Storia delle arti del disegno presso gli antichi (vol. II)/Libro duodecimo - Capo III

Libro duodecimo - Capo III

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Libro duodecimo - Capo II Tavole

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C a p o   II


Arti sotto Costantino — Monumenti rimastici — Osservazioni sull’architettura - Stato delle arti in Oriente — Lavori di que’ tempi — Decadenza dell’arte in Atene... e in Roma — Effigie di Giustiniano — Pretesa statua di Belisario – Arti sotto Costante — Urne rimaste in Sicilia — Statue trasportate a Costantinopoli — Conclusione.

Alti sotto Costantino.
Monumenti rimastici.
In quale stato fossero le arti sotto Costantino il Grande giudicar lo possiamo dalle di lui statue, una delle quali è nell’atrio della chiesa di s. Giovanni in Laterano, e due ne sono in Campidoglio, e da alcuni bassi-rilievi del suo arco, su cui però quel che v’ha di meglio è stato preso da un arco di Trajano1. Io duro fatica a credere che ai tempi di Costantino sia stata fatta l’antica pittura della dea Roma che vedesi nel palazzo Barberini2. Trovasi però memoria d’alcune pitture rappresentanti de’ porti e delle vedute marittime3, le quali da alcune iscrizioni parevan essere di quelli tempi4; ma esse ora si son perdute, e solo veder se ne possono i disegni coloriti nella biblioteca del sig. card. Albani5. Le pitture di un antichissimo Virgilio della Vaticana non son già troppo belle per essere de’ tempi di Costantino, come vuole [p. 411 modifica]Spence6, il quale, ciò scrivendo, non le avea più ben presenti alla memoria, e giudicavane fu i disegni di Bartoli che le ha migliorate; nè sapea che da un ragguaglio scritto nel medesimo libro, e dell’età medesima di esso, risulta essere quel codice e quelle pitture effettivamente dei tempi di Costantino7. Un’eguale antichità sembra doversi attribuire a un figurato codice di Terenzio della stessa biblioteca8; e ’l celebre Peirescio in una lettera inedita conservata nella citata biblioteca Albani fa menzione d’un altro codice Terenziano dei tempi di Costanzo figliuolo di Costantino, in cui le pitture erano fatte sul medesimo stile.

§. 1. Una ben convincente prova che decaduta fosse ai tempi di Costantino sì la scultura che l’architettura l’abbiamo nella chiesa che dicesi un antico tempio di Bacco9, presso quella di s. Agnese fuor di Roma, ma che veramente, siccome appare dalla storia e dalla ispezion locale, è un’antica chiesa cristiana, che il mentovato imperatore fece edificare a richiesta di Costanza sua figliuola, la quale ivi era [p. 412 modifica]stata battezzata, e voleva pur esservi seppellita10. Che tal fabbrica non sia anteriore a questi tempi ne’ quali distruggeansi gli antichi edifizj per inalzarne de’ nuovi, rilevasi dalle basi e dai capitelli delle colonne, che tutte ineguali son fra di loro, cosicchè una non ve n’ha che all’altra ben corrisponda11. Mi fa quindi maraviglia l’inavvedutezza di Ciampini12, il quale per sostenere che ivi fosse veramente un tempio di Bacco, da Costantino poi dedicato a uso più santo, pretende che sian ivi tutte le parti in una perfettissima proporzione. Questo sebben erudito scrittore nessuna cognizione aveva delle arti del disegno, e perciò crede altresì che i cinque bei candelabri marmorei alti otto palmi, de’ quali due son nello stesso luogo, e tre nella chiesa di s. [p. 413 modifica]Agnese13, siano stati espressamente lavorati per ornamento di questa fabbrica; ma son essi scolpiti con tanta maestria che devono riputarsi opera di buon artista almeno de’ tempi di Trajano o d’Adriano. Il nome di tempio di Bacco è stato dato a quell’edifizio, perchè sulla grand’urna di porfido contenente le ceneri di Costanza v’è scolpita una vendemmia con de’ Genietti alati, la quale pur vedesi copiata sul musaico della volta con figure di Satiri; ma si sa che allora la cristiana religione non era ancora ben purgata da alcune costumanze de’ Gentili, e non faceansi sempre scrupolo que’ credenti di mescere il sacro col profano14; altronde il lavoro, riguardo all’arte, è quale poteasi aspettare a quest’epoca. Ciò pur risulta paragonando quell’urna con un’altra di grandezza alquanto maggiore e del medesimo sasso posta nel chiostro annesso alla chiesa di s. Gio. in Laterano15, su cui sono scolpite in alto rilievo figure a cavallo, e altre sotto di esse per rappresentare un combattimento16. In essa fu riposto il corpo d’Elena madre di Costantino17.

Osservazione sull’architettura. §. 2. Notisi però che quando io parlo della decadenza dell’arte antica, intendo parlare principalmente della scultura e della pittura, poichè mentre quelle avvicinavansi all’estremo loro deperimento, fioriva tuttavia l’architettura; e [p. 414 modifica]veggiamo a quest’epoca elevarsi tali edifizj, che superano quanto di più grande e di più magnifico fece mai ne’ suoi più floridi tempi la Grecia, in cui, al dir di Platone18, un buon architetto era una cosa rara. Mentre non v’era in Roma un artista che sapesse disegnare una buona figura, Caracalla faceva costruire i suoi bagni19, le cui ruine tuttora ci fanno maraviglia20. Fece in seguito edificare i suoi bagni Diocleziano, ne’ quali si propose di superare tutt’i suoi antecessori; e bisogna confessare che quanto di essi ci è rimasto, per l’immensa sua estensione ci sorprende. Abbiamo però una prova del cattivo gusto di quegli artisti, poichè l’intavolato era sovraccarico d’ornati, come gli spettatori ne’ giuochi pubblici dati da quello imperatore venivano, per così dire, soffocati dalla gran quantità di fiori che gettavansi sopra di loro. Giusta le misure prese ultimamente dal celebre architetto signor Adams il suo palazzo a Spalatro nell’Illirio ha 705. piedi inglesi di lunghezza per ogni lato. Quella sorprendente fabbrica avea quattro strade principali di 35. piedi di larghezza; ed ogni strada, dall’ingresso sino alla piazza che v’è nel mezzo, erane lunga 246. Quella che attraversava il palazzo era di 424. piedi: da ambo i lati di essa v’erano de’ portici larghi 12. piedi, alcuni de’ quali tuttora sussistono. Ho tratte quelle notizie dal manoscritto dello stesso sig. Adams che è stato poi pubblicato21 con tutto il [p. 415 modifica]lusso tipografico e con molte figure22. Sono pure stati, non molto avanti, pubblicati i gran palazzi e i tempj di Palmira23, che per la magnificenza non hanno eguali nel mondo, e ne son degni d’ammirazione gl’intagli e gli ornati. Non vi farebbe pertanto la contradizione che s’immagina il Nardini24, nel credere che i due pezzi d’intavolato benissimo intagliati, esistenti nel giardino del palazzo Colonna, probabilmente appartenessero al tempio del Sole, che in que’ dintorni avea fatto fabbricare l’imperatore Aureliano.

§. 3. Per trovare la soluzione di quello apparente paradosso basta considerare che l’architettura, sempre operando con regole e misure che ne determinano le parti, avea delle leggi più esatte già scritte che non le avea l’arte del disegnar figure, onde più difficilmente allontanarsene poteva e decadere. Quindi pare incredibile che nel portico del preteso tempio della Concordia, cui Costantino fece restaurare, come rilevavasi da un’iscrizione25 poscia smarrita, volendosi fare una giunta alla parte superiore d’una colonna, vi sia stata accozzata capovolta la parte inferiore d’un’altra colonna26.

[p. 416 modifica]§. 4. Quest’imperatore, avendo restituita la pace all’impero, applicossi a far rifiorire le scienze; e Atene, ove i maestri d’eloquenza riaperte aveano!e scuole con gran concorso divenne il centro degli studenti che ad essa da tutto l’impero accorrevano27. V’erano ancor in Grecia e nella Cappadocia medesima de’ genj sublimi che avrebbono potuto estendere le umane cognizioni, come appare dai quattro santi Padri Gregorio Nazianzeno, Gregorio Nisseno, Basilio, e Giovan Grisostomo, se l’estirpazione dell’idolatria non avesse introdotta una rivoluzione nello spirito umano. Allora non erasi ancora infierito contro i lavori dell’arte; anzi furono portate a Costantinopoli molte antiche statue prese da varj luoghi della Grecia e dell’Asia Minore, dal tempio di Diana in Efeso, da Atene stessa, e da Roma; cosicchè anche dopo molti anni vedeansi tuttavia colà nel tempio di s. Sofia 427. statue scolpite per la maggior parte da greci antichi artisti28. L’anonimo scrittor bizantino rammemora particolarmente i luoghi ne’ quali prese furono le statue collocate nell’Ippodromo a Costantinopoli, e mi fa maraviglia, che fra quelli non rammenti Elide29.

