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ra, con un indice rotto, non segnava più le ore ma aveva un macchinismo di sveglia che alla più piccola scossa saltava su a stornellare col movimento disorientato di chi si desta da un lungo sonno. Qualcuna suonava solamente le ore; qualche altra le ore e le mezze; qualche altra le ore e tutti i quarti, proprio a guisa di una pettegola che non tace mai.

Per fortuna Romolo avendo oltrepassato il momento della voga non era molto puntuale nelle registrazioni, ed essendo anche frequenti i guasti nei diversi congegni, le soste avvenivano frequentemente; da ciò una grande varietà nei concerti. Talvolta era un coro completo con alti e bassi; talvolta era un terzetto o un duetto, frammezzato dagli a solo formidabili della Foresta Nera ai quali Ippolito non riusciva ad abituarsi, che lo facevano sempre sobbalzare fra lo sgomento e la curiosità. A poco a poco però conoscendo meglio i suoi bizzarri compagni di prigionia egli aveva preso ad amarli; li distingueva tutti alla voce, e fu appunto addentrandosi in questo esame dei suoni che gli parve di scoprire una gioia nuova, quasi un accrescimento di vita, quasi un piccolo mondo, tutto suo dove si sentiva affatto libero in una solitudine attraversata da fantasmi luminosi.

Nella notte oscura, mentre tutta la casa era immersa nel silenzio, egli prestava l’orecchio