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rosa, cilestrine, verde acqua, giallo paglia appartenenti allo stuolo gaio delle fanciulle, senza trovare mai un richiamo a quella tinta ed a quel disegno. Nè, in fondo, ciò gli dispiaceva.

Cara, segreta, ignota al sol, romita,
Vive la cura che m’accende il cor.

Ripeteva volentieri questi versi uditi una volta dallo zio Remo. Dovevano essere di Byron, non ne era sicuro, ma li ripeteva perchè rispondevano ad un suo intimo concetto dell’amore, vago ancora e confuso, come erano incerti i suoi desideri; seme giacente sotto il niveo frigidore di un temperamento timido e di una educazione austera cui non era bastato a far sbocciare completamente l’esperienza del suo anno di volontariato.

Questo calore latente e prigioniero compiva tuttavia ad insaputa di Ippolito il naturale cammino verso la maturanza che è legge della vita. Aveva, in quel principio efflorescente di giugno, ore di inquietudine nuova e il pensiero della incognita che gli era divenuto inseparabile compagno lo prostrava come nello sforzo di una attesa dolce e snervante. Fuggiva i compagni e in generale ogni occasione che potesse distrarlo dalla soave visione interiore. Una ragazza di Borgo Canale colla quale egli aveva amoreggiato un breve tempo lo fermò un giorno