XV. Ni

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XIV XVI
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XV.

Ni.

Avevano esplorata tutta la casa, il giardino non conservava più per essi alcun segreto. Ad ogni albero, ad ogni sedile, ad ogni cespuglio era stato affidato il ricordo di un istante felice. Finchè durò il plenilunio passarono le notti sul lago, spingendosi fino ai boschi di Balbianello, ebbri d’amore e di solitudine; ma in settembre le notti si fecero più brevi e più umide, mentre le giornate meravigliose di freschezza li invitavano alle passeggiate sui monti.

Un mattino, intanto che Ippolito già pronto aspettava Lilia a’ piedi della scala, vide entrare un uomo con una gran cesta sulle spalle. Mansa che lo seguiva a pochi passi ricevette la cesta con molte precauzioni, facendogliela scendere adagio adagio dalle spalle e posandola sopra una tavola. [p. 217 modifica]

— Cos’è? — chiese Ippolito distrattamente.

— La biancheria della signora.

— La biancheria?

— Sì. Qui nessuno sarebbe capace di stirare queste meraviglie. La signora le manda a Milano dalla sua cameriera.

Il fatto, in se stesso molto semplice, lasciò Ippolito pensieroso. Egli aveva sempre considerata l’eleganza di Lilia come qualche cosa di indivisibile dalla bella persona, e nella sua semplicità di provinciale la aveva ammirata senza chiedere altro.

Mansa fece saltare destramente le cordicelle che tenevano chiusa la cesta e ne balzò fuori una spuma di trine percorsa da nastri celesti, il colore prediletto di Lilia, che Ippolito conosceva molto bene.

— Oh! la bella biancheria! — fece Mansa togliendo un accappatoio con tutta delicatezza e portandolo sulle braccia tese, trattenendo il respiro.

Ella aveva l’ammirazione pura. Nessun sentimento volgare intorbidava il piacere che la sua vista riceveva dagli oggetti belli.

— Anche la povera contessa, buon’anima, possedeva trine magnifiche, — mormorò allontanandosi in punta di piedi col prezioso fardello.

— È arrivata la mia cesta? — gridò Lilia [p. 218 modifica]mentre scendeva dalle scale coi guanti e con l’ombrellino in mano.

Fu Ippolito che le rispose metà scherzando metà sul serio, dicendole che era troppo elegante, che gli faceva paura, che non si sentiva degno di tante raffinatezze, che temeva di perderla.

Lilia crollava il capo.

— Non è vero che io sono un contadinello al tuo confronto?

— Non so che cosa tu sia. So che ti amo e che mai, capisci, mai ho amato come amo ora, come amo te. Sei contento?

Ippolito acconsentì superficialmente. In fondo al cuore una lama sottile lo aveva toccato e gliene rimaneva una sensazione di freddo che però scomparve quasi subito nel sorriso aperto della campagna e nella dolcezza dei baci di Lilia.

Splendida era la campagna nelle prime brezze nunziatrici dell’autunno e splendido amante Ippolito che ne aveva ricevuto dalla natura tutti i doni, per i quali Lilia gli conferì il titolo di «maestro in amore». Singolare maestranza fatta unicamente di istinto a cui aggiungeva sapore squisito la ingenuità stessa di colui che si trovava maestro senza saperlo.

Simili a due giovani conquistatori essi allargavano ogni giorno il loro regno [p. 219 modifica]allontanandosi dalla villa, visitando i piccoli paesi dei dintorni, facendo qualche ascensione «per portare in alto il loro amore», diceva Lilia. E sulla montagna come sul lago procedevano immemori dell’universo, in una spensieratezza divina, in un oblìo confinante con l’estasi del nirvana. Solo qualche forosetta che guidava le mucche ai pascoli o che portava latte ai villaggi fermandosi a guardarli curiosamente li riconduceva alla realtà dell’esistenza.

— Povere ragazze! — disse una volta Lilia.

— Perchè le compiangi? Se hanno anch’esse il loro innamorato saranno felici al pari di noi.

Lilia non rispose. I loro pensieri in quel momento erano troppo lontani. A che discutere quando è il tempo dei baci?

Un’altra volta attraversando un piccolo paese incontrarono un corteo nuziale che entrava nella chiesa. La sposa davanti, colle donne, era bellina e, caso raro ormai, portava ancora la raggiera d’argento all’antica usanza brianzuola.

— Entriamo a vedere? — disse Ippolito.

— Che mai? — obbiettò Lilia con visibile repulsione: — Ci faremo pigiare per nulla.

Più tardi essendosi seduti a riposare in un prato, mentre Lilia tagliava l’aria con una verghetta di nòcciolo, Ippolito si pose ad ascoltare con attenzione il suono delle campane che annunciavano la fine della cerimonia. Lilia si [p. 220 modifica]accorse che egli vi pensava ancora. Improvvisamente Ippolito domandò:

— Perchè un giorno mi hai detto che non hai mai amato come ora?

