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smorfia rabbiosa, e tornò a fregarsi i ginocchi coll’occhio fisso e le labbra pendenti.

Intanto Teresina era corsa all’uscio che da quella stanza terrena metteva nel giardino.

Era uno sprazzo di luce, di verde, di rosai fioriti; un bel bracco dormiva al sole, due gattini novelli scherzavano con un fuscellino. Teresina sorrise, sorrise al sole, ai fiori, alla propria giovinezza che si irradiava su ogni oggetto circostante, Si sentiva forte, aveva appetito, aveva nelle gambe un formicolio di vita esuberante, i polsi le martellavano deliziosamente con un ritornello gaio, pieno di promesse.

Quando la zia la chiamò ella corse a salti, come un capriolo, compromettendo la gravità del suo abito a strascico che portava per la prima volta, tanto felice, che se le avessero detto di volare ne avrebbe fatta subito la prova.

— E così? Ti annoi? — interrogò la zia Rosa col suo accento benevolo di vecchia mamma; — questa è una casa un po’ triste per una giovinetta.

— No, no, oh! no.

Così protestava Teresina, sinceramente, gustando la gioia, nuova per lei, di riposo assoluto — guardandosi attorno, curiosa, in quella gran stanza vuota, un po’ fredda, un po’ ammuffita, dove le figure calme dei due vecchi sembravano sopravvivere a una quantità di memorie distrutte.

— Questo è il banco — disse la zia additando