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348 | libro quinto |
in tutte le quistioni che insorgessero per la riduzione d’essi beni a mani del comune. Dirò per ultimo che quando i canonici del duomo aveano affari da trattar col principe, dovean chiedere al comune che gli piacesse di nominare per questo fine due o piò deputati o, come allora si chiamavano, ambasciadori.3
L’intenzione degli statuti torinesi, comedi quelli in generale di tutti gli altri comuni, era che quegli solo si riputasse vero borghese, che pagasse le taglie e le altre imposte, e soddisfacesse ai carichi reali e personali, massime alla guardia della città. Chi non soddisfaceva a quest’obbligo niun voto avea in consiglio, nè poteva far mettere in deliberazione cosa alcuna; nè i forestieri ammessi alla cittadinanza godeano con effetto i privilegi di cittadino, se non abitavano in città, tenendovi fuoco e catena e soddisfacendo tutti gli obblighi degli altri borghesi. E qui torna in acconcio il dire quali fossero i privilegi tanto invidiati de’ borghesi.
In prima i borghesi d’un comune eran liberi, possedeano i loro beni in allodio, erano riputati capaci di feudi nobili sol che non esercitassero arti meccaniche, aveano ampia, e senza limiti, la facoltà di testare, e gli altri dritti civili.
Poi erano capaci degli uffizii del comune: e come elettori, o come eletti, o come capi di casa partecipavano in qualche modo al governo ed alla sanzion delle leggi.