§. 5. Siccome i mentovati santi Padri sublimarono nuovamente l’eloquenza, e seppero far rivivere l’eleganza del linguaggio a segno da poter esser messi del paro coi Platoni e [p. 417 modifica]coi Demosteni, e tutti superare gli scrittori gentili loro contemporanei, non farebbe egli stato possibile di far sì che allo stesso modo rifiorissero le arti del disegno? Eppur in Roma la scultura fu ridotta a tale che gli artefici, per ignoranza e per mancanza di genio, quando dovean ergere statue e scolpire busti, adoperavano a tal uopo le antiche opere, nulla curandosi del guasto che ad esse recavano, purchè adattar le potessero al loro bisogno30. Così pei sepolcri de’ Cristiani sovente fecesi uso delle lapidi con iscrizioni gentili mettendoli le cristiane alla parte opposta31. Flaminio Vacca fa menzione di sette statue femminili ignude scoperte a’ suoi tempi, sopra le quali avea posteriormente lavorato una mano barbara32. In una mezza testa trovata nel 1757. esistente fra rottami d’antichità nella villa Albani, vedesi un misto di lavoro antico e di barbaro; e forse l’ultimo scultore non si lenti abilità bastevole a compir l’opera, che perciò è rimasta imperfetta. Il collo e l’orecchia indicano un artista de’ buoni tempi.

§. 6. Non si trova che di rado fatta menzione dell’arte dopo i tempi di Costantino; ed è verosimile che siccome indi a poco si cominciò in Costantinopoli ad atterrare e [p. 418 modifica]distruggere le statue degli dei, così lo stesso destino abbiano avuto in tutta la Grecia i monumenti dell’arte che ancor vi rimanevano33. In Roma per impedir tanto male fu destinato un ispettore sulle statue detto Centurio nitentium rerum; e questi comandava a de’ soldati, i quali giravano per la città principalmente alla notte, affinchè quelle non venissero fatte in pezzi o mutilate34. E quando la religion cristiana cominciò a dominare più apertamente, allora depredati furono i tempj35, dai quali gli eunuchi dei Costantini, che in loro vece governavano l’impero, prendeano i più ricchi lavori [p. 419 modifica]e i marmi più fini per ornare i proprj palazzi36. A questo disordine portò qualche riparo una legge d’Onorio che, mentre interdiceva i sagrifizj de’ Gentili, ne volea conservati i tempj37.

Lavori di que’ tempi. §. 7. E’ da notarsi però che anche in quelli tempi si ricompensava il merito colle statue: una ne fu eretta al poeta Claudiano38, ed una a Stilicone, di cui vedeasi ancor [p. 420 modifica]la base nel secolo decimoquinto39. Si sono conservate a Costantinopoli sino ai principio del secolo presente due colonne ornate a bassi-rilievi, sul gusto della Trajana, erette una a Costantino, e l’altra ad Arcadio40. I bassi-rilievi di questa sono stati pubblicati fu i disegni del Bellino, pittor veneziano, chiamato a Costantinopoli da Maometto II.; ma v’è apparenza che il disegnatore abbiali abbelliti a suo talento, poichè quel poco che abbiamo in disegno della prima ce ne dà una molto cattiva idea, e la farebbe giudicare di tutt’altro lavoro. Della colonna d’Arcadio or non altro più vedesi che la base di granito nel quartiere che chiamasi Concajui, essendone stata dai Turchi demolita la colonna, che pei frequenti terremoti era stata smossa più volte, e minacciava gran danno se fosse venuta a cadere. L’altra, detta la colonna abbruciata, sta in que’ contorni che chiamansi Visirkham, ed è composta di sette gran cilindri di porfido, non compresa la base. Stava altre volte su di essa la statua di Costantino, e poichè dai molti incendj era stata guasta, restaurar la fece Alessio Comneno, come appare dall’appostavi greca iscrizione.

Decadenza dell’arte in Atene. §. 8. Atene, al riferir di Sinesio41, circa sessant’anni dopo che Bizanzio era divenuta la sede dell’impero, perdè ogni suo splendore, e di lei nulla più era rimasto di grande che i nomi delle sue ruine. E sebbene l’imperator Valeriano, prima di Costantino, avesse conceduto agli Ateniesi di riedificare le mura della loro patria, che da Silla sin allora era rimasta smantellata; ciò non ostante la città non fu in istato di resistere all’invasione de’ Goti, i quali, imperando [p. 421 modifica]Claudio Gotico, la Grecia inondarono. Fu per tanto saccheggiata quella città; e narra Cedrano42 che i Goti avean ammassato un gran cumulo di libri per appiccarvi il fuoco, ma se n’astennero, pensando convenir loro che i Greci s’occupassero nelle lettere anzichè nelle armi43.

... e a Roma. §. 9. Leggiamo altresì che misero egualmente fu il destino dei monumenti dell’arte a Roma, ove i Barbari, avendola conquistata più volte e saccheggiata, cospirarono per così dire, coi Romani, che fatti furibondi distruggeano que’ tesori che non hanno potuto finora riprodurre nè il tempo, nè la man dell’uomo, nè forse il potranno giammai. Il magnifico tempio di Giove Capitolino era già distrutto all’età di s. Girolamo44: e quando sotto l’impero di Giustiniano [p. 422 modifica]Vitige re de’ Goti venne ad assediar Roma, avendo dato l’assalto alla mole d’Adriano, gli assediati si difesero a forza di statue, che precipitavano su i nemici45; una delle quali era probabilmente il Fauno del palazzo Barberini, che fu trovato, come dicemmo46, nel ripurgarne le fosse, ma senza cosce, senza gambe, e senza il braccio sinistro, e non già, come scrive Breval47, nella fossa di Castel Gandolfo48.

Effigie di Giustiniano. §. 10. Per congetturare quali fossero le statue equestri in bronzo di Giustiniano49, e di Teodora sua moglie50, che una volta erano a Costantinopoli, basta vedere le loro due figure in musaico a Ravenna, che fatte furono contemporaneamente51. La prima di quelle due statue era vestita alla maniera d’Achille, come dice Procopio, colle suole legate per di sotto, e colle gambe disarmate e ignude, cioè messa all’eroica52.


[p. 423 modifica]§. 11. Credono molti scrittori che statua sia del mentovato imperatore quella quas colossale, che vedesi nella villa Giustiniani; e quella nobil famiglia, che deduce la sua origine da tal imperatore, ha vieppiù accreditata quella opinione con una iscrizione fattavi apporre non ha molti anni, ma senz’alcun fondamento. Tale statua, comunque mediocre, pur farebbe un prodigio dell’arte se lavoro fosse di questi tempi. Notisi che la testa n’è nuova, e copiata da una di M. Aurelio in sua gioventù.

Pretesa statua di Belisario. §. 12. V’è nella villa Borghese una statua sedente, di grandezza minore del naturale, che tiene la destra sul ginocchio, ed è stata mal a proposito creduta l’effigie di Belisario mendicante, perchè tiene la detta mano aperta e concava, come in atto di ricevervi qualche cosa53. Potrebbe questa rappresentare un di coloro che mendicavano per Cibele, ai quali soltanto, dopo le leggi delle dodici Tavole, era ciò conceduto in Roma54. Chiamavansi quelli Μητραγύρται dalla madre degli dei, e Μηναγύρται perchè a tal questua era destinato un giorno per ogni luna55.

