Teresa/V
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V.
Teresina era meravigliata, e sopratutto giuliva per l'affetto che le mostrava la buona vecchia; giuliva oltre ogni credere, perché oramai aveva la promessa di accompagnare la zia nel suo ritorno a Marcaria, e fermarvisi una quindicina di giorni.
Sulle prime il signor Caccia aveva detto di no, crollando il capo, inarcando le sopracciglia, così che Teresina, sbigottita, non ardiva nemmeno fiatare. Ed era stata la signora Soave, con un coraggio insolito, quantunque avesse come sempre le lagrime agli occhi, era stata lei a supplicare il marito, a persuaderlo che quel po’ di innocente distrazione avrebbe fatto bene alla ragazza.
— Mamma, e tu come farai?
Questo sì, Teresina lo aveva detto, perchè sentiva il dovere di dirlo.
— Non ci pensare, Teresa; si tratta di pochi giorni.
— E se la bimba non è buona?
— Sarà buona, va.
— E se le gemelle non si lasciano pettinare?
— Si lasceranno, datti pace; e godi in pace la tua vacanza; finchè puoi!...
Queste ultime parole la signora Soave le pronunciò così tristemente, come sapesse che i giorni del godere sono contati, che sua figlia le saltò al collo, baciandola.
La zia Rosa, nella placidezza serena di una vita di pianta, conservava un po’ della bellezza statuaria che l’aveva gettata a diciotto anni nelle braccia di un uomo — senza che nè l’uno nè l’altra si amassero, perchè lui aveva bisogno di trovar moglie per accudire al negozio; e lei era una ragazza da marito.
Era sempre rimasta nel negozio, calma, fedele, sembrando ignorare le numerose scappatelle del consorte, aggiunte ad una relazione antica che lo teneva quasi sempre fuori di casa. Aveva avuto sedici o diciassette figli, ma non conosceva l’amore, non era stata amata mai. Allattava o era incinta continuamente, assorta in queste cure, non sentendo la mancanza dell’amore, illusa o paga nelle apparenze di esso. Così si era trovata coi capelli bianchi; e dopo aver allevati tanti figli, sola, perchè quasi tutti le erano morti e i pochi superstiti avevano cercato fortuna lontano. Rimase sola, dietro il banco; sempre tranquilla, colle belle braccia statuarie posate in grembo; finchè, gli acciacchi del marito reclamando assiduamente la sua presenza, aveva dovuto rinunciare anche al negozio.
Ora conduceva seco Teresina, e la sua bontà passiva di donna linfatica compiacevasi nella gioia della fanciulla, come un intorno placido alla propria giovinezza, alla giovinezza ch’ella aveva perduta senza ebbrezza e senza rimpianti. La guardava cogli occhi mansueti, seguendone i movimenti e la casta espressione del sorriso, e le grazie inconscie della persona, fino a sentirsene intenerita.
Appena sedici anni!
La signora Soave, colla bambina in collo, le accompagnò alla carrozza che aspettava nella via.
— Addio mamma; tornerò presto.
— Sì, non ci pensare.
— L’abito bianco di Ida, se ti occorre, è nell’ultimo tiretto del mio cassettone.
— Sì, sì.
— Ti scriverò, mamma.
La signora Soave non potè più rispondere; appoggiata allo stipite della porta, si riparava colle manine gialle un raggio di sole; ma dietro le mani gli occhi opachi luccicavano.
— Come ti vuol bene la mamma! — sussurrò la zia Rosa.
— Oh! sì, sì, mi vuol bene.
Così confermò Teresina, giubilante, prendendo il suo posto nella carrozzella, tanto felice come se avesse salito i gradini di un trono; e nella ebbrezza che la dominava sollevò gli occhi, vide alla finestra la vecchia Tisbe, e la salutò con un inchino sperticato.
Carlino, canzonandola, le disse all’orecchio:
— Sembri la maggiore delle Portalupi, quando saluta il sotto-prefetto.
Teresina rise.
Alle prime ondulazioni della carrozza, quando il cavallo si mosse, Teresina sentì battere il cuore, come se tutta la sua vita cambiasse in quel punto. Mandò un altro bacio alla mamma, sbirciando la porta del pretore, se non ci fosse nessuno a vederla: le dispiacque che le finestre delle Portalupi fossero tutte chiuse.
Ma poi, attraversando il paese, fu un trionfo. Luzzi, che stava sul caffè fumando uno sigaro, la scappellò così profondamente ch’ella si sentì diventare tutta rossa; don Giovanni Boccabadati che gli era accanto, indolente e distratto con gli occhi per aria, la guardò anche lui, chiudendo un poco le palpebre. Il farmacista si fece sulla soglia della sua bottega, allungando il collo. Presso la chiesa due signore, la moglie del sindaco e la sorella del dottor Tavecchia le sorrisero benevolmente.
