Teresa/VI
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VI.
Si era svegliata prima di soprassalto, sembrandole di udir piangere le gemelle ed accapigliarsi fra loro; ma accorgendosi dell'errore, sorrise, e ritirando le gambe che aveva già buttate fuori del letto, si rannicchiò dolcemente sotto le lenzuola. Il materasso, molle, sovrapposto a un saccone di piuma, aveva ceduto sotto il suo corpo formando una nicchietta calda nella quale la fanciulla affondava con delizia. Stava voltata di fianco, colle mani raccolte sul petto, i ginocchi un po’ rialzati, la testa abbandonata sul guanciale basso e guardava.
Non vi era nulla di speciale in quella camera; ma per Teresina tutto era nuovo, incominciando dal letto fino alla catinella di una bella terraglia a fiori azzurri. Sulle pareti, quattro quadrettini modesti rappresentavano le avventure di Telemaco; Venere che conduce Amore nell’isola di Calipso vi era dipinta con un vestito rosa, fatto alla vierge è con maniche a sabot. Teresina non pensò se quell’acconciatura andasse o no d’accordo colle tradizioni classiche; vedeva quella bella signora vestita di rosa in mezzo a tante altre vestite di bianco e il giovane Telemaco fra esse; nè le parve che la scena fosse antipatica, tutt’altro.
A casa sua, proprio dirimpetto al letto, aveva una santa Lucia cogli occhi sul piatto: il confronto era tutto a vantaggio delle avventure di Telemaco.
Un leggero fruscìo accanto all’uscio le trasse un grido. La zia Rosa entrò, serena, calma, con una tazzetta di caffè fra le mani.
La vergogna di essere stata sorpresa a letto fece balbettare a Teresina una grande quantità di scuse; ma la zia le arrestò subito, sorridendo, dicendo che alla sua età si dorme volontieri e che doveva essere un po’ stanca per il viaggio del giorno prima.
— Lei però, zia, è già levata...
— Oh! è una cosa differente. Io ho perduto l’abitudine di dormire quando allattavo i bambini, e poi ne avevo sempre qualcuno ammalato; adesso ho il vecchio. Io non dormo più.
Disse: io non dormo più: tranquillamente, con un fondo di torpore perenne, come se la sua vita, tanto di giorno come di notte, non rispondesse che al meccanismo semplice delle funzioni materiali.
Teresina non voleva prendere il caffè, non c’era avvezza. In casa sua solamente la mamma prendeva il caffè.
— Non importa, qui sei forestiera — soggiunse la zia Rosa col suo sorriso buono che incoraggiava.
E quando Teresina lo ebbe preso, per ubbidienza, si sentì i nervi dolcemente sferzati, un benessere in tutto il corpo, un’energia singolare, una strana lucidità di mente. La zia era uscita. Ella riprese la tazzetta che aveva posata sul tavolino con un resto di caffè e la sgocciolò allegramente, succhiandosi le labbra. Poi balzò dal letto come una molla.
Nessuno le faceva premura; la mamma non chiamava «Teresina! Teresina!» con quella vocetta spenta ch’ella conosceva così bene: non le gemelle da pettinare, non da ammannire le colazioni, non le fascie d’Ida da rotolare per benino, non la voce burbera del padre: «Che nessuno tocchi le carte del mio studio!»
Tutta la camera per lei, vuota; una ampiezza sconfinata, un’assoluta libertà.
Incominciò a vestirsi lentamente, gustando il piacere di correre a piedi nudi sul tappetino del corsello e di girellare in sottana, senza busto, rialzando ad ogni po’ lo spallino della camicia che le scivolava sul braccio.
Come erano bianche le sue braccia! Ella non aveva mai avuto tempo di guardarle; le apparivano ora come le braccia di un’altra persona; così sottili, rotonde e bianche. Proprio non sapeva capacitarsi come fossero bianche, mentre il colorito del volto tendeva al bruno ed anche il collo era bruno; solo scendendo sotto la clavicola, dove principiava il petto, il bianco riappariva.
Questa ineguaglianza della sua pelle la sorprese; certo non doveva essere cosa normale, Allora, improvvisamente, fu assalita da un pensiero strano. Era bella o brutta?
Se fosse bella!