§. 13. Sembra però che dar si possa a quella statua una spiegazione più erudita. Leggiamo in Suetonio che Augusto soleva ogni anno contraffare per un giorno il mendico, e sporgeva la mano colle dita raccolte (cavam manum) per ricevere l’elemosina. Questo egli facea come un’espiazione alla [p. 424 modifica]dea Nemesi56, la quale, secondo l’opinione de’ Gentili, umiliava i grandi della terra. Per questa medesima ragione al carro trionfale de’ vincitori attaccavansi i crotali e la sferza, attributi di Nemesi (che pur veggonsi ad una bella statua sedente di questa dea nel giardino del Vaticano57), per rammentar loro l’instabilità della fortuna, e per avvertirli che se insuperbiti si fossero per la felicità presente, avrebbero incitato contro di sè lo sdegno degli dei. Volendo noi per tanto giudicar dal lavoro, dovremmo con più ragione ravvisarvi qualche personaggio de’ tempi a Giustiniano anteriori, il quale abbia voluto essere rappresentato in figura di mendicante per conciliarsi il favore di Nemesi. Aristofane spiega per l’azione del rubare l’opposta positura d’una mano colle dita raccolte e alquanto ripiegate in atto di prendere: ἀγκύλαις ταῖς χερσὶν ἁρπάζων φέρει.58.

Arti sotto Costante. §. 14. Per recare l’ultima ruina all’arte portossi a Roma nel 663. Costante imperator greco, nipote d’Eraclio, e nella dimora che vi fece di soli dodici giorni spogliolla di tutte le opere in bronzo che v’erano rimaste, e persino delle tegole di questo metallo, delle quali era coperto il Panteon59, facendole trasportare a Siracusa, ove dopo la sua morte vennero nelle mani de’ Saraceni, che mandaronle in Alessandria60.

[p. 425 modifica] Urne in Sicilia. §. 15. Non dobbiamo creder però che tutti quegli antichi monumenti della Sicilia siano stati dai Saraceni depredati; ma è verosimile che molti rimasti vi sieno sparsi per varj luoghi di quell’isola; e possiamo congetturarlo da quattro grandi urne di porfido bislunghe, che hanno la forma delle antiche vasche de’ bagni, e stanno nella cattedrale di Palermo, ove servono a contenere le ceneri di altrettanti re. Due altre urne consimili sono nel duomo di Monreale distante quattro miglia da Palermo, che fervono di sepolcro a due famosi re della stirpe normanna, Guglielmo il Cattivo, e Guglielmo il Buono. V’è tutta l’apparenza che tali vasi lavorati in bellissimo porfido sian ivi stati portati da Roma61, ove servissero in alcuni di que’ sontuosi bagni; poichè sotto gl’imperatori romani fu introdotto di far trasportare nella capitale quella pietra egiziana, e a’ loro tempi già la Sicilia era stata più volte spogliata degli antichi monumenti dell’arte che l’adornavano62; nè è altronde da credere che vi fossero colà persone che a loro spese facessero estrarre il porfido dalle cave d’Egitto per farlo poi lavorare in quel modo.

Statue trasportate in Costantinopoli. §. 16. Nella sola Costantinopoli, dopo l’intero distruggimento che fatto se n’era nella Grecia e a Roma, si conservarono ancora per qualche tempo alcuni monumenti dell’arte. Ivi fu trasportato tutto quel poco che serbato erasi in Grecia, e persino la statua di bronzo dell’asinajo col suo somaro fatta gettare a Nicopoli da Augusto dopo la rotta data ad Antonio e a Cleopatra63. Ivi stette sino alla metà del secolo undecimo la Pallade dell’isola di Lindo, lavoro di Dipeno e Scillide; c vi si videro circa que’ tempi alcuni de’ più gran monumenti dell’arte, cioè il Giove Olimpico di [p. 426 modifica]Fidia, la bella Venere di Gnido lavoro di Prassitele, la statua dell’Occasione, e la Giunone di Samo, opere di Lisippo64. Tutti quelli gran lavori perirono probabilmente nel saccheggio della città sotto Balduino a principio del secolo decimoterzo, allorchè si fusero per farne moneta tutte le statue di bronzo65, fra le quali uno scrittor di que’ [p. 427 modifica]tempi rammemora particolarmente la Giunone di Samo66. Sebbene debba prendersi per un’espressione iperbolica, quando dice che la sola testa di quella statua, essendo fatta in pezzi, bastò a caricare quattro carri, non lascia ciò non ostante di darci idea d’un’opera molto grande.

§. 17. Considerando poi non solamente il gran numero delle statue di bronzo fatte a Costantinopoli sotto i primi imperatori bizantini sin dopo i successori di Teodosio, delle quali si è conservata la memoria in molti epigrammi greci fatti in lode sì della statua, sì della persona effigiatavi67, ma in particolare le anzidette due colonne coclidi; non può negarsi che l’arte venisse tuttora con più successo coltivata fra’ Greci che a Roma, stata già come dicemmo devastata da’ popoli barbari. Un certo gusto elegante del disegno formato su l’antico si è mantenuto fra’ Greci sin a tempi [p. 428 modifica]dell’imperator Giustino, come ne fa fede il Codice greco miniato di Cosma, esistente nella biblioteca Vaticana al num. 699., e pubblicato dal Montfaucon68, ma senza copiarne tutte le figure, In questo Codice adunque fra le altre pitture veggonsi miniate due figure femminili, che danzano a pie del trono del re Davidde, e tengono ciascuna un panno che loro svolazza sopra il capo, con l’epigrafe ΟΡΧΗСΙС 69, la danza: e queste sono espresse con tanta leggiadria, che debbono credersi copiate da qualche pittura antica de’ buoni secoli dell’arte greca70. Cosma era un mercante, fattosi poi monaco, e vivea sotto il regno del detto imperatore, come egli stesso ce lo insegna nel libro secondo della sua opera, e ce lo conferma il patriarca Fozio7172.

Conclusione. §. 18. Io qui, ben lo veggo, ho già oltrepassati i confini che prefiggermi dovea, scrivendo la storia dell’arte; ma sebbene provassi un interno rammarico considerando l’arte nella sua decadenza, simile a quel cittadino che scrive piangendo la distruzione della sua patria di cui è stato testimonio; pur non ho saputo trattenermi dal tener dietro al destino delle grandi opere, e seguirle sin dove ne ho trovate le tracce. Cosi una tenera amante mira dal lido l’amor suo che solcando le onde s’allontana, e cui non ispera di più rivedere; lo segue sinchè può cogli occhi lagrimosi, e parie di scorgerne ancora l’immagine sulle lontane vele. A noi, come a quell’amante, non resta più che un’ombra [p. 429 modifica]dell’oggetto de’ nostri desiderj, i quali però vengono irritati dalla perdita stessa. Noi consideriamo le copie con maggior attenzione, che non faremmo se gli originali medesimi possedessimo. Rassomigliamo a coloro che vogliono vedere degli spettri ove non sono. Il nome di antichità è una favorevole prevenzione, nè è questa priva di vantaggio. Giova sempre il figurarci di trovar molto per iscoprire alla fine qualche cosa. Se gli antichi fossero stati più poveri di monumenti, meglio avrebbono scritto dell’arte. Noi, che riguardo a loro siamo come gli eredi male divisi, smoviamo ogni sasso; onde coi nostri ragionamenti su di molti e singoli oggetti d’antichità arriviamo almeno ad una probabil sicurezza, la quale può divenir più istruttiva che le notizie lasciateci dagli antichi, i quali, tranne qualche indizio di cognizione dell’arte, sono meramente istorici.

§. 19. Forse in quest’opera mia molte volte io non avrò colpito nel vero; ma l’uomo studioso non dee vergognarsi di cercare la verità, anche con isvantaggio della propria riputazione; e bisogna ben che alcuni errino, perchè i più prendano il buon sentiero.


