Troilo e Cressida/Atto terzo
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ATTO TERZO
SCENA I.
Troia. — Una stanza nel palazzo di Priamo.
Entrano Pandaro e un Servo.
Pan. Amico, una parola, prego. — Non siete voi del seguito del giovine Paride?
Ser. Sì, lo seguo quand’egli mi va dinanzi.
Pan. Voi dipendete da lui, voglio dire?
Ser. Dipendo dal mio signore.
Pand Servite un nobile gentiluomo; forza è ch’io lo lodi.
Ser’. Gli Dei ne siano benedetti.
Pan Voi mi conoscete, non è vero?
Ser. Un poco; superficialmente.
Pan Conoscetemi di più, amico: sono Pandaro.
Ser. Spero di conoscervi meglio.
Pan Lo bramo.
Ser. Voi siete in istato di grazia. (musica al di dentro)
Pan. Grazia? No; solo in istato d’onore. Ma che musica è cotesta?
Ser. Non la conosco che in parte; è musica divisa in parti.
Pan. Conoscete gli esecutori?
Ser. Quelli li conosco in tutto.
Pan. Per chi suonano?
Ser. Per gli ascoltanti.
Pan. Per piacere di cui?
Ser. Per mio, e di quelli che amano la musica.
Pan. Ma chi gliene comandò, volli dire?
Ser Comandò? Non v’intendo.
Pan. Non ci intendiamo l’uno coll’altro. Io son troppo semplice e tu troppo maligno. A inchiesta di cui si eseguisce quella musica?
Ser. A inchiesta di Paride, mio signore, che vi è presente insieme colla Venere mortale, il puro fiore della bellezza, l’anima invisibile dell’amore...
Pan. Chi, mia nipote Cressida?
Ser. No, signore, ma Elena; non l’indovinasti a tali lodi?
Pan. Parrebbe, amico, che tu non avessi veduto la donzella Cressida. Io venni a parlare con Paride per incumbenza del principe Troilo: gli farò mille cerimonie, come è ben giusto.
Ser. Cerimonie! Le vostre frasi, signore, son tanto asiatiche da muovere fastidio. (entrano Paride ed Elena con seguito)
Pan. Gioia a voi, signore, e a tutta questa bella brigata! Bei desiderii vi allietino tutti, e specialmente voi, vaga regina, a cui auguro divengano guanciali al sonno pensieri dolcissimi!
El. Caro signore, siete pieno di belle parole.
Pan. Piace a voi di dirlo, amabile regina. — Vaghissimo principe, perchè fu interrotta sì bella musica?
Par. Foste voi che la interrompeste, cugino; e sulla mia vita! la rannoderete, o vi sostituirete un lavoro d’invenzione. — Mia cara, egli ha una voce piena d’armonia.
Pand. Oh! Non è vero.
El. Signore...
Pan. In verità la mia voce è roca.
Par. Scusa volgare.
Pan. Cara signora, dovrei dire una parola a Paride. — Volete voi ascoltarmi, cugino?
El. No, così non ve ne trarrete; vogliamo udirvi cantare.
Pan. Voi celiate con me, dolce principessa. — Ma veramente, signore... caro signore, e stimabilissimo amico, vostro fratello Troilo...
El. Messer Pandaro, buon signore...
Pan. Proseguite, amabile regina, proseguite... (a Par.) si raccomanda a voi coi termini più affettuosi.
El. Voi non ci priverete della nostra melodia. Se questo fate, la nostra malinconia ricada sulla vostra testa.
Pan. Dolce regina, cara regina; quest’è un’amabile regina in verità.
El. Rendere malinconica una signora, è imperdonabile colpa.
Pan. Ciò non vi servirà; è inutile. Non curo tali parole, no, no.
El. Signor Pandaro...
Pan. Che dice la mia regina? la mia tanto amabile regina?
El. Signore...
Pan. Mio cugino si sdegnerà con voi. Voi dovete sapere dov’egli cena.
Par. Pongo la mia vita ch’egli è con Cressida.
Pan. Oh no, no, mal vi apponete: ella è inferma.
Par. Ah! ben indovino.
Pan. Indovinate? Che cosa? Datemi nn istrumento. A noi, regina.
