Una passione/IV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | III | V | ► |
IV.
Ippolito.
Colui del quale per oltre un mese tutta la stampa lombarda si era occupata, Ippolito Brembo, era un orfano nella numerosa famiglia patriarcale e viveva fin dall’infanzia cogli zii nel casolare solitario, tranne qualche semestre passato a Celana, il collegio classico dei bergamaschi, il bel collegio eretto sulla cima di un colle dominante le vallate di San Martino e di Val Cava. Si era deciso tardi, fra incertezze e dibattiti infiniti, a frequentare il Conservatorio di Bergamo colla modesta prospettiva di finire organista. Non era una vocazione molto spiegata la sua; anzi egli aveva avuto diverse altre vocazioni, o piuttosto era corso dietro successivamente ad ogni nuovo fantasma, fosse pur sorto dalla sua immaginazione o dall’esempio altrui, risospinto indietro al momento di afferrarlo, come se avesse dentro una forza latente che lo comandasse.
«Non ne faremo nulla», decretava Romolo, che per quanto alla sua maniera gli volesse bene pure si trovava ad ogni nuova sconfitta segretamente lusingato che un altro non potesse giungere dove egli stesso non era giunto, sembrandogli un conforto insieme ed una giustificazione. Remo invece diceva: «Eppure in quel ragazzo c’è qualche cosa!» I fatti tuttavia davano ragione a Romolo.
Quando, nei lieti mattini di primavera, tutto verdeggiava intorno al casolare, in quell’ora che i poeti sogliono abbellire coi più dolci aggettivi ed in cui veramente pare che uno spirito alato sorga dentro di noi traendoci a sogni di bellezza immortale, Ippolito, se libero dalla scuola, aveva fin da fanciullo l’abitudine di scomparire dietro le siepi, lungo i fossatelli, nei viottoli più angusti mezzo sepolti fra le alte erbe o sdraiato bocconi fra i papaveri, col mento appoggiato sulle palme e i gomiti inchiodati per terra, di seguire lungamente l’errar delle nuvole, il volo degli uccelli, lo stormire del vento fra gli alberi: ed anche il variopinto volteggiare delle farfalle intorno ai calici semiaperti dei fiori e il trascinarsi lento dei brucherelli da cespuglio a cespuglio producendo cento piccoli rumori quasi indistinti che il fanciullo sembrava ascoltare avidamente.
È singolare — pensava tra sè il buon Remo — che con tanto materiale di osservazione egli non arrivi a mettere insieme una descrizione campestre che si sollevi un sol punto dalla mediocrità. — Taceva, l’onesto pedagogo, per non dare buon giuoco agli sfoghi atrabiliari del fratello; ma intanto procurava di interessare il fanciullo alle forme, ai colori, ai suoni, e, per quanto il risultato fosse poco incoraggiante, la sua fede non ne veniva scossa. Bisogna aver pazienza — concludeva egli invariabilmente — e sia che rispondesse così a qualche indiscreta domanda o che pronunciasse le parole per sè solo, a mezza voce, si capiva che la pazienza in lui era una cambiale a scadenza continuamente rinnovata.
Nella stagione in cui fervono i lavori della campagna Ippolito assisteva al raccolto delle messi. Seduto sui carri di fieno o sui mucchi delle pannocchie prendeva parte ai giuochi dei compagni, nè migliore, nè peggiore della maggioranza di essi; vivo, lesto, ghiotto di frutta acerba e di chicchi di grano cotti sotto la cenere — la quale ultima cosa lo metteva spesso in querela colla zia Rosalba che bofonchiando e brontolando tutto il giorno intorno ai fornelli non tollerava altre persone vicino a sè. Gli era però facile di trovare un alleato nelle servette, le quali erano sempre al disotto dei quindici anni, per economia, e perchè Rosalba potesse meglio comandarle o farle piroettare a suo talento.