— Perchè è la verità.

— Questo dunque vuol dire che hai già amato.

Lilia alzò le spalle. Davvero era troppo ingenuo.

— Ti ho mai fatto credere che tu fossi il mio primo amore?

Aveva ragione. Ippolito divenne muto ed ella provò una specie di malessere, una sensazione manchevole, come se si fosse rotta una molla nel congegno armonico dei loro cuori. Per la prima volta ristettero dal dirsi tutto quello che pensavano. Fu un attimo quasi inavvertito perchè ripresero subito il dolce conversare e risero e scherzarono e si amarono per il resto della giornata; ma questo non impedì che vi fosse tra loro un argomento che ognuno dei due si studiava di schivare. Non erano più soli, poichè il passato di Lilia rizzavasi fra loro due.

Nel pomeriggio, Lilia era stanca e non volle uscire dalla sua camera, Ippolito andò a fare un giro in giardino, meravigliato di trovare aperta una porticina nel fondo che aveva sempre vista coperta d’edera e che credeva fuori d’uso. Al di là della porticina, sopra uno [p. 221 modifica]spianato verde, si slanciavano in alto sorrette da piccoli pali le eleganti colonnine dei fagiuoli; ai loro piedi il pomodoro correva quasi in cerca di un appoggio pe’ suoi frutti maturi; il finocchio tremava al vento vaporoso e leggero come una piuma; il rosmarino, la salvia, tutta la fioritura dell’orto apparve a’ suoi occhi di campagnuolo che ne ricevettero una impressione grata, quasi di ricordo nativo. L’orto era ampio, diviso da un lungo viale a capo del quale scorgevasi una casetta rustica e tutto intorno aveva alberi fruttiferi carichi delle loro dovizie.

Come mai Ippolito non si era accorto prima di questa simpatica vicinanza? Ma senza stare a pensarvi troppo egli varcò la porticina, inoltrandosi lentamente sul viale di mezzo abbellito da alcuni vasi di limoni fiorenti nella acutezza sana del loro profumo. Ne colse una foglia e si pose a masticarla. Altre piantine minuscole germogliavano negli stessi vasi di limoni: porcellane, geraniuzzi, cappuccine, colla sicurezza spavalda di piccoli nani protetti da giganti, rivelando nel loro assetto una cura minuziosa e paziente. E tutto l’orto portava questa impronta di amore, di lavoro, di vita semplice, di operosità feconda. Gli esili alberelli delle pesche piegavano sotto il peso dei frutti rosei e rotondi come guance giovani sulle quali il sole di settembre posi i suoi dolci morsi. Era nell’aria una quiete altissima. [p. 222 modifica]

Ippolito avanzava sempre con grande lentezza provando il singolare piacere che dà la campagna in certe ore: piacere di sentirsi vivere indipendentemente da ogni altra sensazione, quasi una forza passiva nel grembo della natura.

Ma quale raro fiore dondolava lievemente il calice rosso in mezzo ad una aiuola di prezzemolo?... Due peri nodosi insieme abbracciati ne mascheravano ad Ippolito la visione precisa: pure quel vivo rosso che sembrava palpitare tra i rami lo attrasse irresistibilmente. Girò l’aiuola di fianco e si trovò innanzi ritto un personaggio alto appunto come un rosaio che fosse ancora novellino e non avesse che un solo fiore scarlatto.

All’improvviso apparire di Ippolito il personaggio non parve sgomentarsi affatto, nè intimidirsi, nè dare alcun segno di stupore. In piedi sul tappeto frastagliato del prezzemolo, nella porpora del suo grembiulino, guardando lo straniero con occhio limpido e sicuro, sembrava un piccolo re nel suo legittimo regno. E come Ippolito gli fu presso sorridendo gli tese la manina, ma con tale gesto dignitoso che il giovine non potè più rattenere una esclamazione di meraviglia.

— Oh soave bambino! Chi sei? Come ti chiami? Che fai qui?

Subito non rispose. Evidentemente la sua [p. 223 modifica]opinione sullo straniero non era ancora formata, o forse lo preoccupava maggiormente una fragola che teneva con due dita e che infatti passò, appena appena, per l’orlo della sua boccuccia. Dopo qualche istante sollevando ancora gli occhi chiari in volto a Ippolito pronunciò distintamente questa sillaba:

— Ni.

«Ni?.... Ecco una parola che deve avere un valore grandissimo», pensò Ippolito: «ma che vorrà mai dire?»

In quel mentre una giovanissima donna se ne veniva correndo dalla casa in fondo al viale e il bambino pronunciò ancora: «Mamma».

