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ppena oltrepassata la soglia dei Caccia, a sinistra, sotto l’andito, c’erano due gradini e l’usciuolo che metteva allo studio dell’esattore.

Era questo uno stanzino piccolo, con le mura imbiancate a calce, abbellite da spugnature in tinta azzurrina, sotto un cornicione color cioccolata.

La piú assoluta semplicità nell’arredamento non andava scompagnata da una certa burocratica importanza che si rivelava principalmente in una scansia piena di carte d’Ufficio, chiusa, se non riparata, da un graticcio di fili di ferro; alla quale [p. 48 modifica]faceva riscontro una piccola libreria, un po’ tarlata, con qualche vetro rotto, e mobigliata a metà di libri vecchi, disposti in bell’ordine. Addossato al muro, per non impedire troppo il passaggio, un tavolaccio carico di carte scritte e stampate con un calamaio d’osso nero nel mezzo, due penne e gli occhiali dell’esattore. Sopra, il ritratto del re. Quattro sedie coperte di pelle scura completavano il mobiglio, oltre il seggiolone vecchio in forma di biga romana, dove il signor Caccia troneggiava, spesso burbanzoso, imponente sempre.

All’infuori dei contribuenti che venivano, nelle ore fisse, a pagare le loro tasse nelle mani dell’esattore — e che egli accoglieva colla superiorità di modi di un ministro — poche persone, e mai inutilmente, entravano nello studio. La signora Soave, al mattino, per mettere un po’ d’ordine, timidamente, usando precauzioni infinite, onde non smuovere nessuna carta, e non cambiare, neppure di un millimetro, il posto del calamaio. Teresina, alle quattro precise, schiudendo l’uscio solamente per metà, coi piedi fuori, dicendo: — È in tavola. — Carlino, quello due ore tutti i giorni, quando veniva a casa dal ginnasio, con tutti i suoi libri latini e le sue grammatiche.

Faceva i compiti sotto l’occhio severo del padre, obbligato ad una perfetta immobilità, faccia a faccia colla libreria, i volumi della quale egli conosceva tutti, pel cartone. Colla testa fra le mani, [p. 49 modifica]meditando dolorosamente Virgilio e Cicerone, egli figgeva gli occhi su quei libri allineati, immobili, sempre gli stessi: La Divina commedia, Orlando furioso, La Gerusalemme liberata — tutti legati in pelle rossa — un dizionario delle favole in carta pecora, altri due o tre dizionari — Nicolò de Lapi, il Cimitero della Maddalena, Le notti di Joung, Botta Storia d’Italia, uno scaffale intero, quest’ultimo, diciotto volumetti color cece, non legati.

C’erano ancora, negli angoli, delle strenne, degli almanacchi, due o tre volumi scompagnati di Walter-Scott, i Rimedi sicuri contro ogni specie di insetti; ma Carlino non vedeva che quei primi, augusti, seri, che contenevano, a detta di suo padre, una quantità grande dello scibile umano; e gli incombevano, nelle ore penose de’ suoi compiti, quasi una minaccia continua, l’obbligo di diventare anche lui un grand’uomo, di scrivere diciotto volumi, come il Botta, o una raccolta così straordinaria di versi tutti fitti come nell’Orlando.

Il signor Caccia, pieno di sussiego, inarcando i sopraccigli, stava a guardare il suo unico maschio, il rampollo che doveva trasmettere alle future generazioni l’ingegno dei Caccia, rimasto fino allora sconosciuto. Egli era persuasissimo che, obbligando Carlino a studiare, Carlino avrebbe studiato; che, obbligandolo a capire, avrebbe capito; che, [p. 50 modifica]obbligandolo a pensare, avrebbe pensato. E gli stava al pelo, assiduamente, rigorosamente, terrorizzandolo co’ suoi occhiacci e colla sua voce sgarbata di falsetto, facendogli entrare il latino a furia di scappellotti.