Anzi era tra le servette che Ippolito cercava la compagnia preferita, ignaro delle cause, ma pur consapevole di un effetto più simpatico sui suoi nervi, e siccome più di due o tre anni in massima non rimanevano in casa, ed in pratica assai meno, egli ne aveva un piccolo assortimento nelle caselle della memoria...
Pigiare l’uva nei tini ed assistere allo smallo delle noci che gli uomini venivano poi di sera a caricare per far l’olio, era una delle più grandi gioie dell’autunno. Questo faccende si compivano in una specie di cantinone, alla parca luce di una lampada di ferro a quattro becchi sospesa contro il muro e il cui raggio non oltrepassava la cerchia dell’operazione; per cui tutto in giro sulle pareti di rustica calce luccicanti qua e là di strisce di salnitro si alzavano e si abbassavano le ombre dei lavoratori quali vaganti fantasmi, e negli angoli più riposti, dove non giungevano le pallide fiammelle delle lampade, si addensava un nereggiamento di tenebre così profonde che alla viva immaginazione del fanciullo sembravano aperture di regni misteriosi.
Quanti brividi paurosi e giocondi avevano fatto balzare il cuore di Ippolito rannicchiato nel vano di due botti se un topo disturbato nelle sue faccende attraversava rapidamente il cantinone! E quale indimenticabile sensazione, una sera di autunno inoltrato, freddissima, in cui egli, per non rinunciare ai giuochi usati, se ne venne a prendere il suo posto fra le due botti, tremante come una bubbola, con un principio di febbre addosso, e la servetta, raggiungendolo dalla cucina, gli prese le mani diacce per riscaldarle nel suo grembiule che scottava! Veramente egli non ricordava delizia maggiore di quel subito tuffo delle sue mani intirizzite entro il rigatino del grembiule abbrustolito alla viva fiamma, se non la delizia susseguente, quando, venendo grado a grado a raffreddarsi il grembiule, egli sentiva un altro calore, più dolce assai, quantunque meno intenso, immedesimato colla personcina della fanciulla; soave calore che lo attrasse a posare, insieme alle mani, la testa sul piccolo grembiule e nel piccolo grembo. Nè per quella sera egli vide più gli uomini che insaccavano le noci e neppure i topi rincorrentisi negli angoli bui. Di quella sera non seppe più nulla perchè il giorno dopo era a letto colla febbre.
Fu la sua prima malattia: il morbillo. Otto giorni eterni sotto le coltri, quasi sempre solo, in una camera immensa, grande appunto come il cantinone sottostante, ma nella quale era prigioniero e dove la servetta non entrava che raramente, accompagnando Rosalba con un brodo panato o con un bicchiere di acqua o magnesia che ella scuoteva invano vertiginosamente col cucchiaino senza riuscire a fargli perdere quel sapore di terra che gli rimaneva poi a lungo nelle fauci, ritornello monotono della malattia.
Ma anche a quel periodo triste o noioso Ippolito collegava una rimembranza simpatica. La grande camera dove avevano messo per sbarazzo il suo letticciuolo accoglieva tutti i mobili inutili della casa: canterani panciuti a larghe maniglie di metallo, scrivanie complicate a piani moventi, armadietti fitti di cassettini tanto misteriosi quanto inutili, specchiere arruginite, sedie zoppe, sopratutto una quantità di pendole, sveglie ed orologi d’ogni genere — antica mania di Romolo, il quale si era piccato un tempo di sorpassare Carlo V nel regolarli tutti sopra una medesima ora, e che poi se ne era stancato e veniva oramai di rado a caricare solo i più importanti.
