Teresa/VII
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VII.
— È troppo sensibile — disse la signora Rosa — somiglia tutta alla sua mamma, benedetta donna.
E lo zio, accomiatandola, le sussurrò piano:
— Sta allegra, tutto passa. Questo, vedi, — additò le proprie gambe inferme e i capelli bianchi — è il solo male per cui non c’è rimedio.
Teresina sorrise a fior di pelle; in fondo al suo dolore sentiva pur anche gl’inviti della giovinezza; e le illusioni cantavano in lei più alto, più forte della breve esperienza umana.
Prima di partire lo vide. Egli aspettava davanti alla Posta il passaggio della carrozzella. Si ricambiarono uno sguardo appassionato, e per tutto il viaggio Teresina non fece altro che ripensare a quello sguardo.
La strada le parve ben lunga e ben triste; ma quando vide le prime case della sua cittaduzza, l’immagine della mamma e delle sorelle la assorbì quasi interamente.
Passando dalla piazza, si guardò attorno, commossa. Erano le case ben note, la farmacia, il caffè, il palazzo del municipio. Il cappellaio, come il solito, aveva disteso le sue forme di feltro sulle panchine di piazza per farle asciugare; la modista, quella gingillona, stava sulla soglia del suo negozio occhieggiando.
Tutto era abituale, tutto era conosciuto; solo Teresa aveva cambiato; gli oggetti erano quelli ma i suoi occhi li vedevano diversamente.
La signora Soave avvertì subito il cambiamento della figlia.
— Come ti sei fatta donna — le disse.
E poi seguirono le lunghe ciarle. La piccina l’aveva disturbata assai; non dormiva mai di notte. Le gemelle, capricciose, non le lasciavano pace, stracciavano tutto; gli abiti di rigato rosso e nero mostravano già i gomiti, — vi erano pezze da rattopparli?
Teresina assicurò che v’erano.
Carlino, tanto, era buono. Purchè gli si lasciasse gettare sottosopra la sua camera, piantare trappole per i sorci, rizzare rami coperti di vischio, rompere qualche sedia e andare a spasso, tratto tratto, co’ suoi compagni, si poteva fare la vita.
Teresina ascoltava docilmente, e la signora Soave continuò per un pezzo, poichè i ragazzi erano a scuola, Ida a letto, ed ella aveva un momento di riposo; seduta sul divanino, collo sgabello sotto i piedi, lo sciallino grigio incrociato sul petto, le sue piccole mani gialle l’una nell’altra, ornate sempre coi braccialetti di crine.
— E tu ti sei divertita?
— Sì, mamma.
— Gli zii erano buoni?
— Tanto buoni; specie la zia Rosa, che non va mai in collera, nè mai si lagna di nulla. È felice, non è vero?
— Chi è mai felice a questo mondo!.... Teresina, tu non lo conosci ancora, no, non lo conosci.
Gli occhi neri della signora Soave si volsero desolati al cielo. Teresina aveva un desiderio pazzo di raccontarle il suo segreto, ma in quel momento non osò.
Poco dopo, senza nessun appiglio, come se una forza ignota le cacciasse fuori le parole, esclamò:
— Ho ballato.
— Hai ballato? A Marcaria? Non in casa dello zio, suppongo.
— No, in casa dell’impiegato postale.
— E chi c’era?
— Il dottore, sua moglie, il figlio dell’oste, due ragazze Cacciamali....
L’occasione era favorevole, sulle labbra della fanciulla bruciava il nome di Cecchino: ella non aveva parlato del ballo che per giungere a parlare di lui; voleva dir tutto, tutto alla mamma. Ma quel nome non uscì. Due o tre sforzi ancora rimasero infruttuosi; un nodo inesplicabile le stringeva la gola, e il cuore le batteva disordinatamente.
— Tuo padre è di cattivo umore; non te ne sei accorta? Gli interessi vanno male.
Quali interessi? Teresina non ne sapeva nulla; capì solamente che l’occasione di parlare era passata.
Vennero a casa le gemelle e Carlino insieme.
— Mi hai portato l’usignolo?
Teresina dovette confessare che se n’era scordata, e prendersi in santa pace della storditaccia. Le bambine anch’esse le furono addosso, chiedendole se aveva portato qualche cosa da Marcaria.
— Ma che cosa doveva portarvi, Signore!
Era un po’ indispettita; per la prima volta le sue sorelle le davano un senso di molestia.