Il ragazzo che a spinte era arrivato alla quarta, procedeva come succede talvolta, a qualcuno, trovandosi in mezzo alla folla, di non camminare colle proprie gambe, ma di lasciarsi portare dalla massa; e studiava, studiava, stringendosi colle mani la zucca, finchè il terribile babbo lo stava guardando — salvo a prendersi poi la rivincita, fuori, nelle vie solitarie coperte d’erba, dove i suoi compagni lo aspettavano, bighellonando, nelle ore tiepide del meriggio; e sull’argine, verso i boschi, dove la riva digrada a filo d’acqua, dove crescono abbondanti i cespugli delle more sotto l’ombra lunga dei pioppi.

Dirimpetto allo studiolo nel quale Carlino compiva il suo tirocinio forzato di genio in erba, dall’altra parte dell’andito, si apriva una gran camera bislunga, scura e triste, il gineceo della famiglia; lì stavano le donne a cucire, a ripassare il bucato, a fare i conti della spesa giornaliera; vi si pranzava anche, e si passavano le sere d’inverno, intorno a una vecchia lucerna ad olio, accomodata per uso di petrolio. Il mobiglio, poco su poco giù, somigliava a quello dello studiolo; invece della libreria, un armadione di legno bianco, un [p. 51 modifica]cantonale, dove si riponeva il pane e i cibi avanzati, la tavola nel mezzo, un piccolo divano incomodo, angoloso, duro come un macigno, parecchie sedie di differenti forme e colori, di cui una molto bassa collocata sopra un gradino di legno nel vano della finestra. Ciò che dominava e schiac[p. 52 modifica]ciava questo modesto arredamento borghese, era un gran quadro appeso alla parete maggiore; quadro massiccio, dello spessore di un palmo, entro cui si nascondevano i segreti di una meccanica ingenua, destinata a mettere in moto contemporaneamente le braccia di un mulino a vento, l’asinello del mugnaio e l’orologio incastonato nel campanile. Orologio e asinello erano fermi da gran tempo, ma il mulino continuava ad agitare, come un fantasma irrequieto, le sue scarne braccia in mezzo agli alberi di cartone dipinto, che formavano lo sfondo del paesaggio.

Come decoro volante, calze incominciate, gomitoli, fascie distese, giocattoli usati, quaderni, panierini.

La signora Soave allattava la piccina, stando seduta sul divano, con uno sgabello sotto ai piedi; pallida sempre, disfatta dalla sua recente maternità. Teresina andava e veniva colla pappa, colle vesticciuole, portando ordini e contro ordini alla serva in cucina. Quando poteva riposare un momento, si metteva sulla seggioletta in alto del gradino, e lavorava ancora.

La madre la guardava, intenerita, struggendosi dietro quella sua figliuola così buona. Chi sa se sarebbe fortunata! — almeno fortunata piú di lei…

Quando era assalita da questi pensieri, la signora Soave chinava gli occhi sul seno magro, da cui [p. 53 modifica]pendeva un’altra bambina ancora, e si faceva vieppiù triste.

Difficilmente il signor Caccia entrava nel gineceo, e se per caso appariva, sembrava sospendersi subito quella dolce intimità di madre e figlia. Entrambe lo guardavano, attente, paurose di vederlo di cattivo umore, pronte ad obbedirlo ne’ suoi minimi cenni.

Partito lui, la madre riprendeva la sua calma melanconica, contemplativa, e Teresina, nella felice serenità dei quindici anni, trovandosi sollevata da un incubo, sorrideva.

Carlino faceva delle irruzioni tempestose, spaventando sua madre, mettendo a prova la pazienza della sorella, gettando a soqquadro i gomitoli, baccanone irriflessivo, toccando tutto colle sue mani sudicie di monello e di scolaro imbrattacarte.

La pace finiva del tutto col ritorno delle gemelle dalla scuola. Allora erano liti sicure. La signora Soave vi perdeva gli ultimi avanzi d’energia, sollevando al cielo gli occhi neri, opachi, incrociandosi sul seno lo sciallino di lana bigia, con un movimento scorato.