In questo ospedale di pendole ve n’erano di curiosissime; dall’antico cucù allungato in mezzo alle due finestre, alla pendola di Germania fabbricata nella Foresta Nera con una architettura ingenua arieggiante il frontone di un tempio; dalla pendolina del settecento tutta fiorami e svenevolezze, alla rigida pendola Impero cogli angoli aguzzi, le colonne scannellate e l’immancabile aquila; e vi era la pendola della prima metà del secolo, in falso bronzo, col gruppo di Paolo e Virginia riparati sotto una immensa foglia di palma. Grossi orologi di rame o di argento occupavano i vani tra una pendola e l’altra affermando un’agiatezza che non si sarebbe supposta mai in quella famiglia dalle abitudini contadinesche, di una parsimonia che rasentava, ostentava la povertà. Ippolito, che non vi aveva prima d’allora posto mente, incominciò nei lunghi giorni della sua malattia a osservare tutti quegli oggetti e ad ascoltare il suono delle pendole.
Sopratutto di notte l’impressione era fantastica. Ogni pendola aveva la sua voce particolare: c’era quella che faceva tec tec come un compagno allegro che racconta una storiella, e un’altra faceva toc toc come un’austera matrona che predica la virtù. La suoneria di Paolo e Virginia aveva delle interruzioni curiosissime: taceva per un pezzo e poi si metteva a battere una gragnuola di colpi fitti fitti del più bizzarro effetto. La pendola della Foresta Nera, con un indice rotto, non segnava più le ore ma aveva un macchinismo di sveglia che alla più piccola scossa saltava su a stornellare col movimento disorientato di chi si desta da un lungo sonno. Qualcuna suonava solamente le ore; qualche altra le ore e le mezze; qualche altra le ore e tutti i quarti, proprio a guisa di una pettegola che non tace mai.
Per fortuna Romolo avendo oltrepassato il momento della voga non era molto puntuale nelle registrazioni, ed essendo anche frequenti i guasti nei diversi congegni, le soste avvenivano frequentemente; da ciò una grande varietà nei concerti. Talvolta era un coro completo con alti e bassi; talvolta era un terzetto o un duetto, frammezzato dagli a solo formidabili della Foresta Nera ai quali Ippolito non riusciva ad abituarsi, che lo facevano sempre sobbalzare fra lo sgomento e la curiosità. A poco a poco però conoscendo meglio i suoi bizzarri compagni di prigionia egli aveva preso ad amarli; li distingueva tutti alla voce, e fu appunto addentrandosi in questo esame dei suoni che gli parve di scoprire una gioia nuova, quasi un accrescimento di vita, quasi un piccolo mondo, tutto suo dove si sentiva affatto libero in una solitudine attraversata da fantasmi luminosi.
Nella notte oscura, mentre tutta la casa era immersa nel silenzio, egli prestava l’orecchio a quegli ordigni di legno e di metallo dai quali pareva che tante anime sconosciute si affacciassero lanciando ognuna il suo segreto. Ascoltarle, intenderle, divenne presto per il fanciullo un diletto intenso. La sua fantasia si schiudeva ad uno sforzo superiore agli anni e per questo sterile; ma il suo cuore sospendeva i battiti per seguire quegli altri battiti, d’altri cuori, d’altre fantasie, sì che talvolta egli dava una forma umana a tutte quelle voci; ed una sfilata di fantasmi, misti di sesso, di costumi e di età, danzava nelle veglie febbrili dell’adolescente intorno all’ampia camera, fra i mobili antiquati, mentre il sapore terreo della magnesia gli ritornava su le papille del palato.
Fu certamente da quel periodo speciale della sua adolescenza che sorse e si rivelò in Ippolito una particolare tendenza alla musica, quantunque frammezzata e interrotta da cento altre attitudini che ad ogni istante ne spostavano la vocazione scombuiando i pronostici dei parenti e remora fatale agli studi.
— Qualche cosa gli manca di sicuro — pensava fra sè e sè il buon Remo: — se è il genio, parce sepulto, se è l’ambiente, verrà!
— Coltivare i propri fagioli — diceva Romolo, al pari di colui che reduce da un naufragio rinnega la bellezza del mare — guardar crescere l’erba e persuadersi che il mondo è una solenne corbelleria!