Ma le gemelle non si scoraggiavano; l’una da una parte e l’altra dall’altra le si attaccarono alle gonne, accarezzandola, frugandola, a tal punto che scoprirono nella tasca, il grosso confetto. Allora non si fermarono più.
— Rendetemi il mio confetto — gridava Teresina esasperata.
Non era nemmeno da sperarlo; le bambine se lo contendevano a pugni.
— Voglio il mio confetto — replicò Teresina, colle lagrime agli occhi, facendo atto di impadronirsene a viva forza.
La signora Soave che, sulle prime, aveva creduto che Teresina scherzasse, vedendola così incollerita, non potè fare a meno di rimproverarla, dolcemente. Come mai poteva ella lasciar piangere le bambine per un confetto!
La fanciulla comprese la giustizia del rimprovero e una viva gamma di vergogna le salì alle guancie. Non disse più nulla, lasciando che il confetto venisse spaccato equamente fra le gemelle, mentr’ella soffocava i singhiozzi, col grembiale sulla faccia.
— Un biglietto, un biglietto! — gridarono le bimbe.
— È un confetto parlante — disse Carlino.
Teresina guardò, attraverso il grembiale, e vedendo Carlino che si precipitava sul biglietto, balbettò:
— Almeno quello, datemelo.
— Prima lo leggo.
— No, è mio.
— Non è più tuo.
— Sì.
— No.
Teresina era ripresa dalla collera, dal dispetto, dalla desolazione di perdere così l’unica memoria che le restava del ballo.
Carlino lesse forte, declamando con accento burlesco: Ricorda, tiranna — dal cuore crudele, — l’amante fedele — che muore per te.
Teresina, di cui il cuore scoppiava, tese bruscamente la mano: Carlino, con eguale prontezza, ritrasse la sua; il biglietto si lacerò.
Incapace di dominarsi più, la fanciulla corse a chiudersi in camera, dove ebbe una vera convulsione nervosa.
Per tutta l’estate si cullò in quel pensiero d’amore, accarezzando illusioni stravaganti. Si immaginava, talvolta, di veder passare il signor Cecchino nella via di San Francesco, o che si aggirasse incognito nei dintorni, spiando l’occasione di vederla. Forse riceverebbe una lettera. Forse egli si disponeva a venire a chiederla in isposa.
Tutte queste fantasticherie la tenevano molto occupata, cambiavano affatto l’ordine delle sue idee.
Cominciò in quel torno a leggere qualche romanzo sotto l’occhio indulgente della mamma.
— Non c’è nulla di vero, sai? — diceva languidamente la signora Soave — la vita non è come la descrivono nei libri; ma alla tua età leggevo volentieri anch’io. Cose di gioventù!
Una volta, che giunse una lettera dello zio di Marcaria, Teresina credette di impazzire; e poichè la lettera era stata messa sul tavolo dell’esattore, nel suo studiolo, ella vi faceva la ronda impaziente, guardandola, toccandola, osservando se mai nella busta vi fossero delle trasparenze indiscrete.
Quando il signor Caccia, inforcando gli occhiali, ruppe il suggello di gomma e presa conoscenza in un batter d’occhio delle brevi parole contenute, pose la lettera in tasca, Teresina rimase a bocca aperta, col cuore sospeso — e poichè il signor Caccia si allontanava, ebbe il coraggio strano di corrergli dietro.
— Non dice niente?
L’eh? imperativo del padre e le terribili sopracciglie aggrottate, la fecero rientrare in sè, tanto che soggiunse confusa, tremante per la menzogna:
— C’è un saluto per me... della zia Rosa?
Spesso, alla sera, quando aveva coricate le gemelle e ch’ella stessa, recitate le orazioni, stava per mettersi a letto, si fermava, mezzo svestita, sulla sponda del materasso pensando a quella sera.
Se passava un organetto, intanto ch’ella cuciva giù abbasso, sul gradino di legno accanto alla finestra, quel suono improvviso la scuoteva tutta, ricordandole emozioni deliziose.
Nei caldi pomeriggi di luglio, durante la passeggiata sull’argine, e, più tardi, in piazza dove i giovani del paese facevano l’olio, ella intuiva il segreto di quegli andirivieni, delle fermate, delle parole tronche, dei segni misteriosi. C’era Luzzi, Boccabadati, il tenente dei carabinieri, il farmacista; qualche volta Orlandi, due o tre altri, e in mezzo a tutti, Teresina cercava avidamente, inutilmente.