Durava la ribellione fino all’ora del desinare; fino a che il signor Caccia, sedendo a mensa, girava intorno quegli sguardi feroci che incutevano terrore a tutta la famiglia.

Dopo, alla sera, quando l’esattore andava al [p. 54 modifica]Caffè di piazza a leggere i giornali, lo schiamazzo ricominciava fra Carlino e le gemelle, aiutato dai vagiti lamentosi della poppante, rotto dalle supplicazioni di Teresina e dai gemiti della signora Soave.

Così tutti i giorni.

Trascorse novembre. Alle nebbie grigie successe la neve, la folta neve che si addensava intatta nella via, coprendo l’erba, coprendo i sassi, smorzando i passi dei rarissimi viandanti; la neve bianca che gravava sui tetti, gettando intorno un riflesso fastidioso; l’eterna, instancabile neve che scendeva lenta, eguale, senza posa; tanto fitta, qualche volta, che sembrava una cortina davanti alle finestre.

Allora il salotto dei Caccia diventava ancor più buio; Teresina era obbligata a stare in piedi sul gradino di legno, colle tendine alzate, la fronte appiccicata sui vetri, cucendo rapidamente nelle ore brevi del giorno. Stanca, di tratto in tratto sollevava gli occhi e guardava nella via, dirimpetto a lei, il palazzo Varisi, ermeticamente chiuso, tutto nero, in mezzo alla neve.

— Tralascia di lavorare; moviti un poco — diceva la madre.

Ma dove muoversi? Fuori del salotto tutta la casa era di gelo; Teresina soffriva il freddo, aveva qualche screpolatura nelle mani; preferiva starsene nella sua triste nicchia, lavorando e guardando la neve. [p. 55 modifica]

La voce interna della giovinezza non parlava ancora all’anima tranquilla. Teresina era calma e casta. Appena un sollevamento insensibile del petto, in certi momenti, un languore nella pupilla accennavano il leggero fermento che si formava a sua insaputa. Guardava allora più intensamente il velo bianco che le stava davanti, e le alte muraglie e il cielo con una fissità prolungata e distratta che le faceva intravedere lontani orizzonti, indeterminati.

Venne dicembre, colle sue feste, col movimento gaio della casa, colle solenni funzioni religiose; dicembre, il mese dei fanciulli, in cui le due gemelle acquistarono una puppattola nuova, che Carlino si incaricò subito di rompere, sotto pretesto di migliorarla. In dicembre pure, Ida, la piccina, fece mostra del suo primo dente.

Gennaio spazzò la neve. Il sole brillava, ma il freddo era più vivo che mai. Il signor Caccia avvertì che bisognava economizzare la legna, se si voleva giungere alla fine dell’inverno.

In casa Portalupi c’era un movimento insolito. Le tre signorine andavano ai balli di casa Arese, una volta ogni quindici giorni; e grande era l’andirivieni delle cassette, delle scatole della piccola sarta che correva a provare e riprovare; mentre la sarta principale, da Cremona, faceva certe spedizioni misteriose, a grande velocità, e mandava pacchi di campioni. [p. 56 modifica]

Le sere del ballo, Teresina spiava accanto alla finestra l’uscita del carrozzone, e figgendo lo sguardo negli sportelli, vedeva oggi un biancheggiamento di veli, domani un riflesso di raso azzurrino; ora il luccichio di una gemma, ora un guanto di pelle rosea morbidamente provocatore — e la carrozza passava, pesante, rumorosa al trotto di due buoni cavalli romagnoli, lasciando negli occhi di Teresina il barbaglio luminoso di una visione.

— Che sfoggio, eh?

Disse una sera la moglie del pretore, che era una linguetta (veniva ogni sei o sette giorni, colla pezzuola in testa, da buona vicina, le sere che i suoi marmocchi si addormentavano presto): e soggiunse:

— Vogliono proprio maritarli i loro tre scorpioncini.

— È della seconda che si parlava, credo: obbiettò la signora Soave.

— Per il sotto-prefetto? Ma essi tentano di gabellargli la prima. La mia opinione è che non ne prende nessuna. Andare a fidarsi di questi meridionali! Io ci sono stata quattro anni laggiù e li conosco.