Si affacciò allo specchio, e si pose ad esaminarsi così minutamente, da vicino, che il suo fiato appannò il cristallo. Lo pulì subito, pazientemente, prima colla mano e poi colla salvietta, finchè resolo affatto lucente, tornò a guardare il proprio volto riflesso; ma il dubbio non si scioglieva,
Ella non provava, mirandosi, quello stupore che suscita la bellezza; scopriva al contrario, con un po’ di dispiacere, che il suo naso non scendeva dritto e profilato come il naso della zia Rosa, la quale era stata una vera bellezza; nemmeno le sue guancie e il suo mento non avevano quelle linee pure che facevano somigliare la zia ad una statua di marmo.
Era dunque brutta? Teresina stava per venire a tale conclusione, quando data un’ultima occhiata generale che abbracciava l’armonia intera del volto, ne ricevette un’impressione buona, e si sentì consolata. Bella non le sembrava di essere, ma brutta, brutta come le Portalupi, nemmeno.
Cercò un momento una parola, una parola che lei conosceva, che le sembrava applicabile alla propria fisionomia, ma non la trovò subito.
Decise allora di vestirsi e lo fece con una accuratezza insolita, stringendo il busto, osservando bene se i capelli si dividevano eguali da una parte come dall’altra.
— Incomincio a stimarmi anch’io! disse così, sorridendo a sè stessa nello specchio, per l’idea buffa ch’ella potesse stimarsi e restò immobile, colpita dallo scintillio che vide davanti a sè su quelle labbra rosse, tumide, su quei denti di una candidezza abbagliante. Tornò a sorridere. Che cosa bizzarra! — tutto il suo viso cambiava. Faceva dunque quell’effetto lì, lei, quando rideva?
E si sentì invasa da una allegria curiosissima; continuava a ridere, saltellando per la camera, con una voglia di cantare, di ballare, di abbracciare qualcuno.
Ad un tratto si fermò dandosi della scioccherella.
Scese nel cortile, grave, composta, prendendo delle arie da signorina, guardando benignamente il bracco che sonnecchiava lungo disteso nel canile: fece qualche passo nel giardino, chinandosi per fiutare i rosai, seria, come persona che se ne intende.
— Cogli le rose — le gridò a tergo la voce dello zio.
Il vecchione la osservava, affacciato alla finestra del tinello, colle mani scarne appoggiate allo stipite.
Ella colse le rose, scegliendole; lasciando da parte i piccoli boccioli non ancora dischiusi; preferendo le rose piene, carnose, dal grembo cupo e fortemente odorose; le fiutava ad una ad una prima di riunirle in mazzo; le fiutò ancora tutte insieme, a lungo, colla faccia sprofondata in mezzo alle foglie fresche, umettandosi le guancie di rugiada.
— Sono belle, nevvero?
— Bellissime.
Ritornò sui suoi passi, lentamente, cercando ancora fra i cespugli, stringendosi al petto tutte quelle rose che le scappavano dalle dita,
— Fammele vedere.
Teresina si accostò alla finestra dove il vecchione faceva oramai sforzi incredibili per sostenersi ritto e gli presentò le rose, sporgendosi avanti, sfiorandogli colle mani le mani agghiacciate.
Egli barcollò un momento, odorando le rose sul seno della fanciulla, e poi cadde sfinito nel seggiolone col capo ciondolante sovra una spalla.
La fanciulla si spaventò; lasciò cadere tutti i fiori sul davanzale e corse in cerca della zia.
— Un po’ di sfinitezza, niente altro — disse la zia sollevando con braccio esperto la testa del marito.
Un brodo caldo lo rimise del tutto e quando al brodo fu aggiunto un bicchiere di Malaga, gli occhi del vecchio presero a scintillare, a sprazzi, finché restarono immobili, cupidamente attratti dalle rose sparse intorno a lui.
Mezz’ora dopo dormiva.
— Gli uomini — disse placidamente la zia Rosa, infilando le maglie di un pedule — sono molto più deboli di noi.
— Sì? — fece Teresina, incredula.
— Sì.
La zia non aggiunse altro. Quella sillaba racchiudeva un’esperienza lunga, multiforme, sicura. In quella asserzione che sintetizzava la debolezza del sesso forte, c’era tutto quanto il frutto della sua vita trascorsa osservando; osservando calma, dietro il banco del negozio, accanto ai lettini dei suoi sedici figli, nelle ore lente e pazienti della solitudine femminile.