El. Questa è vera cortesia per parte vostra.
Pan. Mia nipote è orribilmente innamorata di una cosa che voi possedete, bella regina.
El. Essa l’avrà, purchè non sia il mio caro Paride.
Pan. Egli? No, essa nol vuole. Ella ed egli fan due.
El. Una riconciliazione dopo uno sdegno potrebbe di due far tre.
Pan. Via, via, non vuo’ più udir nulla da voi: vi canterò ora una canzone.
El. Sì, sì, te ne prego. In verità, signore, il vostro preludio è buono. L’amore sia il soggetto del vostro canto: quell’amore che deve tutti tirarne al precipizio. Oh Cupido, Cupido, Cupido!
Pan. L’amore! sì, di esso si canti.
Par. Amore! a meraviglia; di null’altro fuorchè d’amore.
Pan. In verità così comincia la canzone:
«Amore, amore e null’altro che amore, che solo impera e regna sulle anime: assoggettiamoci alla di lui potenza, perocchè nulla sfugge ai dardi ch’egli vibra».
«Veleno mortale non è quello che traspira da esso, ma fuoco arido e crudele che avvampa sempre: gli amanti feriti dal suo dardo, dicono: oimè, io spiro! ma poi si rinfrancano e gridano: ora solo esisto».
«È un’estasi, un delirio; l’amore non è che un dolce tormento. I sospiri mutano a diletto, le speranze a gaudii; desiderii e brame non son che felicità».
El. Amore è questo fin sopra gli occhi.
Par. Non mangia che colombe l’amore: un tale alimento gli infiamma le viscere sì, che poscia ne derivano i caldissimi desiderii.
Pan. Si genera così l’amore? Sì, esso vive di desiderii ardenti e d’ardenti fatti. Ma chi son oggi, caro signore, quelli che combattono?
Par. Ettore, Deifobo, Eleno, Antenore e tutti i prodi di Troia. Io pure mi sarei armato, ma la mia Elena nol volle. Come fu che mio fratello Troilo non pensò di andare al campo?
El. Egli ha altri uffici, voi lo sapete, Pandaro.
Pan. No, in verità, bella regina. Desidero d’udire come si saran comportati oggi. — Voi poi farete le scuse di vostro fratello.
Par. Questo farò.
Pan. Addio, dolce regina.
El. Raccomandatemi a vostra nipote.
Pan. Sarete obbedita, dolce regina. (esce; suona una ritirata)
Par. Ritornano dal campo: andiamo da Priamo ad onorarci guerrieri. Cara Elena, bisogna ch’io vi preghi, perchè m’ajutiate a disarmare il nostro Ettore; le tenaci squame della sua armatura, toccate dalle vostre mani d’alabastro, cederanno meglio che nol farebbero all’acciaro tagliente, o alla forza dei muscoli greci. Voi sarete più potente, che nol siano tutti quei re, per disarmare l’illustre eroe.
El. Andrò superba. Paride, dell’onore di servirlo, e trarrò più gloria dagli omaggi che gli offrirò, che da quelli che la mia beltà mi fa ottenere.
Par. Oh mia cara! io vi amo sopra ogni cosa. (escono)
SCENA II.
L’orto di Pandaro.
Entrano Pandaro e un Domestico da diverse parti.
Pan. Ebbene, dov’è il tuo signore? Da mia nipote Cressida?
Dom. No, egli v’aspetta perchè ve lo conduciate. (entra Troilo)
Pan. Viene qui. — Ebbene, in quale stato sono le vostre cose?
Troil. Tu esci, (esce il Dom.)
Pan. Avete veduta mia nipote?
Troil. No, Pandaro: ho errato intorno alla sua porta come un’anima straniera sulle rive dello Stige aspettando la barca. Sii tu il mio Caronte, e celeremente trasportami a quei campi, dove potrò riposarmi sopra letti di gigli, destinati ai mortali che ne son degni! Oh gentil Pandaro! rapisci all’amore le sue dipinte ali, e vola con me verso Cressida!
