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sivamente ad ogni nuovo fantasma, fosse pur sorto dalla sua immaginazione o dall’esempio altrui, risospinto indietro al momento di afferrarlo, come se avesse dentro una forza latente che lo comandasse.
«Non ne faremo nulla», decretava Romolo, che per quanto alla sua maniera gli volesse bene pure si trovava ad ogni nuova sconfitta segretamente lusingato che un altro non potesse giungere dove egli stesso non era giunto, sembrandogli un conforto insieme ed una giustificazione. Remo invece diceva: «Eppure in quel ragazzo c’è qualche cosa!» I fatti tuttavia davano ragione a Romolo.
Quando, nei lieti mattini di primavera, tutto verdeggiava intorno al casolare, in quell’ora che i poeti sogliono abbellire coi più dolci aggettivi ed in cui veramente pare che uno spirito alato sorga dentro di noi traendoci a sogni di bellezza immortale, Ippolito, se libero dalla scuola, aveva fin da fanciullo l’abitudine di scomparire dietro le siepi, lungo i fossatelli, nei viottoli più angusti mezzo sepolti fra le alte erbe o sdraiato bocconi fra i papaveri, col mento appoggiato sulle palme e i gomiti inchiodati per terra, di seguire lungamente l’errar delle nuvole, il volo degli uccelli, lo stormire del vento fra gli alberi: ed anche il variopinto volteggiare delle farfalle intorno ai calici semi-