Fine del Tomo Secondo





Note

  1. Ne dà la stampa il Bartoli Admir. Ant. Rom. Tab. 10-31.
  2. Vedi qui avanti pag. 54.
  3. E varie figure di deità.
  4. Burmann. Syllog. epist. Tom. V. p. 527. epist. 458. [Il celebre Ottavio Falconieri, che scrive queste notizie a Nicolò Heinsio, dice che congettura non esser molto anteriori ai tempi di Costantino queste pitture per alcune iscrizioni di quelle fabbriche, ove esse furono trovate; ma che certamente non potevano essere state fatte prima d’Antonino Pio, per una di quelle iscrizioni in questi termini; BAL. FAVSTINAE S.
  5. Degli avanzi, che si vedeano nei sotterranei del palazzo Rospigliosi, ove erano le terme di Costantino, e dei pezzi tagliatine allorchè nel secolo scorso fu aggiunto un braccio al palazzo, ove ora si conservano, come narra Ficoroni Le vestigia di Roma ant. lib. 1. cap. 19. pag. 128., ne riporta 14. Cameron Description des bains des Romains, pl. 40-53., e 12. ne ha pubblicati qui in Roma in tanti disegni coloriti, il signor Marco Carloni nel 1780.: migliorati peraltro da amendue; non essendo gli originali nè troppo belli, nè troppo conservati.
  6. Polymet. Dial. 8. pag. 105.
  7. Burmann. l. c. epist. 176. p. 194. [ Burmanno a questo luogo riferisce uno squarcio del giudizio di Heinsio intorno al celebre codice del Virgilio della biblioteca Mediceo-Laurenziana a Firenze, ove, argomentando dalla iscrizione, ossia dal ragguaglio scritto in fine delle Buccoliche da Turcio Rufio Aproniano Asterio console ordinario, il quale dice di averlo avuto in dono da Macario, e di averlo corretto, crede che possa fissarsene l’antichità circa i tempi di Costantino. Parla Heinsio pag. 193. anche del codice Vaticano citato da Winkelmann, e di due altri della stessa biblioteca; ma non li crede di tanta antichità; come non possono credersi ragionevolmente, quantunque oltre Spence, del III. secolo creda il detto primo codice anche il Padre Musanzio Tabulæ chronolog. ad sæc. iiI. Tab. 40., e Schelstrate in un suo ragguaglio manoscritto inserito nel volume octoboniano 5059. della stessa biblioteca Vaticana, alla pag. 382. lo giudichi di tempi anteriori a Costantino, e forse dei tempi di Severo, su i debolissimi fondamenti di esservi rappresentati dei tempj, de’ sacrifizj, vittime, pilei frigj, abiti, biremi, ed altro, quasi che simili cose non potessero più dipingersi ai tempi di Costantino, o non vi fossero più antichi modelli da imitare; e che i contorni siano più eleganti, di quello, che poteva farsi allora; quando anzi a ben considerarle, sono di un gusto, e di una intelligenza inferiore anche a tutto quel secolo. Il giudizio di Schelstrate è stato ripetuto, e seguito da Bottari nella edizione fatta in Roma nel 1741. di quello codice di Virgilio, e delle pitture incile da Sante Bartoli; e ultimamente nella prefazione alla raccolta delle stesse pitture riprodotte con una piccola spiegazione parimente in Roma ne! 1781. dal librajo signor Venanzio Monaldini.
  8. Anzi dal fare delle pitture si può credere di tempi più bassi. Le stesse pitture sono pubblicate nell’edizione fatta in Urbino di quello poeta l’anno 1736. in foglio, eoa qualche differenza nel disegno, e così ripetute nell’edizione fatta in Roma nel 1767.
  9. Così semplicemente lo chiama il nostro Autore nella prefazione a quest’opera pag. xxxj. seguendo la volgare denominazione, non approvandola.
  10. Credo che qui si confondano due cose; la chiesa di s. Agnese, che fu fabbricata da Costantino ad istanza di s. Costanza, come si ha dagli atti di quella santa tra le opere di s. Ambrogio, Tom. IV. col. 598. D., e presso i Bollandisti die 21. januarii, Tom. iI. pag. 353. n. 16., e da Anastasio nella vita di s. Silvestro, sect. 42. Tom. I. p. 46.; e l’edifizio ivi contiguo, ove essa fu battezzata secondo Anastasio, e anche sepolta, come hanno i suddetti atti, ove perciò si chiama mausoleo. Questo fu fatto parimente innalzare da Costantino, come pare che vogliano dire i citati scrittori; e se sono autentici, e antichi gli atti manoscritti di quella santa, de’ quali portano uno squarcio l’Aringhio Roma subterr. lib. 4. cap. 25. num. 14. pag. 156., i lodati Bollandisti die 18. februarii, Tom. iiI. pag.70., Ciampini De sacr. ædif. c. 12. p.14., Costantino stesso lo avrebbe non solamente fatto innalzare, e ornare di musaici; ma anche dedicato a uso di chiesa in onore, e memoria di sua figlia, di cui vi avea collocato il corpo in urna di porfido. Costa però dall’iscrizione marmorea, che è sopra la porta, essere stato consecrato ad uso di chiesa dal Papa Alessandro IV. nel 1256., come pure nota il Nardini Roma antica, lib. 4. cap. 4. p. 154. Essendovi stata sepolta anche Costantina altra figlia di Costantino, secondo che narra Ammiano Marcellino lib. 21. princ., Enrico Valesio nella nota a questo luogo ha preteso, che tempio di Costantina debba chiamarsi anzichè di Costanza; mostrando di aver poco esaminata la storia per sostenere un’opinione altronde già confutata dall’Aringhio l. c. n. 8.
  11. Dei tempi innalzati da Costantino in Roma, e consecrati al culto del vero dio, non è da trasandarsi qui almeno quello di san Paolo fuor delle mura per la Via Ostiense, che si è conservato sino a’ nostri tempi, e ci dà la più giusta idea della decadenza dell’arte. Al dir di Prudenzio Peristeph. hymn. 12. v. 45. segg. era per entro tutto dipinto, la soffitta era indorata, le invetriate erano fatte di vetri, o cristalli dipinti a varj colori, come proveremo meglio nel Tomo iiI. nelle nostre osservazioni alle lettere di Winkelmann, e tutto l’interno si reggeva su quattro ordini di colonne. In appresso ha sofferte molte vicende, essendo stato ampliato, e restaurato in varie occasioni. Quella soffitta, le invetriate, e le pitture sono perite. Le colonne non sono tutte di marmo pario, come pare che le dica Prudenzio. Ve ne sono di bellissimo paonazzetto, quali più, quali meno macchiate, e di cipollino; di marmo bianco sono i bellissimi capitelli corintj. Dalla varia qualità del lavoro si può credere, che questi capitelli, e colonne abbiano servito ad altri edifizj anteriori ai tempi di Costantino; ma come potremo dire, che questo imperatore le abbia tolte dalla mole Adriana, secondo la volgare tradizione riferita dal Ficoroni Le vestigia di Roma antica, lib. 1. c. 23., sapendosi che due secoli dopo di lui la mole era ancora intiera, come si ha da Procopio riferito qui avanti pag. 378. n. d.?
  12. De sacr. ædific. cap. 10. pag. 132.
  13. Ora uno solo ne è restato in questa chiesa: gli altri sono passati al Museo Pio-Clementino, come vi sarà trasportata l’urna di porfido, di cui parla Winkelmann dopo.
  14. Cioè, i Cristiani ritennero molte cose, per sè indifferenti, come simboli, e adattabili anche alle usanze, e riti loro. Vedasi Marangoni Delle cose gentil. e prof. trasportate ad uso, e ornam. delle chiese, c. 11. segg.
  15. Il Ciampini nella citata opera dà le figure in rame di quest’urna, come la danno anche l’Aringhio, e il Bosio, secondo la vera sua prima forma; di quella di s. Costanza, del suo tempio, del musaico, e dei due candelabri, che v’erano prima.
  16. O forse un trionfo.
  17. Ora nel Museo Pio-Clementino. Vedasi qui avanti pag. 20. n. b. Non è poi la cosa più sicura, che veramente abbia contenuto il corpo di sant’Elena; giacchè molti scrittori greci lo dicono sepolto nella chiesa de’ Ss. Apostoli in Costantinopoli; altri qui fuor di Roma, nel luogo, che dicesi Tor Pignatara per l’antica Via Lavicana. Si potrebbero conciliare queste opinioni dicendo con Niceforo Hist. eccl. lib. 8. cap. 31., che s. Elena fosse veramente sepolta in questo luogo in un’urna di porfido; e che poi due anni dopo fosse portata in Costantinopoli con tutta l’urna. Ma anche per quella parte s’incontrano delle difficoltà tratte da scrittori romani dopo il secolo X., i quali dicono ancora esistente nel detto luogo verso questo tempo l’urna della santa. Vedansi i Bollandisti die. 18. augusti, Tom. iiI. p 571. segg., pag. 599. segg., e Marangoni loc. cit. cap. 58.
  18. Amator. oper. Tom. I. pag. 135. C.
  19. Sparziano nella di lui vita c. 9. p. 724.
  20. Negli scavi fattivi ai tempi di Paolo III. dopo il 1540. vi furono trovate molte belle statue, e principalmente quelle che adornano il palazzo Farnese, la pretesa Flora, i due Ercoli, come narra Flaminio Vacca nelle sue Memorie, num. 23., il gruppo del Toro, il preteso Comodo da gladiatore, delle quali si è parlato qui avanti, ed altre ancora. Non mi dispiace la riflessione dell’Haym Tes. Britann. Tom. I. Atene, num. 37. pag. 183., il quale pensa che la statua dell’Ercole sia stata da Atene trasportata in Roma per ordine d’Antonino Caracalla, e collocata nelle dette sue terme; poichè prima di lui si vede rappresentata nelle monete d’Atene, e d’altre greche città; e quindi nelle sue, in quelle di Gordiano Pio, di Gallieno, e di Massimiano Erculeo, e non più nelle greche. Il Vasari nella vita di Michelangelo, Tom VI. pag. 263., dice che il gruppo del Toro vi fosse trovato nel 1546. Non so donde Bottari abbia tratta la notizia, che ivi pag. 264. aggiugne, d’esser cioè quello gruppo restaurato coi pezzi antichi. Vedi qui avanti pag. 263.