Pan. Passeggiate per questi orti: io la farò venir qui in un istante. (esce)
Troil. Sono fuori di me; l’aspettativa mi fa provare le vertigini. Il piacere che già gusto coll’imaginazione è così dolce, che tutti i miei sensi si esaltano. Che sarà dunque allorchè mi abbevererò a larghi sorsi del celeste nettare dell’amore? Ne morrò, ben lo temo. L’eccesso del sentimento logorerà la mia vita, un impeto violento sarà al disopra delle mie forze, e mi farà soccombere: sì, io ciò molto temo, e temo ancora la lotta delle mie sensazioni, che mi toglierà il sentimento distinto dei gaudii, che investiranno la mia anima, come i vincitori investono un nemico che fagge. (rientra Pandaro)
Pan. Ella si avvicina: sarà qui fra poco. Ora bisogna che poniate in opera tutto il vostro spirito, perocchè ell’è sì timida e sì tremante, che si direbbe l’avesse sbigottita uno spettro. Torno da lei. Oh è pur bella! Il suo alito è dolce come è quello di un animaletto fra le mani del cacciatore che lo ha preso. (esce)
Troil. La medesima commozione s’impadronisce di me; il mio polso si altera più di quello d’uom preso da febbre; i miei sensi smarriscono la loro energia, come un suddito tremante dinanzi agli occhi del suo signore. (entrano Pandaro e Cressida)
Pan. Vieni, vieni, che giova l’arrossire? Il pudore è un fanciullo. — Eccola qui: giurate a lei quello che giuraste a me. — Che! siete voi di già partito? Avrete dunque anche voi mestieri che io vi faccia coraggio? Avanzatevi con baldanza. Perchè non le parlate? — Alzati tu questo velo, e mostragli i tuoi lineamenti. Oimè! come siete entrambi paurosi. Se fosse di notte credo che vi avvicinereste con maggior sollecitudine, ma voi temete di offendere il lume del dì. Su, su, svegliatevi, e date un bacio a questa fanciulla; sia un bacio arra del contratto; lavora qui, carpentiere, che il clima è salutifero. Oh! i vostri cuori si logoreranno in mutui impeti di amore prima che io vi divida. Avvicinatevi, avvicinatevi.
Troil. Voi m’avete tolto l’uso della parola, donzella.
Pan. Le parole non pagano alcun debito; datele fatti invece: ma ella ve ne torrebbe pure la potenza, se ponesse la vostra operosità alla prova. Statevi ora così vicini: va bene. In attestato di che le due parti mutuamente... entrate, entrate; vo’ a procacciarmi un po’ di fuoco. (esce)
Cres. Volete entrare, signore?
Troil. Oh Cressida! quante volte ho desiderato di essere dove son ora.
Cres. Desiderato, signore? Gli Dei vi concedano tutto quello di cui avete voglia.
Troil. Che cosa mi dovrebbero concedere? Che volete voi dire con queste dolci parole? Che cerca la mia Cressida, scrutando così addentro nella sorgente del nostro amore?
Cres. Più feccia che acqua, se il mio timore non m’inganna.
Troil. Il timore fa d’un nume un demonio: non mai il timore vede il vero.
Cres. Il timor cieco, quando la ragione chiaro veggente lo guida, va con passo più sicuro della ragione stessa, che senza il timore smarrisce la via. Il temere il peggio salva spesso da quello.
Troil. Ah! ninn timore abbia la mia Cressida: nelle feste di Cupido non entrano mostri.
Cres. Nè cose mostruose?
Troil. Nulla, fuorchè i nostri vani ingegni. Allorchè noi facciam voto di versare un oceano di lagrime, di vivere in mezzo alle fiamme, di domar le tigri, di divorare gli scogli credendo che sia più difficile per le nostre amanti l’imaginare prove tanto forti, che a noi il trionfarne, allora solo nominiamo le cose mostruose dell’amore: ma è che la volontà è infinita e il potere limitato; il desiderio immenso e l’esecuzione schiava della materia.
Cres. Si dice che gli amanti giurino d’eseguir più cose, che non possono compierne, e che tengono nondimeno in riserva mezzi ch’essi non adoprano mai, promettendo di fare più di dieci volte quello che non fanno pur una. Esseri che han la voce dei leoni, e la debolezza dei lepri, non sono forse mostri?