A novembre, nell’occasione della fiera, si aperse il teatro, con una compagnia di canto discreta. Si dava il Rigoletto.
Carlino che vi era andato una volta, in loggione, dove si pagavano ottanta centesimi, cantarellava i pezzi principali dell’opera. Sua sorella lo stava ascoltando, per ricantarli a bassa voce, senza dimenticare le parole. La dichiarazione d’amore del duca a Maddalena le piaceva, ma più ancora e soprattutto le piaceva l’aria di Gilda, Tutte le feste al tempio.
Voleva che Carlino le spiegasse chi era Rigoletto, e chi il giovane che sua figlia incontrava al tempio.
Carlino dava qualche particolare, brusco, grossolano; descriveva la faccia terribile di Sparafucile e la gobba ridicola del buffone.
— Ma Gilda, Gilda?
Faceva spallucce.
— Gilda miagola come una gatta; e poi le donne, sai, io non le guardo.
Teresina che non si lusingava affatto di poter andare a teatro, provò una gioia come da gran tempo non provava, il giorno in cui la pretora venne a dire alla mamma:
— Ho una chiave di palco per questa sera; ci vado io e mia cognata. Mi lascia venire anche Teresina?
La signora Soave, per delicatezza, osservò che sarebbero state troppo pigiate, tre donne in un palco.
La pretora insistette; ma occorreva persuadere il signor Caccia, perchè senza il suo consenso non si faceva nulla. Tra gli argomenti della pretora c’era questo: che Teresina era ormai una giovane fatta e, se volevano maritarla, bisognava pure che si facesse vedere.
Il signor Caccia, brontolando, acconsentì. Sorsero ancora alcune piccole difficoltà riguardo all’acconciatura. La signora Soave disse che Teresina non aveva un abito adatto; ma anche qui la moglie del pretore tagliò il nodo, assicurando che una ragazza, quando è pettinata bene, con un paio di guanti freschi e con un fiore, può andare dappertutto.
Finchè la questione pendeva, Teresina stava come sulle spine; ma quando alla fine ogni intoppo fu levato, ed ebbe la certezza del divertimento che l’aspettava, lasciò libero campo alla gioia.
Abbracciò sua madre, abbracciò la pretora; fece le scale tre o quattro volte, di corsa, senza alcun bisogno; andò alla finestra, aperse cassetti, incominciò un lavoro, lo smise.
— Quella ragazza si monta la testa, — sentenziò il signor Caccia — guai a incominciare.
— Ma è la sua età, Prospero, siamo stati giovani anche noi!
La signora Soave guardò partire sua figlia, intenerita come quando era partita per Marcaria, seguendola coll’occhio umido, pieno di tenerezza e di speranza.
La pretora, che era una donna molto disinvolta, raccomandò a Teresa un contegno spigliato; e la fanciulla, memore di aver già fatta la sua prima comparsa in società, la assicurò che non era più novizia. Si sentiva infatti una certa baldanza sicura. Ma fu tutt’altra cosa quando, affacciatasi al palchetto, vide in giro una triplice fila di lumi, e giù abbasso tutte quelle teste, e su in alto tante altre teste ancora. Le sembrava che tutti la guardassero.
— Ebbene, Teresina, somigli a una statua. Di’ su qualche cosa.
La cognata osservò che era meglio lasciarla rinvenire a poco a poco, finchè si fosse avvezza all’ambiente. Allora le due signore presero a discorrere tra loro, nel fondo del palco. Teresina, davanti, appoggiata al parapetto, guardava la folla, riconoscendo qua e là volti noti.
Ecco in seconda fila le tre sorelle Portalupi, vestite di color canerino, con tre ventagli canerini. Nel palco accanto il sottoprefetto, elegantissimo, distinto, con un paio di polsini che luccicavano come fossero di porcellana, colla sua bella barba da meridionale, divisa in mezzo, e gli occhi miopi impertinenti, che osservavano dappresso le signore.
Tutta la famiglia Arese, le donne in abito di velluto, coi brillanti; gli uomini gravi, compassati, con un po’ di noia dipinta sul volto.
La moglie del sindaco, in abito nero, lo stesso che metteva per andare a messa; venuta per compiacenza, senza intender nulla, sperando che lo spettacolo finisca presto.
In un palchetto di prima fila, don Giovanni, solo, sdraiato su due sedie, sbadigliando.