— La presentazione è fatta! — esclamò Ippolito sorridendo alla nuova venuta: — Che caro bambino! — Improvvisamente si ricordò di avere veduto altrove quella fronte prominente e quei capelli color di rame pallido, ma dove? Al momento non seppe rammentarlo, solo più tardi gli venne in mente il piccolo Gesù che sta in braccio ad una Madonna di Guido Reni in una chiesa di Bologna.

La donna se lo prese tosto in braccio baciandolo e domandandogli se aveva salutato il signore.

— Per verità qualche cosa mi ha detto, ma non sono sicuro di avere compreso. Disse Ni.

— Oh! sempre. È il nome che si è dato lui [p. 224 modifica]stesso. Quando gli domandano come si chiama, risponde Ni.

— Tanto vale Ni quanto Paolo o Giovanni; ma come va che non lo vidi prima d’ora questo signore Ni? La porta del giardino era chiusa nei giorni passati.

— Oggi l’ha aperta mio suocero per portare terra nel giardino della villa.

— E chi è vostro suocero?

— Il custode.

Intanto che scambiavano queste parole sopravvenne Mansa, la suocera e nonna, la quale a sua volta si prese in braccio il bambino scoccandogli baci sonori; ed era tutt’insieme, tra quadro e cornice, una scenetta così gustosa che Ippolito se ne staccò a malincuore provando un bizzarro sentimento che somigliava a nostalgia.

A tavola parlò dell’incontro con Lilia. Ella fu sulle prime un po’ meravigliata del suo entusiasmo, ma se ne lasciò trascinare tanto che il giorno appresso andarono insieme alla ricerca di Ni, il quale passava la giornata nell’orto e vi faceva la siesta all’ombra dei limoni.

Ni era un bambino curiosissimo. Non bello precisamente nel significato che si suol dare alla bellezza infantile, sarebbe forse uscito senza premi da un concorso; ma era impossibile vederlo senza fermarsi a guardarlo, e guardandolo non restare cattivati dalla straordinaria [p. 225 modifica]espressione del suo volto cui non davan risalto le solite attrattive dei riccioli biondi e dei grandi occhi azzurri o neri, ma che vibrava per una forza interna di intellettualità. Sulla sua testina molto piccola i capelli radi color di rame pallido sembravano cingere di un casco la fronte prominente dove le pupille aguzze gettavano bagliori di lama attraverso l’iride grigia, simile un po’ all’acqua dei fossati scorrenti sotto i salici; e quando quei bagliori scintillavano, l’iride grigia si agitava tutta proprio come un’acqua, e benchè gli occhi fossero piccoli, sembravano grandi per la gran luce che vi si accendeva, ed erano questi meravigliosi occhi volta a volta severi, indagatori, profondi, eppure così candidi e fidenti che sembravano non temere nulla e si aprivano senza paura verso gli uomini e verso le cose. Con un nasino pari ad un chicco di melagrana e con lineamenti tutti da miniatura, non era in lui nessuna apparenza di gracilità; era, al contrario, agile e forte, con una sveltezza nei movimenti da libero capriuolo, e le manine lievi, simili a piume d’angelo quando volevano accarezzare, tendevano nella lotta una nervatura sottile e resistente che si disegnava vigorosa sotto il raso della pelle.

Intanto che Lilia lo faceva giuocare provocandone le risate argentine Ippolito lo fissava così estatico che alla fine Ni se ne accorse e [p. 226 modifica]tenne egli pure le pupille fisse in quelle del suo contemplatore finchè vedendovisi riflesso come in uno specchio prese di tal gioco grandissimo diletto e non voleva più finire.

— Tutto è nuovo per lui, — disse Ippolito: — non altrimenti il primo uomo dovette guardare le origini del mondo. Ogni bambino che nasce è un mondo che ricomincia.

Lilia assentì chinando la fronte soave sulla quale tuttavia Ippolito credette di scorgere un segno di stanchezza. E stanco era il movimento della sua bella mano protesa a sorreggere il bambino. Con stupore, tenerezza e malinconia insieme Ippolito vide una ruga, una piccolissima ruga sul volto amato... Perchè? Quale lagrima vi si nascondeva, quale dolore che egli ignorava? Era veramente sua quella donna? La conosceva egli? La possedeva tutta? O non era la straniera incontrata per un momento appena sul suo cammino?

Il suo amore entrava in una fase di inquietudine e di dubbi facendosi più ardente e più tormentoso. Da quella notte in cui, sospesi sopra l’abisso del lago, uniti nel brivido della morte e della voluttà avevano compreso che non si poteva andare più oltre, essi erano rimasti come chiusi nella sfera della passione e nella impossibilità di crescere la fiamma dei loro cuori ruggiva impotente. Dopo di avere baciato il [p. 227 modifica]bambino Ippolito tese le labbra a Lilia, ma egli aveva negli occhi una luce nuova che fece impallidire la donna.