Troil. Siam noi quel che dite? No, tale pittura è ingiusta. Conformate le vostre lodi a quanto sapete di noi; concedeteci quel grado di merito che ci appartiene: la nostra testa resterà nuda fino a che il merito la coroni; niuna perfezione futura raccoglierà elogi maggiori; e senza usare molti titoli fastosi, venga riposta una sincera fiducia nell’onor nostro. Troilo apparirà per Cressida tale, che tutto quello che l’invidia potrà inventare di peggio sarà di schernire la sua fedeltà, e tutto ciò che la verità potrà dire di più vero non sarà più sincero di Troilo.
Cres. Volete entrare? (rientra Pandaro)
Pan. Ancora arrossite? Non avete ancor finito di discorrere?
Cres. Zio, tutte le follie che faccio, le consacro a voi.
Pan. Ve ne ringrazio, e se Troilo ottiene un figlio col vostro ministero, me lo darete. Siategli fedele, e s’ei vi abbandona sdegnatevene solo con me.
Troil. Voi conoscete ora i vostri ostaggi; la parola di vostro zio è la mia ferma fede.
Pan. Porrò senza timore una parola anche per lei: le fanciulle della nostra famiglia son difficili ad arrendersi, ma una volta ottenute divengono costanti sino alla morte.
Cres. L’ardire mi torrna, e mi fa tale da dirvi, Troilo, che vi ho amato giorno e notte, per lunghi mesi pieni di noia.
Troil. Perchè era dunque la mia Cressida così difficile a lasciarsi vincere?
Cres. Dite a parer vinta: fin dal primo giorno, che... ma perdonate... se troppo vi dicessi potreste diventare un tiranno. Io vi amo ora, ma fino a questo momento non vi ho tanto amato da non esser signora dell’amor mio. Oh! in verità io non dico il vero, perchè anche prima i miei desiderii erano così ribelli, che non poteva più raffrenarli. Mirate follia! Perchè ho io parlato? Chi sarà cauto per noi, se non sappiamo pur conservare i nostri segreti verso di noi medesimi? Ma quantunque io vi amassi non vel dimostravo, e nondimeno, lo giuro, desideravo allora di essere un uomo, o che le donne avessero il privilegio che hanno gli uomini di far prime le dichiarazioni. Mio amico, vietami di parlare, perchè nell’estasi in cui ora sono, mi sfuggiranno certamente cose, di cui poscia avrò a pentirmi. Il vostro silenzio, la vostra astuta discrezione sorprendono la mia debolezza, e mi traggono il segreto più profondo dell’anima. Chiudetemi la bocca, ve ne supplico.
Troil. Lo farò, malgrado la dolce musica che ne esce. (dandole un bcuno)
Pan. Bene, in verità!
Cres. Signore, scusatemi, io non intesi di chiedervi un bacio, e ne arrossisco. Oh Cielo! che ho io fatto? Per ora mi accommiaterò da voi, signore.
Troil. Accommiatarvi, Cressida?
Pan. Accommiatarvi? Oh! se ve ne andrete prima di dimani mattina...
Cres. Ve ne prego, siate pago.
Troil. Che cosa vi offende, signora?
Cres. La mia stessa compagnia.
Troil. Voi non potete fuggir voi stessa.
Cres. Lasciate ch’io me ne vada, e ne faccia prova: ho una parte di me che rimane vosco, ma irata, scontenta perchè sa che sarà da voi beffata. Vorrei andarmene: ma dov’è la mia ragione? Non so più quel ch’io mi dica.
Troil. Ben sa quello che dice, chi parla con tanta saviezza.
Cres. Forse, signore, ho mostrato più astuzia che amore, e ho fatto si grande confessione solo per ispegnere i vostri desiderii. Ma voi siete saggio, o non amate: perocchè unire la saviezza all’amore è oltre il potere dell’uomo: tale prodigio è riserbato solo agli Dei.
Troil. Oh! così potessi credere ch’è in potere della donna, (e se possibile ciò è, lo sarà solo per voi) di alimentare sempre i fuochi dell’amore; di mantenere la costanza in uno stato permanente di vigore e di giovinezza che sopravviva alle attrattive della beltà, e fine non abbia che nel sepolcro. Oh quanto sarà allora felice per tal convinzione! Ma oìmè! io sono schietto come la verità, e più semplice anche della verità nella sui infanzia.
Cres. Lotterò di costanza e di fedeltà con voi.
Troil. Eroica lotta, qaando la virtù combatte contro la virtù, per sapere dove di più se ne asconda! I fidi pastori nei secoli futuri attesteranno la loro fede nominando Troilo, e qaando nei loro versi, pieni di giuramenti, avranno esaurite tutte le comparazioni e stanchi ne saranno per troppo ripeterle; quando dichiarato avranno che il loro cuore è puro come l’acciaio, fedele come lo sono le piante all’influenza della luna, come lo è il sole al giorno, la tortora al suo compagno, il ferro alla calamita, la terra al centro dell’universo; dopo tutte quelle similitudini adoprate per esprimere la loro fede, il nome di Troilo coronerà le loro rime, e consacrerà i loro canti, come quello del più celebre campione dell’amore.
Cres. Possiate voi in ciò predir l’avvenire! S’io sono perfida, e che m’allontani pur d’un’ombra dalla mia fede, allorchè tempo incanutito avrà dimenticato se stesso, allorchè le pioggie logorate avranno le mura di Troia, e dal cieco obblìo saran state ingoiate città e Stati potenti, allora la memoria delle donne infedeli risalga fino a me, e mi rimproveri la mia slealtà! Dopo che si sarà detto: incostante come l’aria, falsa come l’acqua, volubile come il vento, crudele come la volpe lo è all’agnello, il lupo al nato della giovenca, il leopardo al capriuolo, o la madrigna al figlio non suo, si aggiunga allora per accennare una perfidia che tutte le superi: Perfida come fu Cressida!
Pan. Il patto è concluso; suggellatelo ora, ed io servirò da testimonio. Prendo da una parte la vostra mano e dall’altra quella di mio nipote; se mai divenite infedeli l’uno all’altro, dopo le pene che ebbi per unirvi, tutti gli agenti dell’amore siano fino alla fine del mondo chiamati col nome mio. Tutti gli uomini incostanti vengano detti Troili; tutte le donne perfide Cresside, e tutti gl’intriganti d’amore Pandari. Dite entrambi, così sia.
Troil. Così sia!
Cres. Così sia!
Pan. Così sia! Ora vi additerò una stanza da letto; venite meco. Cupido procuri a tutte le fanciulle mute un letto, una camera e un Pandaro che le contenti. (escono)SCENA III.
Il campo Greco.
Entrano Agamennone, Ulisse, Diomede, Nestobe, Ajace, Menelao e Calcante.
Cal. Principe, le cose nostre mi obbligano a parlare, e a reclamare la ricompensa del servigio che vi ho reso. Debbo rammentarvi che, grazie al mio talento di leggere nell’avvenire, ha abbandonata Troia a Giove, ho perduta ogni mia dovizia, e chiamato sono stato traditore, soggettandomi a una incerta sorte invece dei vantaggi e della fortuna di cui ero sicuro possessore, e per divenirvi utile ho rinunciato agli amici, e a tutti quegli agi che l’abitudine aveva fatti così necessarii per me. Vi prego quindi di farmi presentire i vostri beneficii con qualche grazia, che garante mi sia delle ricompense dell’avvenire.
Ag. Che desideri da noi, Troiano? Fa la tua dimanda.
Cal. Voi avete un troiano prigioniero, chiamato Antenore che prendeste ieri: Troia collega molto prezzo alla di lui persona. Voi avete molte volte (e ricevetene i miei ringraziamenti) chiesta mia figlia Cressida in cambio d’illustri captivi che Troia v’ha sempre rifiutati: ma quest’Antenore, lo so, è loro così necessario, che tutti i loro negoziati senza la di lui abilità verranno meno ed essi darebbero forse un principe del sangue reale, uno dei figli di Priamo, per riavere costui. Rimandatelo, guerrieri illustri, nella sua città, ed ei serva di riscatto a mia figlia, la di cui presenza vi sdebiterà d’ogni servigio ch’io avessi potuto rendervi.
Ag. Diomede lo riconduca a Troia e guidi a noi Cressida: Calcante otterrà quanto impetra. — Nobile Diomede, apprestatevi a concludere con onore tal cambio, e annunziate di più a Troia, che se Ettore brama dimani far prova di sè, Ajace gli andrà incontro.