  21. Vi si legge qualche piccola differenza nelle misure suddette.
  22. Ci avvisa però il signor abate Alberto Fortis nel suo Viaggio in Dalmazia, T. iI. pag. 40., che il signor Adams ha donato molto a que’ superbi vestigj coll’abituale eleganza del suo toccalapis, e del bulino; ma che in generale la rozzezza dello scalpello, e il cattivo gusto del secolo gareggiano colla magnificenza di quel fabbricato.
  23. Vedi qui avanti pag. 369. n. a.
  24. Roma antica, lib. 4. cap. 6. pag. 163.
  25. Marlian. Topogr. Rom. lib. 2. cap. 10. [La riporta anche Nardini l. 5. c. 6. p. 214.
  26. Winkelmann rigettando qui la volgare opinione, che questo tempio sia quello della Concordia, restaurato da Costantino, come già l’aveva combattuta ottimamente il Nardini loc. cit., non intende fissare il tempo del cattivo restauro di esso, che soltanto adduce per modo di esempio dell’essersi così barbaramente mancato in quel lavoro, non ostanti le regole certe, e determinate dell’architettura, al che non ha avvertito il ch. Tiraboschi Storia della Lett. ital. Tom. iI. lib. IV. c. ult. §. IV.; ma probabilmente dovrebbe essere stato fatto intorno ai tempi di Costantino, o ai più tardi ai tempi di Giuliano l’apostata, o del tiranno Magnenzio, o dell’altro Eugenio, che permisero di riaprire i tempj de’ Gentili, e il culto degl’idoli dopo le solenni proibizioni, e leggi fatte da Costantino sull’ultimo della sua vita, e dai di lui figli Costante, e Costanzo, ed altri imperatori appresso, come può vedersi nel Codice Teodosiano lib. 16. tit. 10., e ivi Gottofredo; seppure non fu restaurato il tempio come un semplice ornamento di Roma anche in questi tempi, secondo ciò che diremo in una dissertazione nel Tomo iiI. È precisa, ed elegante l’iscrizione. L’incavo delle lettere, che erano di bronzo, e di molto buona forma, benchè inferiore alle iscrizioni del vicino arco di Settimio Severo, e del tempio di Faustina.
  27. Cresoll. Theatr. Rhet. lib. 1. c. 4. p. 32. [ Si veda arche Eunapio De viris philos. & sophist. L’elogio, che fa questo scrittore, in vita Prisci, pag. 94., d’Ilario pittore bitiniese, che viveva a questi tempi, di essersi cioè reso famoso in Atene, principalmente per li ritratti al vero, e di aver fatto rivivere in certo modo il famoso Eufranore, di cui si è parlato qui avanti pag. 228., colla maestria del suo pennello, ci può far credere che lo studio della pittura si fosse mantenuto in quella città con qualche riputazione.
  28. Così dicono l’anonimo scrittore delle Enarrat. chronogr. presso Bandurio Imper. orient. sive Antiq. Constantinop. lib. 5. p. 84. C. Tom. I., l’altro anonimo, che cita Winkelmann dopo, presso lo stesso Bandurio loc. cit. par. I. pag. 14. D., e Codino De orig. Const. pag. 34. D. Vedi appresso al §. 16. Costantino ne collocò molte nel palazzo del Senato, fra le quali era il Giove esistente prima in Dodona, la Minerva di Lindo opera di Dipeno e Scillide, di cui si parlerà qui appresso, e le celebri Muse, che ornavano Elicona; e tranne le due prime nominate, che stavano avanti la porta, tutte perirono in un incendio di quel palazzo, ai tempi di Arcadio, e Onorio, e di s. Gio. Grisostomo, l’anno 404. Zosimo Hist. lib. 5. cap. 24.
  29. Antiq. Constant. par. 3. princ. loc. cit. lib. 3. princ. pag. 41. seg.
  30. Il ch. Tiraboschi loc. cit. §. I. ha fatto esagerare il nostro Autore in questo luogo senza ragione. Egli non ha mai detto, che questo depravato gusto degli artisti fosse indizio chiarissimo, che essendosi ormai smarrita l’arte, questo mezzo sol rimaneva ad onorar la memoria degli uomini più illustri; e nell’opporgli su questo fondamento l’uso frequentissimo in quarti tempi d’alzare statue a que’ personaggi, è lo stesso che obbiettargli l’eccezione, che fa egli medesimo qui appresso al §. 7., volendo dire, che tal barbarie non si usò nel far quelle statue per ordine dei sovrani, che volevano con esse riconoscere il merito degli uomini grandi.
  31. V. Fabret. Iscript. cap. 3. num. 252. pag. 163., num. 518. pag. 209. [Marangoni Delle cose gentil. e prof. ec. cap. 76. Molto più rimarchevole e l’abuso introdotto in questo secolo IV. di accomodare anche nei pubblici monumenti le iscrizioni degl’imperatori precedenti ad altri appresso, mutandovi solamente il nome; come osservò Giacomo Gottofredo nel far vedere, che gl’imperatori cristiani non hanno mai occupata la carica, nè portato il titolo di Pontefice Massimo, Epist. de incerdicta Christ. cum Gent. communione, deque Pontificatu Max., inter opera jurid. min. col. 576.; e colle di lui ragioni il P. Pagi nelle osservazioni al Baronio T. iiI. ad ann. 312. n. 17. segg. pag. 520. A questo stesso secolo principalmente credo vada riferito ciò che narra s. Girolamo Comment. in Abacuc, lib. 2. c. 3. op. Tom. VI. col. 659. D. che quando veniva trucidato, o vinto qualche tiranno, il vincitore faceva levarla testa a tutte le di lui statue, ed immagini, e sostituirvi la sua, intatto lasciando il resto.
  32. Montf. Diar. ital. cap. 9. p. 139. [ Dice, per guastarle, non per altr’uso.
  33. Eppure il buon gusto non dovea essere affatto perduto anche dopo i tempi di Costantino, rilevandosi da Libanio, il quale viveva ai tempi di Giuliano l’apostata nipote di esso imperatore, e anche ai tempi di Teodosio, che gli artisti greci andavano ancora a disegnare con tutta la possibile scrupolosità, ed esattezza il Giove Olimpico di Fidia, che allora stava a suo luogo, come vi stava la Minerva famosa di lui in Atene, secondo che abbiamo dallo stesso Giuliano Orat. 2. De Constantii imp. reb. gest. op. T. I. p. 54. A., e Epist. 8. p. 377. A. e da Temistio Orat. 25. p. 310. A., Orat. 27. p. 337. B. Tanto mi pare che dica quel sofista Epist. 1052. pag. 497., scrivendo: Si igitur statuariis Pisam euntibus persuaseris, ut in illo Jovis simulacro aliquid mutare audeant, & nos quoque adversus hanc Phidiæ orationem idem facere jube. Vedi appresso al §. 16. Un saggio di questo buon gusto, e dell’arte d’intagliar le gemme, l’abbiamo nel famoso zaffiro di una nitidezza incredibile, e del peso di 55. carati, posseduto ora, dopo esser passato in tanti musei, e anche nel reale di Francia, dal signor marchese Rinuccini a Firenze. Vi è rappresentata con un lavoro straordinariamente bello una caccia dell’imperator Costanzo in Cesarea di Cappadocia, ove forse la gemma sarà stata lavorata, o per adulazione all’imperatore, o per piacere di qualche privato. Della perizia di lui in uccider orsi, leoni, e pardi ce ne fa fede Giuliano cit. Orat. 2. pag. 53. B. Nella gemma si figura che uccida con una lunga asta un gran cignale, che dovea esser celebre in quelle contrade, come può arguirsi dal nome ΞΙΦΙΑС Sifia, che vi è scritto al di sopra. Accanto a Costanzo, che ha pure il suo nome in latino, vi è un’altra figura con asta in mano, che senza buona ragione Frehero crede Diana; in fondo v’è una figura giacente a uso di fiume con cornucopia nella destra, e sotto ΚΕСΑΡΙΑ ΚΑΠΠΑΔΟΚΙΑ: il campo è sparso di piante. Fu illustrata dal citato Frehero, e pubblicata da Du Cange in fine del Glossarium mediæ & infimæ Latinitatis, e ripetuta poi in grande molto meglio disegnata nella di lui opera: De imperatorum Constantinopolitanorum, seu inferioris ævi, vel imperii, uti vocant, numismatibus, ristampata separatamente in Roma nel 1755. in 4.
  34. V. Vales. Not. ad Amm. lib. 16. cap. 6. [ Anche prima di questi tempi v’erano in Roma leggi penali, e magistrati per impedire i danni, che si facevano alle statue, e castigare i colpevoli. Vedi Guasco De l’usage des stat. iI. part. cap. XXI. pag. 382. segg. Quella notizia servirà parimente a supplire a ciò che scrive il ch. Tiraboschi l. cit. §. iI., non avendo saputo trovare provvedimento fatto dai principi anteriori a questi tempi per la conservazione dei pubblici monumenti.
  35. Dacché la religione cristiana incominciò ad essere la religione dominante, più che a’ tempj de’ Gentili mosse guerra ai loro idoli, molti de’ quali atterrati furono e distrutti dai Cristiani, Sozom. Hist. eccl. lib. 5. cap. 7. &c. Hier. Epist. 107. ad Lætam, num. 1. 2. oper. Tom. I. col. 672., a cui troppo stava a cuore il togliere dì mezzo l’oggetto principale dell’idolatria. [ Prudenzio Contra Symm. l. 1. v. 502. segg. fa dire a Costantino, che voleva conservate le statue per ornamento di Roma, purché si riguardassero come semplici monumenti dell’arte, non come oggetti di superstizione:

