitudine.