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che la previdenza del custode ha collocato davanti al celebre ritratto. Sì, è bella! Ippolito la esamina minutamente, dai capelli aerei al fine profilo, alla bocca troppo piccola quasi schiva di baci, al collo delicato, alle ammirabili mani. Non gli sfuggono nè le trine dell’abito, nè le perle del monile, nè il colore indefinibile delle fettuccie che le palpitano sul seno a guisa di farfalla imprigionata. Beate loro! — pensa Ippolito — ma si commove meno, in fondo, di quanto avrebbe creduto.

Esce dal Castello con una folla di immagini nel pensiero e mentre sta per prendere il tram della stazione, d’improvviso cambia strada e scende a piedi giù per il Corso. Nessuna riflessione, nessuna causa apparente determina questo mutamento di itinerario. Egli va all’appello misterioso del destino.

Va il giovine provinciale sul marciapiede del Corso mescendosi ai soliti passeggieri, incominciando a provare quella lieve sensazione di stordimento che assale sempre l’abitante della campagna travolto per un giorno nella inquieta onda cittadina; ma appena fuori del centro, verso i Navigli, in vista dell’arco che termina così leggiadramente il Corso sullo sfondo delle Alpi lontane, egli respira più largamente. La massa verde dei giardini a sinistra lo invita ad attraversarli in tutta la loro lunghezza, poichè appunto