Sommato tutto, Teresina aveva piegato tante volte la testa e si era tenuta così ritta, sostenuta sulla vita, che al momento di imboccare la strada maestra, fuori dell’abitato, ella si lasciò andare, riposandosi, sui cuscini di pelle, con un gran sospiro di felicità.
Avvezza ad una continua occupazione, gustava quei momenti d’ozio; le sembrava di essere una gran signora, si guardava attorno con compiacenza, osservando gli alberi e la strada e il cielo, come se li vedesse per la prima volta.
Non era affatto fantastica; ma quel sentirsi trasportare in mezzo a nuvoloni di polvere, per uno stradone lungo lungo, la esaltava leggermente; pensava che tutta quella polvere era sollevata per lei, che il cavallo correva per lei e per lei cigolavano così allegramente le molle sconquassate della carrozzella — per lei e per sua zia.
Sentiva una riconoscenza infinita verso Dio, uno slancio d’amore verso la natura e verso i suoi simili. Come tutto era bello al mondo! Come tutti erano buoni!
Si interessò ai paeselli, alle casupole sparse nei campi. Là certo abitavano famigliuole tranquille, babbi e mamme amorose e fanciulli felici.
Che belle corse lungo le siepi! Che cantare allegro nei prati, di sera, quando volano le lucciole! Intanto era tutto uno splendore; tutto sfolgorava sotto i raggi del sole. Lo stradone giallo, liscio, serpeggiante, si perdeva in mezzo alle campagne grasse, di un verde intenso; per tutta la pianura non si vedeva che verde; il verde uniforme del fieno maggengo; il verde vario degli olmi e dei noci, il verde pallido dei salici; e al di sopra, più alto, frastagliato sul cielo, il tremolìo cangiante dei pioppi.
— Zia, c’è ancora molto?
— Un po’!
Ella pensava come sarebbe stato contento Carlino se avesse potuto trovarsi al suo posto; e nella incorrotta bontà del cuore ebbe quasi un rimorso della sua gioia; ma poi si consolò promettendo a sè stessa di portare al fratello un usignolo svezzato, che ne aveva tanto desiderio,
— Vi sono usignuoli, nevvero, a Marcaria?
— Se vi sono? Io crederei... certo, certo vi debbono essere.
La zia Rosa rispondeva placidamente, tenendosi le mani incrociate sull’ampio seno di matrona, a rattenere la mantiglia che la brezza faceva svolazzare.
Quella brezza Teresina la beveva avidamente, tutta sporta fuori del soffietto, insensibile al sole ed alla polvere, accontentandosi di sbattere le palpebre quando non ci vedeva più.
— C’è molto, zia?
— Un altro po’!
Un sediolo, tirato da un puledrino morello, veniva a rotta di collo; pareva un fulmine.
— Si può essere più disperati? — esclamò la zia nel mentre che, avendo trovato uno spillo, se ne appuntava metodicamente la mantiglia.
La strada in quel punto era piuttosto stretta; il sediolo, correndo all’impazzata, urtò una ruota della carrozzella, frantumando uno dei raggi che volò lontano.
Il vetturino fermò subito il suo equipaggio e bestemmiando scese ad esaminare i danni, intanto che la zia Rosa, calma e sorridente esortava Teresina a non aver paura.
— Non è nulla — disse il vetturino — ma poteva ben essere peggio.
Anche il sediolo si era fermato. Chi lo guidava, un giovinotto bruno, scese premurosamente e venne ad informarsi se le signore si erano spaventate.
Le signore non si erano spaventate.
Allora il giovinotto diede qualche cosa al vetturino per compenso della ruota, risalì sul sediolo, toccando lievemente il cappello ripartì di trotto.
— Giovani spensierati! — concluse la zia Rosa.
— Quello poi è il più spensierato di tutti — replicò il vetturino.
— Lo conoscete?
— E come non conoscerlo? Lo si incontra dappertutto; oggi qui, domani a Mantova; la mattina in sediolo per le campagne, la sera a Parma od a Cremona, È l’Orlandi.
— Ah! Orlandi? — esclamò Teresina. — Se avessi saputo che era Orlandi lo guardavo meglio.
Si spinse con tutto il capo fuori della carrozza; ma il sediolo, già lontano, non appariva più che a guisa di un punto nero in mezzo alla polvere.
— Ne hanno parlato tanto l’anno passato, quando ci fu l’innondazione — riprese Teresina, con una inflessione di rammarico, per non averlo veduto.
Il meriggio scendeva, ardente, su tutta la campagna. Bruciava il sole, bruciava la polvere; sul verde della pianura si stendeva un leggero strato incandescente, come oro fuso, grave è monotono in quell’ampiezza solenne della valle del Po, sotto il cielo uniforme, latteo. Non un grido d’uccello, non un fruscio d’ali, non un canto di villanella; dovunque il silenzio altissimo del mezzogiorno, il silenzio dei campi abbandonati, della natura riposante, dei boschi muti e misteriosi.