— Chi è quel signore? — domanda la cognata, che è nuova al paese.
La pretora risponde un tono piú basso:
— È Boccabadati, il gallo della Checca.
— Non ne ha l'apparenza.
— Sicuro, qui! Le conosce tutte. Dicono che venga per il contralto, quella che fa da Maddalena.
— È ricco?
— Abbastanza; ma le donne non glie ne lasciano molti —. Abbassò la voce un altro tono. Vedi quella figura alta, pallida, là in platea?
— Con un velino in testa? e una rosa rossa?
— Appunto. È la modista di piazza. Qualche anno fa egli l’ha... — pausa — e dovette sborsare una bella somma.
— Sì?
— Per il figlio.
Teresina ascoltava, ritta, immobile. Non poteva vedere la modista, che le stava a tergo, ma aveva davanti don Giovanni nella sua sibaritica indifferenza, grasso, florido; già invaso dal torpore che aspetta, sulla quarantina, gli uomini che hanno goduto largamente la vita. Quella gran pace, dopo ciò che aveva udito, la turbava; era segretamente irritata da un mistero che le sfuggiva continuamente.
Un momento ancora, e la sua attenzione era tutta quanta assorbita dallo spettacolo. Non batteva ciglia, non fiatava; appena un personaggio apriva la bocca, ell’era tutt’orecchi, appena uno si muoveva, i suoi occhi lo seguivano attentamente. Calato il sipario, si voltò di botto verso la pretora.
— E Gilda?
— Gilda verrà or ora, al secondo atto.
— Mi pare cattivo quel buffone.
— No, non è cattivo; vedrai in seguito.
— E il duca?
— Ah! il duca... vedrai, vedrai.
Gilda apparve, vestita di bianco, bruttina, ma abbastanza giovane, e con un’aria modesta che piacque subito a Teresa. Cantò bene, con sentimento in luogo di voce, infiorando d’una malinconia soavissima il racconto de’ suoi amori collo studente.
Teresina era rapita in estasi; il bello dell’arte si rivelava al suo cuore, già aperto all’amore. Ella seguì con ansia angosciosa lo svolgersi dell’azione drammatica; si spaventò al ratto di Gilda, pianse con Rigoletto, ebbe sdegno e disprezzo per i cortigiani, e attese, palpitante, il ritorno di Gilda sulla scena.
Qui tornò a stendersi un velo nella sua mente. Fu tentata di chiedere, perché Gilda si mostrasse tanto disperata per trovarsi in casa del duca; un vago istinto le suggerì che la sua domanda era ridicola, e tacque, meditando.
Arse d’ira contro il duca, nella scena del bosco. Maddalena le parve una sguaiataccia, incapace di poter destare amore. Ma la tragica fine di Gilda, intanto che lo scettico passa nel fondo canterellando la sua canzone, quella fine la colpì profondamente. Dovette ritirarsi, nell’ombra, a nascondervi le sue lagrime.
— Che hai, bambina? è possibile tanta ingenuità? Non è un fatto vero, sai? Gilda, a momenti, andrà a cena, pienamente d’accordo col suo amante.
Così la moglie del pretore tentava di acchetare Teresina, senza riuscirvi, perchè la sua commozione aveva un’origine occulta.
La passione intensa di quel dramma d’amore trovava una corrispondenza segreta ed intima nell’anima della fanciulla, a cui l’amore si era rivelato con una sofferenza. Le potenti creazioni di Rigoletto e del duca, la soave figura di Gilda erano più che personaggi; erano sentimenti, erano passioni incarnate e la grandiosità terribile ed umana di tutto quel lavoro si ripercoteva in ogni sua fibra.
Sotto i colpi di quella forte commozione, la natura spirituale della fanciulla si temprava, nobilitandosi, afferrando i contorni di un ideale sicuro. Ella fuse, nel suo pensiero, il proprio amore coll’amore di Gilda. I ricordi, che già principiavano a sbiadire, perdettero l’impronta personale, mescendosi a una quantità d’altre impressioni e ad aspirazioni nuove.
Da quella sera non pensò piú, direttamente, al giovane che le aveva suscitato il primo palpito. Pensò all'amore, vago, misterioso, sterminato: a tutto un mondo tumultuante, non ancora interamente rivelato, ma che le si svolgeva a gradi, con bagliori improvvisi, con rapide ferite, con intuizioni meravigliose, poggiando fra la canzone beffarda del duca e il rantolo di Gilda morente...
VIII.