Teresina non poteva comprendere e non comprese; ma rimase sotto l’impressione di un pensiero grave, indeterminato, guardando quei due vecchi: l’uno, decrepito, attaccato rabbiosamente alla vita; l’altra, serena, nel suo indifferentismo; bella, nella calma marmorea delle forme che nessun soffio di passione aveva alterate mai. Lo zio le faceva un po’ di soggezione, e, segretamente, le ispirava un certo disgusto; ma non poteva saziarsi dal rimirare la zia Rosa, seduta coll’imponenza di una romana antica, agitando i ferri, moderatamente, colle mani pienotte, alzando tratto tratto lo sguardo cristallino di una limpidezza d’acqua.
Scrisse alla mamma «la zia Rosa è tanto buona quanto bella.»
Ma chi era il giovinetto lungo e magro, coi calzoni color cannella, che passava alla mattina sotto la finestra, proprio nel momento ch’ella chiudeva le gelosie?
Un giorno, a tavola, la zia scodellando i tagliarini, disse:
— Non so cos’abbia Cecchino, che lo vedo passare di qui cinque o sei volte al giorno, Cecchino del Mastro di Posta.
In tal modo conobbe il nome e seppe che era figlio dell’impiegato postale. Osservandolo meglio, seppe anche che non era un brutto ragazzo, un po’ patito, con certi occhi grandi a fior di testa, che sembravano voler pigliare le persone come in una tanaglia. Era un divertimento vederlo passare tutte le mattine, ed era comodo per l’ora: Cecchino significava le sette e mezzo in punto.
La zia Rosa che conosceva la famiglia del mastro di Posta non disse di no, una sera quando vennero a chiederle Teresina per fare quattro salti, al suono dell’organetto: e Teresina, che non aveva mai ballato in vita sua, si sentì dare un tuffo nel sangue. Certamente era felice, ma avrebbe voluto togliersi a tutti gli sguardi, sì poca sicurezza aveva in sè e tanto timore di comparire goffa e screanzata.
All’entrare in sala, con tutte quelle sedie allineate lungo le pareti, il pavimento spruzzato di acqua fresca e quattro candele conficcate davanti a quattro specchietti, ella provò un momento di vertigine. Non vide nessuno, non guardò niente; a passi da sonnambula raggiunse l’angolo più bujo; c’era una seggiolina umile, dimenticata nel vano della finestra, dove aveva servito per appendere una coperta bianca a guisa di cortinaggio.
Teresina sedette là e vi rimase come inchiodata.
Vedeva, confusamente, due o tre coppie che giravano; le parve che la zia Rosa, dall’altro lato della sala, la invitasse col gesto ad uscire da quel cantuccio, a muoversi anche lei come le altre. Ma c’era una nebbia davanti alle sue pupille, non percepiva nettamente i contorni; e la nebbia crebbe, diventò tenebra folta, dopo che le si era fermato proprio davanti qualche cosa color cannella.
— Posso?
Che cosa si voleva da lei? Che cosa le offrivano? Chi parlava? Ella rispose vivamente no, no, respingendo un cartoccino, tutta tremante.
— La prego, favorisca, solamente un confetto.
Erano veramente confetti! Non la si voleva burlare? Non erano piuttosto sassolini o mollica di pane? Suo fratello le aveva fatto tante volte quello scherzo.
La voce insistette così, che Teresina si decise di allungare la mano e prese un grosso confetto.
— Non balla?
A poco a poco Teresina rinveniva dal suo stupore, e gli occhi riprendevano a veder chiaro. Il signor Cecchino aveva un modo di parlare mellifluo, le stava chino davanti con tanto rispetto, ch’ella ebbe una lontana intuizione di fargli piacere ad accettare le sue cortesie.
Rispose dolcemente:
— Non ho mai ballato.
— Non sa ballare?
— Oh! a scuola... oppure colle mie sorelline...
— Ma è la stessa cosa. Mi favorisca un giro; sono persuaso che ella balla divinamente.
Ripose i confetti in una tasca del giubbetto e le porse galantemente la mano.
— Temo m’abbia a girare la testa...
— Niente paura; ho il braccio saldo, con me non può cadere.
E per darle subito una prova della sua forza le recinse la vita stretta.
Teresina ripiombò nel bujo. Non aveva più coscienza di sè stessa; girava, girava, acciecata dalle quattro candele che le sembravano girandole abbaglianti, sentendo nel fianco il cartoccio di confetti che Cecchino aveva in tasca, non osando dirgli di tenerla meno serrata.
— È stanca?
Moriva; ma non ebbe il coraggio di confessarlo, inebbriata dal moto, dalla musica saltellante, dal calore di quel corpo stretto al suo, dall’odore di gelsomini, acutissimo, che l’emanavano i capelli del suo ballerino.