    Marmora tabenti respergine tincta lavate,
    O Proceres: liceat statuas consistere puras,
    Artificum magnorum opera. Hæ pulcherrima nostræ
    Ornamenta cluant patriæ, nec decolor usus
    In vitium versæ monumenta coinquinet artis.

    Teodosio il Grande, che con una legge emanata nell’anno 391., e registrata nel Codice Teodosiano lib. 16. tit. 10. l. 10., di cui parla anche s. Agostino De Civit. Dei, lib. 5. cap. 26., proscrisse più rigorosamente il culto degl’idoli, pensò a conservare le più belle statue, che fece trasportare in Costantinopoli, come si dirà qui appresso al §. 16.]: i tempi furono sovente convertiti in chiese. [ Si legge presso Cedreno Comp. hist. Tom. I. pag.272. D., che Costantino con un editto fece convertire molti tempj in chiese de’ Cristiani; altri ne fece distruggere, e applicare le entrate alle chiese, pag. 284.. C.; altri ne fece chiudere, che poi furono distrutti da Teodosio, pag. 327. B. Molti ne distrussero anche i Cristiani senza verun ordine, come scrive Eusebio nella vita di quell’imperatore l. 4. c. 39.; e come si lagnava Libanio Orat. pro templ. ad Theodos. inter op. jurid. min. Jac. Gothofr. col. 470. segg. che essi fecero di molti altri ai tempi del citato Teodosio, il quale per altro non ne risparmiò moltissimi, al dir di Teodoreto Eccl. hist. lib. 5. cap. 21. 22.; e fra gli altri il famosissimo di Serapide in Alessandria, di cui parlammo nel Tom. I. pag. 71. col. 2., con tutte le statue, che l’ornavano, come scrive anche Sozomeno lib. 7. cap. 15.; o al più eccettuatane una del dio Simia, come vuole Socrate Hist. eccl. lib. 5. cap. 16., oppure le sole pietre, che servivano per li fondamenti, e area, le quali per la loro gran mole non furono schiantate e portate via, secondo che abbiamo da  Eunapio De vit. philosoph. & sophist. in vita  Ædesii, pag. 64. L’imperator Onorio si era contentato di farlo chiudere. Giovanni Antiocheno, cognominato Maiala, Hist. chron. lib. 13. in fine, pag. 18. Veggasi appresso al §. 9. ]. Se però la religion cristiana concorse allora al distruggimento delle opere dell’arte, la stessa religione per una lunga serie di secoli mantenne in piedi quel poco avanzo di essa, impiegata dalla medesima nel culto divino; e la stessa pure fu una delle cagioni che più delle altre ha contribuito al suo risorgimento ed alla sua perfezione. L’erezione di tante sontuose chiese, le pitture, le statue  e gli altri lavori da collocarvisi hanno somministrato frequente occasione ai moderni artisti d’entrare in una lodevole emulazione, e di produrre delle opere rare ed eccellenti. Volendosi far un confronto, nell’Italia almeno, ed in Roma specialmente, delle belle opere dell’arte eseguite per uso sacro con quelle fatte per uso profano, io non bilancerei punto a dar la preferenza alle prime sopra le altre, non meno nel numero che nel pregio e nella perfezione.
    
