Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 235 — |
sistenti, continue. Il lago scomparve sotto un velo di nebbia, il giardino si fece impraticabile. I due innamorati non uscivano quasi più dalla villa. Certo la libreria fu loro in quei giorni di grande aiuto, ma Lilia si meravigliava che Ippolito non toccasse mai il piano. Ella sì, suonava per ore ed ore, accompagnandosi talvolta col canto, e Ippolito la stava ad ascoltare nella poltrona della contessa con la fronte fra le mani.
Solo alla sera, quando la pioggia sembrava diminuire un po’, si ravvolgevano nei mantelli calzando grosse scarpe, quasi col piacere infantile di un travestimento, e scendevano a passeggiare sulla riva cogliendo i brividi paurosi dell’oscurità e della solitudine che davano maggior sapore all’incontro tiepido delle labbra.
Ma anche allora Ippolito era perseguitato da una ignota smania, da un desiderio pazzo e crudele di soffrire e di far soffrire. La prima volta che fu assalito da tale morbosa tentazione credette di essere ammalato, d’una di quelle malattie profonde che si preparano con una lunga incubazione. L’aveva stretta così forte da farle male veramente e il grido di dolore di lei non lo aveva commosso. «Forse impazzisco», pensò Ippolito.
Un’altra volta, sorprendendola dinanzi allo specchio colle braccia alzate a provare una nuova foggia di acconciare i capelli, le andò presso con tale impeto che Lilia se ne spaventò.