Diom. Codesto farò, ed è messaggio di cui mi glorio.
(esce con Calcante. Achille e Patroclo compariscono dinanzi alle loro tende)
Ul. Veggo Achille all’entrata della sua tenda: passiamogli dinanzi con aspetto indifferente, come s’ei fosse obbliato da noi, e voi, principi, guardatelo tutti senza porgergli alcuna attenzione. Io passerò ultimo, ed è facile che mi fermi per chiedermi da che proceda tanta indifferenza. Se ciò fa, ho una risposta pronta pel suo orgoglio che potrà produrre buon effetto.
Ag. Seguiremo la vostra idea, e alcuno di noi nol saluterà, o lo saluterà solo con disprezzo, ciò che lo irriterà anche di più. Ve ne darò l’esempio.
Ach. Che! Viene il generale per favellarmi? Voi sapete la mia risoluzione; io non combatterò più contro Troia.
Ag. Che dice Achille? Vuol egli qualche cosa da noi?
Nest. Volete qualche cosa dal generale, signore?
Ach. No.
Nest. Nulla, signore, (ad Ag.)
Ag. Meglio così. (esce con Nest.)
Ach. Buon giorno, buon giorno. (a Menelao)
Men. Ebbene? ebbene? (esce)
Ach. Mi schernisce forse quello sposo oltraggiato?
Aj. Come ti senti, Patroclo?
Ach. Buon giorno, Ajace.
Aj. Ah!
Ach. Buon giorno.
Aj. Sì, e buon dimani ancora. (esce)
Ach. A che accenna ciò? Non conoscono essi più Achille?
Patr. Ne passarono davanti con molta indifferenza: solevano farci un saluto profondo, e indirizzarvi graziosi sorrisi, e quel rispetto che si mostra in faccia agli altari.
Ach. Son io decaduto repentinamente dalle mie glorie? Certo è che la grandezza, una volta che viene rinnegata dalla fortuna è sconosciuta anche dagli uomini. Il mortale invilito legge la sua condanna negli occhi altrui, perchè gli uomini, come le farfalle, non dispiegano le loro bianche ali che ai raggi dell’estate; e l’uomo nella sua sola qualità d’uomo non riceve alcun omaggio: egli non è onorato che per ciò che non gli appartiene, ricchezze, gradi, favori, che la ventura dà più spesso a caso che a ragione. Quando tali onori deperiscono tutto crolla e s’inabissa con lui. Ma questo non è il mio caso: la fortuna ed io siamo amici; io fruisco di quanto possedevo, ad eccezione degli sguardi di costoro che da quanto mi parve trovano adesso in me qualche cosa che non è più degna delle loro adulazioni. Ecco là Ulisse che legge. L’interromperò. — Ulisse?
Ul. Che vuole il gran figlio di Teti?
Ach. Cosa leggete?
Ul. Un uomo strano mi scrive, che per quanto ricco sia un mortale in beni esteriori, o in doti personali, egli non può mai vantarsi di quello che ba, perocchè non ha di qaanto possiede che il sentimento che viene in lui riflettuto dagli altri: lo splendore delle sue virtù illumina e riscalda gli altri, e gli altri rimandano a volta loro quel calore all’uomo da cui è emanato.
Ach. Non vi è nulla in ciò di strano, Ulisse. La bellezza di un viso non è conosciuta da quegli che lo possiede, È dagli occhi altrui, ch’esso impara a conoscersi: l’occhio non può vedersi da sè, ma ad altr’occhio opponendosi, in quello effigia la sua bella forma: in ciò, vel ripeto, non è nulla di strano.