  36. ib. lib. 22. cap. 4.
  37. Cod. Theod. lib. 16. tit. 10. l. 15. [ Questa legge fatta da Onorio per la Spagna riguardava le statue degli dei, non i tempj, de’ quali ordina la conservazione nella legge 18. fatta per l’Africa. Pare che non l’abbia neppur ben intesa il ch. Tiraboschi loc. cit.
  38. Come costa da una iscrizione presso Grutero Tom. iI. pag. 391. num. 5. Da un’altra iscrizione presso lo stesso pag. 406. n. 1t. si ha, che ne fosse eretta una a Flavio Eugenio per ordine dell’imperator Costanzo, e di Giuliano l’apostata, allora cesare, e un’altra al retore Vittorino per ordine dello stesso Costanzo, come si ha da s. Girolamo nel supplemento alla cronica d’Eusebio all’anno 358. op. Tom. VIII. col. 799. e da s. Agostino Confess. lib. 8. c. 2. op. Tom. I. col. 146; e una a Petronio Massimo per comando degli imperatori Onorio, Teodosio, e Costantino. Grutero ivi pag. 449. num. 7. così di tante altre, delle quali hannosi le iscrizioni presso questo scrittore, ed altri. Furono erette nel Foro di Trajano, di cui si è parlato avanti pag. 372., ove dai tempi d’Alessandro Severo solevano collocarsi le statue degli uomini illustri. Si veda monsignor Braschi De trib. stat. cap. 10. p. 90. segg. Temistio Orat. 4.. in Const. imp. p. 54. B. scrive che a lui pure ne fece alzare una in bronzo l’imperator Costanzo per un inno, che avea fatto; ma non dice ove fosse collocata. Abbiamo da Ammiano Marcellino lib. 14. cap. 6., che a que’ tempi appunto di Costanzo i Romani aveano passione grandissima di farsi erigere delle statue di bronzo, e anche indorate. Si veda qui avanti pag. 267. n. b.
  39. Marlian. Top. Rom. lib. 2. cap. 10.
  40. Bandur. Imp. orient. sive Antiq. Constantinop. Tom. iI. p. 508. seqq. [ Nella Tavola 1, e 2, che dà ivi Bandurio, si vedono due fabbriche di terme, la prima eretta da Arcadio, l’altra da Eudossia sua consorte; e sono nell’esterno tutte circondate di statue greche nelle nicchie fra le colonne.
  41. Epist. 135. pag. 272.
  42. Compend. hist. pag. 259. A. Tom. I.
  43. Avvenne alla Grecia tutta l’ultimo esterminio nell’anno 395;. dell’età volgare, quando Alarico re de’ Goti la spogliò di quanto vi era rimasto di più buono; ed essendo ariano portò l’ultimo tracollo alla religione de’ Gentili, e ne rovinò i tempj, che vi rimanevano. Zosimo lib. 5. cap. 5. pag. 511. vorrebbe eccettuarne Tebe perchè era ben munita, e perchè quel barbaro anelava di presto giugnere in Atene, che parimente dovè risparmiare con tutta l’Attica, perchè gli comparve Minerva, ed Achille a raffrenarlo. Ma a quella visione di Zosimo, anzichè di Alarico, contradicono apertamente altri scrittori contemporanei, che non ne eccettuano veruna città, e vi comprendono Atene in ispecie, come s. Girolamo nella lettera 60., scritta ad Eliodoro un anno dopo, oper. Tom. I. col. 343. num. 16., Claudiano in Ruffin. l. 2. vers. 186. segg., Eunapio De vit. philos. & soph. in Maximo, pag. 74., e in Prisco, in fine, pag. 94., Filostorgio Eccles. hist. l. 12. princ. Tom. iiI. pag. 543. num. 2. La citata lettera di Sinesio, e la 54. che contiene lo stesso sentimento, è stata scritta prima di questo disastro; nè egli dice tanto, quanto gli fa dire Winkelmann; scrivendo solamente, che Atene allora non era più la sede della filosofia; ma che le belle fabbriche erano ancora da osservarsi con ammirazione, come l’Accademia, il Liceo, e il Pecile, dal quale soltanto erano state tolte per ordine del proconsole le famose pitture di Polignoto, delle quali si è parlato nel Tom. I. pag. 257.: Inde translata philosophia restat ut oberrando Academiam, ac Lyceum mireris, atque etiam illam Porticum, a qua Chrysippi secta nomen accepit; quæ quidem minime nunc varia est; nam Proconsul tabulata sustulit, in quæ, artem omnem suam Polygnotus Thasius contulerat. Cosi scrive Sinedo nella lettera 135., e può vedersi il P. Cellier Hist. génér. des aut. sacr. Tom. X. chap. 13. §. 3. pag. 497. Probabilmente questi superbi edifizj non furono rovinati dal re goto, e duravano ancora colle pitture, che gli ornavano, dopo la metà del secolo seguente; come pare che si possa raccogliere da Sidonio Apollinare, il quale fioriva dopo la metà del secolo V., e l. 9. epist. 9. parla dell’Areopago, e del Pritaneo, ove erano dipinti molti filosofi con que’ simboli, e distintivi, che li caratterizzavano, e facevano distinguere gli uni dagli altri: Neque te satis hoc æmulari, quod per gymnasia pingantur Areopagitica, vel Pritaneum, curva, cervice Zeusippus, Aratus panda, Zenon fronte contraria, Epicurus cute distensa, Diogenes barba comante, Socrates coma candente, Aristoteles brachio exerto, Xenocrates crure collecto, Heraclitus fletu oculis clausis, Democritus risu labris apertis, Chrysippus digitis propter numerorum indicia constrictis, Euclides propter mensurarum spatia laxatis, Cleantes propter utrumque corrosis. I magnifici avanzi, che vi si veggono anche al di d’oggi, descritti dal le Roy, da Stuart, e da altri, ci fanno capire, che molte fabbriche siansi conservate intere, o quasi intere per lungo tempo dopo Alarico.
  44. Contra Jovin. l. 2. in fine, op. Tom. iI. col. 384. [ Non sono così chiare le parole di s. Girolamo da farci credere, che parli del tempio di Giove Capitolino, o almeno che lo dica rovinato, come pretende senza ragione anche il Padre Minutolo Dissert. 5. sect. 2. in suppl. Ant. Rom. Sallengre, Tom. I. col. 122. Scherzando egli sul nome di Gioviniano, dice che era un nome di mal augurio, essendo tratto da Giove; poiché il Campidoglio avea perduto il suo splendore, e i tempj di Giove, e le sue ceremonie erano andate a terra: Cave Joviniani nomen, quod de idolo derivatum est. Squallet Capitolium, templa Jovis, & cæremoniæ conciderunt. Il discorso è molto generico, e può adattarsi a qualunque altro tempio del padre de’ numi. Ma se vogliamo intenderlo del Capitolino, come è più probabile, perchè lo abbia considerato, a riguardo del Campidoglio, per la principal sede della religione gentilesca, diremo col Baronio Annal. Tom. VI. ad ann. 389. num. 56., che il s. Dottore abbia voluto alludere allo spoglio delle lamine d’oro, che ne coprivano le porte, fatto da Stilicone l’anno 589., come narra Zosimo lib. 5. c. 38. in fine, pag. 615.; e alla legge di Teodosio mentovata qui avanti p. 417. col. 1., per cui in quel tempio, e negli altri assolutamente fu soppresso il culto degl’idoli. Abbiamo infatti da Claudiano De VI. Consul. Honorii, vers. 44 45. e 375., che esso era ancora nel suo stato l’anno 404.; e 66. o 67. anni dopo che s. Girolamo scrisse quel libro, cioè nell’anno 455., fu spogliato da Genserico re de’ Vandali di tutti i suoi ornamenti preziosi, e della metà delle lamine di bronzo indorato, che lo coprivano. Procopio De bello vandal. lib. 1. cap. 5. oper. Tom. I. pag. 189. A. Secondo la descrizione di Roma, di cui meglio parleremo nella nostra dissertazione inferita nel Tomo iiI., era ancora in piedi nel secolo ottavo, o nel nono.
  45. Procop. De bello goth. lib. 1. cap. 22. [ Vedi qui avanti pag. 378. not. d.
  46. Qui avanti pag. 379. §. 5.
  47. Remarks.
  48. Le cose, che dice l’Autore in questo paragrafo, meritano d’esser meglio esaminate, come anche altre generiche asserzioni del volgo intorno a quelli, che hanno distrutti i monumenti dell’arte in Roma. Per non fare qui una troppo lunga nota, noi ci riserveremo a trattarne nella dissertazione, della quale abbiamo parlato qui avanti.
  49. Procop. De ædif. Justin. lib. 1. cap. 2.
  50. ib. cap. 11. Procopio a questo luogo esagera molto col dire, che varie statue, delle quali era ornato l’atrio delle terme d’Arcadio, erano sì belle, che avrebbero potuto dirsi opere di Fidia, di Lisippo, e di Prassitele; se pur non erano opere di antichi artisti veramente.
  51. Alemann. Not. in Procop. Hist. arcan. cap. 8. pag. 109., cap. 10. pag. 123.
  52. È da notarsi la legge, che fece questo imperatore §. Siquis in aliena 4. Instit. De rer. divis., cioè che se un pittore dipingeva sopra una tavola che non fosse sua, egli ne diventasse padrone per mezzo della pittura, pagandone però il prezzo; per la ragione che sarebbe stata cosa ridicola, che la pittura d’un valentuomo, come, per esempio d’Apelle, o di Parrasio, avesse dovuto cedere ad una vile tavola, ossia che avesse dovuto restare del padrone della tavola, perchè fatta su di una cosa altrui, come era stabilito per chi scriveva in una membrana, o carta non sua, ancorchè con lettere d’oro. Tale disposizione fa vedere che si faceva puranche qualche stima delle arti del disegno a quel tempo.
  53. Ed è una favola, che Belisario fosse fatto accecare per ordine dell’imperator Giustiniano, o di Teodora, e fosse corretto a mendicare. Si legga tra gli altri il cardinal Orsi Istoria eccl. T. XIX. lib. 42. §. 85., e il signor abate Invernizzi nella sua dotta opera De rebus gestis Justiniani Magni, lib. 11. §. 15.
  54. Cic. De leg. lib. 2. cap. 16. n. 40.
  55. Suida v. Μηναγύρτης.
  56. V. Casaub. Animadv. in Suet. p. 115.