Teresina rinnovò la sua domanda:
— C’è molto?
E questa volta la zia rispose:
— Poco.
Quando, a Marcaria, abbassarono il ponte levatoio e la carrozza passò l’Oglio su quell’arnese irruginito, poco mancò che Teresina non gridasse per la meraviglia. Lì veramente ci voleva suo fratello Carlino.
Quanto a lei aveva un’idea molto vaga ed incompleta dei ponti levatoi, nè la sua fantasia limitata poteva suggerirle fantasmi medioevali; ma le parve tuttavia una cosa strana, degna di essere ricordata quando avrebbe fatto, a casa, il racconto del suo viaggio.
Lo zio l’aspettava, immobile, seduto sovra una poltrona, colle gambe distese attraverso una seggioletta di paglia. Era un vecchione alto e robusto, con folti capelli ispidi, occhi furbi e bocca sensuale. Guardò subito la nipote, istintivamente, coll’occhiata rapida e sicura dell’antico donnaiolo.
Sua moglie gli si fece dappresso, con molta premura, domandandogli come stava e se le gambe andavano bene.
Egli fece udire un sordo brontolìo, dimenando il capo, intanto che colle mani si palpava le ginocchia.
Teresina, con uno slancio di bontà, gli gettò le braccia al collo, e baciandolo, a caso, incontrò le labbra gelide del vecchio; subito si ritrasse, ma egli gettò un lieve grido di piacere, guardandola cogli occhi luccicanti, ringraziandola; finchè un sordo richiamo del suo male gli fece riportar le mani ai ginocchi, crollando il capo.
— Ho fatto bene a condurla? — chiese la zia Rosa, a voce bassa.
Accennò di sì.
— Prospero è in buona salute; così pure sua moglie e tutti i figli. Mi hanno detto di salutarti.
Nuovo accenno del capo.
— Questa poverina non ha mai veduto nulla, fa una vita da vecchia in casa sua; sai le idee di Prospero.
Il vecchione sollevò il capo, improvvisamente, chiedendo:
— Quanti anni ha?
— Sedici compiuti.
Quelle parole: sedici anni, si fermarono nell’aria, come sospese sulla testa dei due conjugi, che si guardarono un momento, colpiti dalle stesse riflessioni.
La zia Rosa, sospirò, placidamente, colle mani abbandonate sul grembo. Suo marito fece una smorfia rabbiosa, e tornò a fregarsi i ginocchi coll’occhio fisso e le labbra pendenti.
Intanto Teresina era corsa all’uscio che da quella stanza terrena metteva nel giardino.
Era uno sprazzo di luce, di verde, di rosai fioriti; un bel bracco dormiva al sole, due gattini novelli scherzavano con un fuscellino. Teresina sorrise, sorrise al sole, ai fiori, alla propria giovinezza che si irradiava su ogni oggetto circostante, Si sentiva forte, aveva appetito, aveva nelle gambe un formicolio di vita esuberante, i polsi le martellavano deliziosamente con un ritornello gaio, pieno di promesse.
Quando la zia la chiamò ella corse a salti, come un capriolo, compromettendo la gravità del suo abito a strascico che portava per la prima volta, tanto felice, che se le avessero detto di volare ne avrebbe fatta subito la prova.
— E così? Ti annoi? — interrogò la zia Rosa col suo accento benevolo di vecchia mamma; — questa è una casa un po’ triste per una giovinetta.
— No, no, oh! no.
Così protestava Teresina, sinceramente, gustando la gioia, nuova per lei, di riposo assoluto — guardandosi attorno, curiosa, in quella gran stanza vuota, un po’ fredda, un po’ ammuffita, dove le figure calme dei due vecchi sembravano sopravvivere a una quantità di memorie distrutte.
— Questo è il banco — disse la zia additando un grosso banco di quercia annerito — il banco del negozio.
— Ah sì?
— Questo è il divano dove il mio penultimo figlio, Giovanni, stette infermo sette mesi.
— Poverino!
— Quel quadro, vedi, quel quadro ricamato, la madonna dei dolori? Fu il lavoro per gli esami della mia povera Giudittina, l’ultimo anno che stette in collegio.
— Bello!
— Osserva le mani; solamente per le mani lavorò due mesi e mezzo.
— Ooh! Davvero?
E Teresina rimase estatica davanti a tutti quei ricordi, dolcemente commossa; finchè lo zio, puntellandosi a stento sui braccioli della poltrona, fece atto di levarsi.
— Sarà ora di andare a tavola; il tocco è suonato, questa ragazza deve aver fame.
Poi le gettò un’occhiata indefinibile, borbottando fra le labbra sdentate:
— Sedici anni.