Ul. Non stupisco della proposizione; essa è familiare: ma mi fermo alle conseguenze che se ne possono trarre. Nell’illustrazione di tale prova si dimostra che l’uomo non possiede nulla, quali che si siano le sue ricchezze, fino a che ei non le comunica ad altri; da se stesso ei non può apprezzarle sin che approvate non le ha vedute da quelli ai quali si estendono; così una porta d’acciaio, opposta ai raggi del sole, riceve e tramanda la sua immagine e il suo calore. Queste idee mi hanno immerso nella meditazione, e ne ho fatto tosto l’applicazione a quell’Ajace, ignoto ancora a noi, e a se stesso. Cielo! che specie d’uomo è colui? Un vero cavallo che porta un tesoro che non conosce. Oh natura! quante qualità stanno in quell’individuo, da noi disprezzato, che potrebbero divenire preziose coll’uso! Quante cose all’opposto, che si usurpano stima, e che sono di un inutile valore! È dimani che vedremo una lotta che il caso ha affidata a lui, e in cui egli diverrà famoso. Cielo! quanti uomini s’arrampicano su per le erte vie della fortuna, mentre altri, che porrebbero ascenderle con passo sicuro, si giacciono inoperosi. Ajace avendo assunto di rispondere alla sfida di Troja è divenuto l’idolo di tutto l’esercito
Ach. Credo quello che mi dite, perchè essi mi son passati accanto, come uomini avari passerebbero innanzi a un mendico: non mi hanno rivolte nè parole, nè sguardi cortesi. Sarebbero le mie geste già obbliate?
Ul. Il tempo, signore, porta sul dosso una bisaccia, in cui pone le elemosine che raccoglie per l’obblio; gigante enorme, mostro d’ingratitudine. Quelle limosine sono le buone opere passate, che si estinguono nel nascere, che si dimenticano compite; la perseveranza solo, signore, e di onore; aver fatto, è come esser fuori di moda, in quella guisa che una spada arrugginita è soggetto solo di scherno. Prendete il cammino che vi si offre; avvegnachè l’onore percorre un sentiero sì angusto che non vi può passare che un uomo alla volta; conservate il passo. L’emulazione ha mille figli che si seguono e si incalzano l’un dopo l’altro. Se cedete loro il cammino, e se vi allontanate dalla strada diretta, simile al flusso entrato una volta in una baia, essi tutto invaderanno, e vi lascieran ultimo: voi resterete come un generoso cavallo di battaglia, caduto in prima fila, che pesto dal retroguardo rimane immobile e giacente. Così quello che altri fanno ora, sebbene al disotto delle passate vostre opere, le soverchierà necessariamente. Il nuovo venuto è accolto con un sorriso, e quegli che s’allontana non ha che un sospiro che l’accompagna. La virtù non cerchi ricompensa per quanto compiè; il tempo invidioso distrugge tutto. La natura ha fatto in ciò tutta simile la razza umana; il presente si ammira, il passato si obblìa. Non istupite quindi, illustre eroe, se i Greci onorano ora tanto Ajace. Gli applausi che vi seguivano altra volta vi seguirebbero ancora, se non voleste starvene sempre chiuso nella vostra tenda, ripudiando un valore che aveva fatto di voi invidi gli Dei.
Ach. Ho grandi ragioni per praticare questa condotta.
Ul. Ma le ragioni che vi condannano a simile inoperosità doebbero essere ben apprezzate da un eroe. È noto, Achille, che voi siete amoroso di una figlia di Priamo.
Ach. È noto?
Ul. Qual meraviglia? un saggio governo conosce tutto quella che avviene sotto di lui; sappiamo al pari di voi ogni vostra corrispondenza con Troja. Ma meglio si addirebbe ad Achille l’atterrar Ettore che Polissena; e ciò che più affliggerà il giovine Pirro, rimasto nelle nostre isole, quando la fama bandirà al mondo le nostre opere, sarà di vedere tutti i Greci danzare cantando: Achille ha vinta la sorella del grand’Ettore ma l’illustre Ajace ha atterrato l’eroe. — Addio, signore, vi ho parlato da amico: un pazzo scorre sul ghiaccio che voi solo avreste dovuto rompere. (esce)
Patr. Vi aveva dato il medesimo consiglio. Achille. Una donna impudente non ispira maggior avversione e disprezzo di un uomo che al momento dell’azione permane in un riposo effemminato. A me pure, a cagion vostra, tocca una parte di biasimo; i Greci credono, che è il poco ardore ch’io sento per la guerra, e l’amicizia che voi mi portate, che così mi ritengono. Amico, toglietevi da tal sonno, e il debole Cupido vi scioglierà dalle sue braccia, o voi lo scaccierete lungi, come un lione scaccia un timido agnello.
Ach. Ajace dunque combatterà Ettore?