— Hanno una bella dote.

— Almeno si dice; noi però, cara signora, non ci siamo maritate per la nostra dote, nevvero?

La signora Soave incrociò il suo sciallino sul [p. 57 modifica]petto, quasi a nascondere i rimpianti che essa sola conosceva, e rispose:

— Si fa quel che si può.

— Sicuro, capisco, quando si hanno delle figlie da maritare... le mie, per fortuna, sono ancora piccine. Lei no, che ha qui una ragazza grande fatta...

Guardò Teresina, la quale arrossì violentemente, e si sentì presa da una improvvisa vergogna.

— Teresina è ancora giovane.

— Sì, ma se le capitasse un buon partito?...

— Tutto è destino — interruppe la signora Soave, gravemente, con quella inflessione lamentosa della voce, che andava compagna allo sguardo spento de’ suoi occhi neri.

E venne febbraio e venne marzo.

La primavera non portava nessun cambiamento alle abitudini monotone della famiglia; ma si aprivano le finestre, e dalla via entrava un raggio di luce nuova, il rumore dei passi, il bisbiglio delle voci.

Anche le finestre delle altre case si aprivano, scoprendo i tendoni di mussolino, insaldati di fresco: sui davanzali sporgevano i vasi di fiori tenuti chiusi per il freddo; rami secchi di geranio, fusti polverosi di cedrina; le violacciocche sole, verdi e rigogliose, mettevano già i primi boccioli.

Alla finestra della vecchia Tisbe danzavano al [p. 58 modifica]vento i scialli d’inverno, le sottane tricoté e le vite di flanella.

La casina di don Giovanni Boccabadati stava più chiusa che mai. Egli era partito, un mattino, vestito elegantemente, con una valigetta di pelle di Russia a lucchetto e borchie niellate. Il vecchio servitore, muto come una sfinge, lo aveva accompagnato sulla soglia; poi la porta si era rinserrata ermeticamente, come se il vecchio avesse dovuto seppellirvisi.

— Don Giovanni è a denari, — disse in quell’occasione la moglie del pretore — prende il volo come le rondini...

Teresina pensò un pezzo a questa frase della «pretora.» Le sembrò che dovesse essere una bella cosa il volare, volare, volare, come don Giovanni, in un bel mattino d’aprile, con una valigetta in mano, via per il mondo, incontro all’ignoto; per campagne verdi e fiorite, per laghi azzurri, per monti fantastici, per città incantate; o volare come le rondinelle del suo giardino, ai dolci nidi piccini, così piccini che appena in due vi si poteva stare.

Teresina li guardava con tenerezza quei nidi, appiccicati alle travi del portico, lieti di giovani amori, festanti per le nuove covate. Uno solo restava abbandonato nella tristezza della vedovanza, nella irreparabile tristezza dei giorni che non sono più. [p. 59 modifica]

Dopo il portico, si stendeva fuori irregolare uno spazio di terreno, chiamato abusivamente giardino. In realtà aveva sul davanti qualche aiuola che poteva, a prima vista, confermare l’illusione; specie in quel tempo dell’anno, poichè tutte le viole del pensiero erano fiorite, nelle loro infinite gradazioni nel velluto intenso delle foglie scure, nel raso luminoso delle foglie pallide; e al di sopra di esse ondeggiavano, tremolanti, due arbusti di quel fiore che somiglia ad una nevicata.

Pochi metri dopo incominciava un tentativo di orticello domestico e di frutteto; rimasti e l’uno e l’altro all’esposizione rudimentale di un solco d’insalata, tra masse di salvia, di rosmarino e di [p. 60 modifica]finocchio, colla compagnia di un gracile pesco coperto di scarsi fiorellini rosei.

Oltre non c’era più nulla. Il terreno ghiaioso, ingombro di calcinacci, si rifiutava alla vegetazione. Solamente in un angolo, un fico, l’albero delle terre sterili, innalzava le sue ramificazioni nodose fin oltre il muro di cinta.