Allora Ippolito non dubitò più che la presenza del piccino dispiacesse a Lilia. — Era forse gelosa? — Ne ebbe un sussulto di gioia sembrandogli una maggior prova d’amore; però non le chiese i giorni seguenti di andare a vederlo. Vi si recava solo nelle ore che Lilia occupavasi nella sua camera o a dare ordini in casa. Ma Ni entrava oramai nei discorsi famigliari; Mansa (la nonna, la donna dal gesto antico) lo nominava cento volte al giorno e parlando di lui si illuminava tutta con un ritorno improvviso di giovinezza. Lilia prestava pure attenzione ai suoi discorsi semplici, assennati, al racconto sobrio delle sue sventure, fra cui la morte tragica di un figlio ventenne annegato nel lago che ella stessa aveva estratto cadavere e recato a terra sulle proprie braccia, e di una bimba che le era morta consunta, e ancora... ancora... senza enfasi, senza recriminazioni, senza rivolte, austera e dolce. Ascoltandola Lilia pensava a Rispha custode dei cadaveri de’ suoi cinque figli. Mansa per altro ne aveva serbato uno, un figliolo intelligente che le condusse in casa una fanciulla dei monti buona e pura e dalla loro unione era nato il piccolo prodigio che si chiamava Ni. [p. 228 modifica]

Lilia leggeva nell’animo di Ippolito l’impressione che gli facevano questi quadri di una vita semplice e forte, e più ancora l’inconscia simpatia che gli destava l’idillio dei giovani sposi benedetto da quell’amore di bimbo. Non era gelosa, no, ma rifletteva e qualche volta si faceva melanconica.

La porticina dell’orto dischiusa improvvisamente dinanzi al sogno aveva posto sotto i loro occhi la realtà della vita e mentre Ippolito credeva di non scorgervi altro se non la leggiadria di una nuova visione, l’istinto sagace di Lilia le faceva presentire il pericolo. — Pensa — le aveva detto Ippolito un giorno — questo bambino non sa che deve morire! Parole profonde di dolore umano, alle quali Lilia aggiungeva: Non sa che cosa sia l’amore! Per questo Ni era tanto felice.

Oltre alla sua professione di bimbo felice Ni faceva presagire un temperamento da filosofo. Signore di tutte le farfalle, formiche, bruchi, moscerini che si trovavano nel suo regno aveva pure a sua disposizione una quantità di sassolini, di sabbia, di foglie, di fuscelli, intorno ai quali si metteva a lavorare con certi suoi criteri architettonici non sempre conformi alle leggi di gravità, così che i fabbricati crollavano sotto le sue manine prima ancora di essere eretti; ma egli non si sgomentava perciò e rotto un [p. 229 modifica]fuscello ne cercava un altro e se non lo trovava la rassegnazione veniva subito.

Ni era acrobata. Non vi era nell’orto monticello o rilievo qualsiasi sul quale non avesse tentato di arrampicarsi dando prova di una elasticità sorprendente che lo aiutava sopratutto nelle cadute, quando ruzzolando per terra con tutte e quattro le zampine in aria rialzavasi prontamente senza piangere, si strofinava la parte ammaccata od anche un’altra che vi corrispondesse presso a poco e tornava all’assalto.

Ni era esploratore. Si avventurava tutto solo nel bosco dei fagiuoli, smarrendo qualche volta la via ma ritrovandola sempre, affrontando ostacoli di rami rovesciati, di buche nel terreno, di cupolette di talpa che lo facevano incespicare ma non retrocedere; e non gli mancavano incontri terrificanti di grossi ragni che gli sbarravano colla loro tela tutto il sentiero; di lucertole guizzantigli fra le gambine, di qualche gatto selvatico balzante con tanto impeto da far traballare il bosco, sì che i baccelli maturi gli cadevano sul nasino lasciandolo intontito per qualche istante.

Ni era sopratutto mago. Avvicinandosi a lui tutti i volti sorridevano, tutti si mostravano buoni e compiacenti. Le fronti più gravi, anche quella del nonno custode attraversata da miriadi di rughe, si spianavano, si lisciavano tutte [p. 230 modifica]per fregarsi sui capelli colore di rame pallido.

Lilia al pari degli altri sorrideva al bambino e quando lo incontrava per caso nei dintorni della villa fermavasi ad accarezzarlo, invitata quasi da lui che le si poneva davanti con quegli occhi pieni di fiducia e di attesa; ma se Ippolito diceva di non comprendere la vita se non congiunta così a un anello nel futuro (e lo diceva spesso), ella avvertiva in se stessa quella medesima impressione di ferita che già aveva provato altre volte, che non scompariva neppure totalmente sotto l’onda dei baci e che le dava per qualche istante un’attitudine di rigidezza. Non era ancora l’ostacolo, ma l’ostacolo si preparava.