— Lei balla da angelo. Per fortuna l’organetto cessò di suonare; Teresina cadde sulla prima sedia, rossa in viso come una brace.
La seconda, la terza volta che ballò con Cecchino, non aveva più tanta soggezione; ma il turbamento cresceva. In fine della serata era giunta al punto da non potergli parlare senza che le tremasse la voce; e quand’egli disse, strisciando le parole, facendo gli occhi espressivi:
— Come mi dispiace che passino queste ore!
Ellà, rapita fuori di sè, chiese:
— Perchè?
Cecchino non aspettava altro.
— Per dovermi separare da una persona tanto simpatica.
La sala girava come un arcolaio; girava l’organetto col suonatore: girava la zia Rosa; girava lei, Teresina, stretta fra le braccia di Cecchino.
E chi girava realmente erano lor due soli, alle battute finali dell’ultimo galoppo.
— Ti sei divertita? — interrogò la zia Rosa quando furono a casa.
— Moltissimo rispose Teresina con una convinzione che le trapelava dagli occhi.
Una volta chiusa nella sua camera, per poco fu felice, riandando col pensiero ogni fase di quel memorabile ballo, ricordando sillaba per sillaba tutto quello che le aveva detto Cecchino: Posso? La prego, favorisca almeno un confetto. Non balla? tutto, tutto, fino alle parole «una persona simpatica.» Queste, solamente a pensarci, le sconvolgevano il cuore.
Guardò amorosamente il confettone, divisa fra il desiderio di mangiarlo e quello di conservarlo eternamente,
Il letto le parve duro, troppo pesanti le coperte. Era stanca, ma non le riusciva di chiudere occhio; se appena le si appesantivano le palpebre, scattava, sembrandole di udire mormorare lì sul guanciale: «una persona tanto Simpatica». E poi le venivano in mente i ritornelli dell’organetto e si stringeva al materasso, col braccio sinistro arrotondato in alto, il braccio destro teso, nell’illusione di ballare ancora. All’alba si addormentò.
Il primo pensiero, svegliandosi, fu per lui; ma invece di essere un pensiero gaio e sorridente, le si affacciò quasi come un dolore, come una spina acutissima passata nella pelle.
Inoltrando il giorno, la sua malinconia cresceva. Non aveva mai provato una simile tristezza. Si sentiva cambiata, come se un gran numero d’anni le si fosse aggravato sopra; aveva pensieri misti di morte, di malattie, uno sconforto, un vuoto.
Si toccava l’abito qui, lì, dove lo aveva toccato lui; e le veniva una gran voglia di piangere.
All’ora del pranzo aveva il cuore così oppresso, che non potè quasi ingoiare cibo.
— Va a coricarti, poverina, sei stanca.
Teresina non se lo fece dire due volte; penava troppo a doversi frenare davanti gli zii; sentiva il bisogno della solitudine, per trovarsi libera col nuovo ospite che albergava in lei, per poter chiudere gli occhi, e pensare al signor Cecchino.
La seconda notte non fu migliore, né il giorno seguente. Il mattino, dalla sua finestra, lo aveva veduto passare, e lo sguardo prolungato che egli le diede, l’aveva, per un istante, resa beata; ma poi la malinconia la riprese, insistente, tormentosa.
— Questa ragazza è ammalata, — disse la zia Rosa, accarezzandola con dolcezza — forse le fa male l’aria.
— No, zia, non mi fa male.
— Sei pallida, inquieta; lasciami sentire il polso. Ti duole il capo?
— Un po’.
— Lasciala in pace — interruppe il vecchio, gettandole alla sfuggita una delle sue occhiate penetranti. — Non è nulla.
— Lo credo che non è nulla, ma la gioventù ha bisogno tratto tratto di qualche rinfrescante; ai miei figli, quando stavano poco bene, davo un cucchiaio di manna. Lo vuoi Teresina, un cucchiaio di manna? È dolce.
E poiché Teresina, girellando per la camera, si era allontanata alquanto, il vecchio fece trombetta colle mani alla bocca, in direzione di sua moglie.
— È innamorata!
E ghignò, crollando la testa sulla dabbenaggine della buona donna, la quale non fu capace di aggiungere altro, restando cogli occhi fissi; quei chiari occhi cristallini, limpidi, che avevano visto molte cose nella vita, ma l’amore mai.