Rosalba poi, quantunque nessuno l’avesse mai interpellata in proposito, era d’opinione che prete o soldati fossero le migliori soluzioni del problema.
Fra queste correnti contrarie Ippolito cresceva un po’ alla maniera di un albero selvaggio favorito dalla libertà della vita campestre dove il suo bel corpo robusto si addestrava alla più naturale delle ginnastiche. Egli era infatti verso i quindici anni un ammirabile giovinetto, le cui membra, non fuse nel bronzo quali ci appaiono dai capolavori dell’arte greca, ma vive e frementi nel giuoco dei muscoli esercitati, davano agli occhi una rivelazione squisita di armonia.
Lontanavano oramai nelle memorie dell’adolescenza le impressioni dei raccolti, della vendemmia, del cantinone dove si insaccavano le noci; sparita la servetta che gli aveva riscaldato le mani alla vigilia della malattia; e molte altre venute in seguito, sparite del pari, lasciandogli nella mente un lembo di gonnella rossa, un ciuffo di capelli, un motto, un riso, un pugno di nocciuole fattogli scivolare nella tasca e, ritorno frequente, la memoria di qualche ramanzina sorbita insieme.
Una delle ultime scene che gli erano rimaste impresse si riferiva al giorno dei morti, il due novembre. Tutta la famiglia era riunita intorno al gran fuoco della cucina attendendo la bollitura delle castagne e nell’attesa recitava il rosario. Era quello un momento solenne in cui Rosalba dedicando la preghiera ai suoi poveri morti sembrava sorgere dalle grette preoccupazioni quotidiane per vestire una solennità di pensiero che la ingrandiva. Non era ogni cosa morta per lei? Da quando al fonte battesimale le avevano regalato il primo, forse l’unico complimento, chiamandola a un punto solo rosa e alba, che mai di buono aveva trovato nella vita? Un’ora d’amore, se pure era stato amore, e poi più nulla. La sua persona secca negli abiti vedovili era la perfetta immagine della sua mente e del suo cuore, ond’è che nessuno l’amava. Ma non era essa anche una grande infelice? Ippolito la osservava alla luce della fiammata che per quanto vivida non riusciva a estrarle nessuna scintilla, tranne che dalle perline di acciaio rilucenti sull’orlo de’ polsini neri; e un sentimento nuovo, un sentimento d’anima matura che intuisce i misteri dell’afflizione si faceva strada in lui; sentimento profondo di pietà per la povera donna dalla mente piccina e dal cuore arido incapace di fare il male quanto di fare il bene. Proprio in quel momento, recitando il trentesimo requiem, una grande stanchezza le apparve sul volto e la corona del rosario le scivolò di mano. La servetta scoppiò a ridere in un modo così sciocco che Ippolito si sentì ferito in quel suo sentimento nuovo ed insieme gli parve che una barriera sorgesse improvvisamente a dividerlo da tutto ciò che era stato il suo passato.
Non lo si vide più d’allora scherzare colle servette nè trastullarsi e ridere di ciò che ancora faceva ridere i suoi coetanei. La trasformazione iniziata per un subito risveglio di sensibilità continuò il lavoro occulto di dirozzare i suoi nervi. Divenne più schivo, più difficile nei gusti, più insofferente anche e più malinconico. Sentenziava Remo: — È il passaggio dall’una all’altra età.
Ma il grande problema rimaneva lo stesso: Che cosa avrebbe fatto? Quella specie di indolenza che aveva sempre paralizzato l’ingegno di Ippolito non accennava a sparire. Romolo e Remo discutevano tutti i giorni il suo avvenire senza che egli vi prendesse parte attiva, indifferente alla carriera degli impieghi ed a quella dell’insegnamento fra cui sembrava pendere la scelta. Il gusto per la musica che non lo aveva totalmente abbandonato e qualche relazione fatta a Bergamo coi frequentatori di quel Conservatorio lo consigliarono a prepararsi per un posto di organista, senza che per altro egli vi si accalorasse troppo. Tutto era dunque in sospeso, quando gli capitò la coscrizione militare. I suoi zii, d’accordo questa volta, gli fecero fare non senza qualche sacrificio l’anno di volontariato, e così partì.
