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zo alle due finestre, alla pendola di Germania fabbricata nella Foresta Nera con una architettura ingenua arieggiante il frontone di un tempio; dalla pendolina del settecento tutta fiorami e svenevolezze, alla rigida pendola Impero cogli angoli aguzzi, le colonne scannellate e l’immancabile aquila; e vi era la pendola della prima metà del secolo, in falso bronzo, col gruppo di Paolo e Virginia riparati sotto una immensa foglia di palma. Grossi orologi di rame o di argento occupavano i vani tra una pendola e l’altra affermando un’agiatezza che non si sarebbe supposta mai in quella famiglia dalle abitudini contadinesche, di una parsimonia che rasentava, ostentava la povertà. Ippolito, che non vi aveva prima d’allora posto mente, incominciò nei lunghi giorni della sua malattia a osservare tutti quegli oggetti e ad ascoltare il suono delle pendole.
Sopratutto di notte l’impressione era fantastica. Ogni pendola aveva la sua voce particolare: c’era quella che faceva tec tec come un compagno allegro che racconta una storiella, e un’altra faceva toc toc come un’austera matrona che predica la virtù. La suoneria di Paolo e Virginia aveva delle interruzioni curiosissime: taceva per un pezzo e poi si metteva a battere una gragnuola di colpi fitti fitti del più bizzarro effetto. La pendola della Foresta Ne-