Patr. Sì, e ne raccoglierà molta gloria.
Ach. La mia fama è in gran pericolo.
Patr. Pensate a questo. Le ferite che l’uomo si fa da se stesso difficilmente risanano. Trascurando i doveri necessarii, noi ci esponiamo a gravi mali.
Ach. Va, caro Patroclo, cerca Tersite, e conducilo qui. Lo manderò da Ajace, e farò che inviti i duci troiani a venirne da noi dopo il combattimento. Ho un gran desiderio di veder Ettore disarmato, e di studiarne bene ogni lineamento. — Ma sta, non vale. (entra Tersite)
Ter. Prodigio!
Ach. Che?
Ter. Ajace erra su e giù pel campo in cerca di se medesimo.
Ach. Come questo?
Ter. Ei deve dimani combattere contro Ettore, e va così superbo delle percosse che ne riceverà, che è già assorto in un muto delirio.
Ach. Oh, in che modo?
Ter. Egli procede a lenti passi, stendendo tutta la pianta del piede per terra, come un pavone: si arresta, rumina fra di sè, come un’ostessa che non sa fare il conto di uno scotto; si morde i labbri con malignità, quasi volesse dire: «ci sarebbe spirito in questo capo, se vi fosse chi si desse la briga di cercarvelo»: o vi è infatti, ma così nascosto e così freddo, come la scintilla nella selce, dalla quale non scaturisce che coi colpi. Quella è un uomo irrevocabilmente perduto, perocchè se anche Ettore non lo uccide nel combattimento, ei si ucciderà da sè per soverchianza d’orgoglio. Già più non mi riconosce; gli ho detto: buon giorno, Ajace, ed ei mi ha risposto: grazie Agamennone. Che vi sembra? Egli è diventato un pesce di terra senza voce, un mostro muto. Dannazione all’opinione popolare! quand’un uomo se ne riveste, ei va sempre in rovina.
Ach. Tu andrai da lui, Tersite.
Ter. Io? Ma egli non vuol rispondere ad alcuno; si piace in non rispondere; il parlare è cosa da vulgo; egli ha la lingua nelle braccia. — Vuo’ imitarlo dinanzi a voi: Patroclo m’interroghi, ed io rifarò Ajace.
Ach. Interrogalo, Patroclo; digli: «prego umilmente il prode Ajace perchè inviti il valorosissimo Ettore a venirne disarmato nella mia tenda, e perchè gli procacci un salvocondotto del magnanimo, illustre, e sei o sette volte onorevole generale dell’esercito greco, Agamennone». — Digli ciò.
Patr. Giove colmi di bene il grande Ajace.
Ter. Hum!
Patr. Mi commise Achille...
Ter. Ah!
Patr. Che umilmente ti prega a far sì che Ettore se ne vada alla sua tenda...
Ter. Hum!
Patr. E brama gli procacciate un salvacondotto di Agamennone.
Ter. Agamennone?
Patr. Sì, signore.
Ter. Ah!
Patr. Che ne dite?
Ter. Gli Dei vi benedicano con tutto il cuore.
Patr. Che rispondete, signore?
Ter. Se dimani fa bel tempo, verso le undici la sorte si deciderà per l’uno o per l’altro; ma egli me la pagherà prima d’avermi preso.
Patr. La vostra risposta, signore.
Ter. Addio con tutto il cuore.
Ach. Ma egli non ha tal tuono!
Ter. No, non ha più alcun tuono, com’io vi dico, nè so qual musica si troverà in lui, allorchè Ettore gli avrà spaccato il cranio; ma sono sicuro che non se ne potrà trarre nessun accordo, a meno che il menestrello Apollo non prenda i suoi nervi per distenderli sopra un’arpa Eolia.
Ach. Devi recargli una pergamena tosto.
Ter. Datemene anche un’altra pel suo cavallo, che è più ingegnoso di lui.
Ach. La tua mente è turbata come una fontana commossa, e non ne posso scorgere il fondo. (esce con Patr.)
Ter. Piacesse al Cielo che la fontana della vostra mente fosse purificata, ond’io potessi lavarvi un ciuco! Vorrei esser piuttosto una scrofa che aver tal dose di valorosa ignoranza. (esce)