Vide Firenze, vide Roma. Egli scrisse a casa che gli sembrava di sognare. La verità era che tra le sorprese non tutte piacevoli della caserma ebbe la fortuna d’incontrarsi con un amico intellettuale che lo iniziò al gusto dell’arte e della poesia, così che le passeggiate fatte insieme nella Città Eterna furono per Ippolito meglio che un corso di studi superiori. Quanti slanci sublimi sollevarono il petto dei due giovani dalle alture del Gianicolo guardando giù l’immensità di Roma! Partito ignorante, tornò coll’animo aperto al divino sentimento della bellezza. Ma rientrando nell’angusta vita domestica l’antica incertezza lo riprese davanti alla scelta di una carriera. Da quel po’ di esperienza fatta gl’impieghi gli erano venuti in uggia, e la prospettiva di trascorrere tutta quanta l’esistenza a correggere còmpiti non gli sorrideva più, poi che era riuscito a comprendere di non avere la pazienza di zio Remo. Procedendo con questo sistema di eliminazione si trovò da capo alla carriera musicale. Dovendo finalmente decidersi per qualche cosa si inscrisse al Conservatorio di Bergamo, senza soverchio entusiasmo, ma attratto dal lato poetico di una professione che lo avrebbe conservato in un ambiente d’arte.
Nel rivedere Bergamo, dopo le iniziazioni di Firenze e di Roma, Ippolito comprese per la prima volta quanto fosse bella la sua città. Arrivando tutte le mattine a piedi dal cascinale, la vaghissima gli sorrideva dall’alto del colle, protendendo le braccia quasi ad un amplesso; ed era così luminosa, nella cornice verde dei bastioni, colle sue torri antiche, coi pensili giardini, che egli si domandava come mai non se ne fosse accorto negli anni addietro. Andava pure a rivedere i monumenti e le chiese con animo nuovo, cercando di rivivere in quel passato medioevale che appare in alcuni punti con una straordinaria potenza di suggestione, presente ancora nei neri palazzi e in certe viuzze solitarie fiancheggiate da conventi, in certi muri nerastri incrostati di affreschi, a cui il tempo ha conferito vaghi contorni di apparizione. Santa Maria Maggiore lo accoglieva in occasione delle feste solenni, quando l’organo suonava a distesa sotto le volte magnifiche illustrate da Luca Giordano, tra l’oro pallido dei capitelli. Egli andava a collocarsi di fianco al grande arazzo centrale in vista del monumento di Donizetti e lasciava che la sua fantasia si imbevesse della solenne poesia del tempio.
Mille visioni gli ondeggiavano allora nella mente, visioni di gloria e d’amore, confuse insieme in un grande barbaglio di luce, dove i profili vanivano; sogno delizioso, dolce miraggio creato da uno stato d’animo che solo i vent’anni possono dare col tesoro intatto dei loro entusiasmi, pari ad uno stuolo di aspettanti efebi sulla soglia di un giardino dove ogni albero fosse fiorito. In quelle ore divine il tempio rappresentava a’ suoi occhi l’asilo della pace e della bellezza; ascoltando i suoni dell’organo, seguendo il volo degli angeli dipinti, tutte le materialità della vita erano così lontane da lui che veramente gli sembrava di essere uno dei predestinati a recare sulle miserie della terra il raggio dell’arte. L’impeto era violento, la percezione acuta, irresistibile il bisogno; ma quando dai regni della visione egli voleva discendere e concretare il suo desiderio in un’opera sensibile la sottile trama gli si spezzava fra le dita. Il dio occulto non era nato ancora.