  57. È stata data nel Museo Pio-Clem. T. l. Tav. 4.0., e spiegata dal signor ab. Visconti per una Cibele, come è veramente secondo la descrizione di Varrone presso s. Agostino De Civ. Dei, lib. 7. cap. 24. Sta a sedere appoggiando la sinistra mano su di un timpano, o tamburo, che tiene sotto al braccio per significare, come scrive Codino De origin. Constantinop. pag. 15. in fine, che la terra in sè rinchiude i venti; ed ha in capo le torri.
  58. in Equit. v. 205. [ Uncis ungibus aufert, rapitque.
  59. In cui peraltro lasciò tutto il metallo, del quale erano foderati i gran travi del portico, che poi toltone da Urbano VIII, unitamente alli gran chiodi pure di metallo, pesava sopra le 460000 libre, secondo che narra Ficoroni Le vestigia di Roma antica, l. 1. cap. 20. pag. 132.; e fu impiegato alle colonne della confessione di s. Pietro in Vaticano, e in qualche cannone per il Castel s. Angelo, come costa dalla iscrizione posta per memoria nel portico dello stesso Panteon, e riferita dal dotto monsig. Borgia Vaticana Confessio, ec. præfat. pag. LXV., e da Marangoni Delle cose gentil. ec. c. 66. Fino al presente vi dura la cornice dello stesso metallo indurato intorno all’occhio, per cui entra il lume.
  60. Anastas. De vit. Roman. Pontif. Vita Ss. Vitaliani, & Adeodati, Paul. Diac. De gest. Longobard. lib. 5. cap. 11. 13.
  61. Gl’imperatori greci solevano portare il porfido, e lavori fatti in esso, da Roma a Costantinopoli; onde chiamavasi allora marmo romano. Ne facevano però venire anche dall’Egitto, Si veda Tom. I. pag. 153. n. b. pag. 139. n. 1.
  62. Vedi qui avanti p. 268. seg., e p. 356.
  63. Glycas Annal. par. 3. princ. p. 205. B.
  64. Cedren. Compend. histor. pag. 22. [ Dal discorso di questo scrittore si raccoglie, che ve le avesse fatte trasportare l’imperator Teodosio il Grande. Questo è stato, fra gl’imperatori greci, il più portato per le arti del disegno; e racconta Temistio Orat. 18. p. 223. A., che per le gran fabbriche da lui fatte alzate, e adornare, la città di Costantinopoli era piena d’ogni sorta d’artisti. Anche Giustiniano fece alzare moltissime grandi fabbriche, delle quali parla Procopio in un’opera intiera, De Ædificiis Justiniani. La chiesa di s. Sofia in quella città da lui riedificata, viene descritta come cosa portentosa da Paolo Silenziario scrittor contemporaneo; e Pietro Belon Observat. des plus. singular. ec. liv. I. chap. 83. pag. 74. la descrive come la più bella fabbrica dell’antichità esistente ancora a’ suoi tempi, cioè al principio del secolo XVI.; e dice, che il Panteon d’Agrippa non fa più maraviglia a chi ha veduta quella gran macchina. I Turchi ne hanno fatto una moschea. Giustiniano prima di abbattere l’antico tempio, ne fece togliere le statue, che v’erano dentro, come si è detto qui avanti alla pag. 414., e le distribuì per la città, secondo che narrano gli scrittori, che ivi ho citati nella nota a., copiandosi l’un l’altro; e se poniamo prestar fede a Codino, ultimo di essi, non poche ve n’erano puranche al tempo, in cui egli scriveva, cioè alla metà del secolo XV., come crede il Fabricio Bibl. græca, Tom. VI. l. 5. c. 5. p.476.; e quelle in bronzo, se ve n’erano, come è credibile, saranno state rifparmiate nel devastamento generale, che ne fu fatto nei tempi, de’ quali si parla da Winkelmann in questa pagina.
  65. Avvi ragion di dubitare se tutte le accennate opere esistessero non che al principio del terzodecimo secolo, ma nell’undecimo, in cui probabilmente vivea Cedreno. Volendo questi pag. 322. indicare la statua di Costantino e quella di sua madre, siccome le altre due statue equestri di Trajano e d’Adriano imperatori, usa il tempo presente sunt; ma passando poi a descrivere quel sito di Costantinopoli denominato Lauso, e le statue che l’adornavano, la Pallade, la Venere, il Giove Olimpico ec., fa uso del tempo imperfetto stabat ἵστατο: con che ha egli voluto dire probabilmente che esse vi furono bensì una volta, ma a’ tempi suoi non v’erano più. Deesi nondimeno tra queste eccettuare la Pallade di Lindo, che da Cedreno rammentasi in seguito p. 323., come ancora esistente in una. piazza di Costantinopoli con un’altra statua d’Anfitrite, che sulle tempie avea le branche d’un granchio. [ Non v’è bisogno di congetture per sapere il fine di tante statue, quando lo stesso Cedreno pag. 351. D. scrive chiaramente, che perirono tutte in un incendio col palazzo Lausiaco, ove erano siate poste da Teodosio, come ho detto nella nota precedente; e ciò verso l’anno 475. sotto l’impero di Basilisco. A Cedreno si accorda Zonara Annal. lib. 14. pag. 52. segg., e vi comprende anche la detta Pallade di Lindo. Siamo indi quasi sicuri, che la testa della Venere conservata a Madrid, la quale per la sua bellezza potrebbe credersi l’originale, come si è notato qui avanti alla pag. 200. col. 2., altro non sia realmente, che una copia; e con molto maggior fondamento, oltre ciò che si è osservato nel Tom. I. pag. 316. not. c., potremo afferire, che la Venere de’ Medici non sia quella di Prassitele. Io mi maraviglio come di tanti scrittori, che hanno parlato del destino di questa Venere, niuno abbia veduti, o citati almeno i detti due greci annalisti; e che i più moderni, tra i quali il signor Dutens Orig. des decouv. ec. Tom. iI. par. iiI. chap. 11. §. 280. pag. 230., Cameron Descriptìon des bains des Romains, ec. pag. l6., si siano contentati di ripetere ciò che dice qui Winkelmann. Solo il Bandurio, per quanto io sappia, Imper. oricnc. sive Antiq. Constantinop. Tom. iI. lib. 1. pag. 487. avverte coll’autorità di Cedreno, che essa perì in quell’incendio; ma poi dimenticatosene, nel lib. 7. pag. 846. scrive, che fu trasportata in seguito a Firenze. Teofilo Sigeberto Bayero, che ha fatta una dissertazione sulla statua di Prassitele, e sua storia, ove poteva aspettarsene una piena notizia, non altro fa che confutare questo scrittore con due medaglioni battuti a Gnido, ne’ quali è rappresentata la Venere ivi cclebratissima in atteggiamento ben diverso da quella di Firenze; e con una statua trasportata da Roma a Pietroburgo nel giardino imperiale. Ma siccome questa statua è restaurata in parte, e non troppo felicemente per il suo scopo, egli poteva piuttosto allegare quella celebre già di Belvedere al Vaticano, ora nel Museo Pio-Clementino, della quale parlai al luogo citato, che era stata data in rame da Perrier nella sua Raccolta di statue, Tav. 85., e dal Maffei parimente nella sua Raccolta, Tav. 4. Essa è somigliantissima alla figura dei medaglioni; e per copia di quella di Prassitele era stata già riconosciuta da altri, come nota il signor Falconet Discussion un peu pedantesque, ec. oeuvr. Tom. iI. pag. 330. La dissertazione di Bayero si legge negli Atti dell’Accademia delle scienze di Pietroburgo Tom. IV. pag. 259. segg. con questo titolo: De Venere Cnidia in crypta conchyliata horti imperatorii ad aulam æstivam, & in duobus numis cnidiis.
  66. Niceta Choniata ap. Fabric. Biblioth. græc. Tom. VI. lib. 5. c. 5. p. 406. [e presso Bandurio Imper. orient. sive Ant. Constant. Tom. I. lib. 6. p. 406. Non dice però, che la Giunone fosse quella di Samo; e non poteva dirlo, perchè era perita molto prima, come si è detto nella nota precedente. Dice bensì poco dopo, che allora fu squagliata la detta statua dell’asinajo col suo somaro eretta già da Augusto in Nicopoli.
  67. Le statue per la maggior parte di bronzo, innalzate principalmente in Costantinopoli dagl’imperatori greci a sè stessi, alla loro famiglia, ai loro generali, ed ai loro predecessori, e tra quelle molte anche equestri, erano in un numero sorprendente; e moltissime ne descrivono gli autori, che ho citati qui avanti alla pag. 414. not. a. princ. e tanti altri scrittori bizantini. L’unica in bronzo, che siasi conservata delle erette in Italia per quanto io sappia, e forse l’unica al mondo, è quella dell’altezza di circa venti palmi, che al presente ancora si vede nella pubblica piazza della città di Barletta nella Puglia. Colà si dice un Costantino; e tale lo crederei anch’io mediante il confronto, che ho fatto del disegno di essa favoritomi dal signor D. Emanuele Mola prefetto dei regi studj, ed accademico nella vicina città di Bari, colle statue di Costantino allegate da Winkelmann qui avanti pag. 308. Il signor barone di Riedesel, il quale nel suo Viaggio in Sicilia, e nella Magna Grecia, stampato in tedesco, e poi tradotto in francese, lettera 2. pag. 241., lo pretende un Giulio Cesare, non avrà avuta ben presente ne la fisonomia di questo imperatore, nè quella di Costantino; e non avrà ben riflettuto alla forma dell’abito, che è de’ bassi tempi. Vedasene la figura in fine di questo Tomo, e l’indice de’ rami nel terzo, ove ce parleremo più diffusamente.
  68. Collect. script. græc. Tom. iI. pag. 113.
  69. ΟΡΧΗСΗС sta scritto.
  70. Questa è una esagerazione.
  71. Biblioth. cod. XXXVI. pag. 22. [Fozio dà l’estratto del di lui libro, credendolo anonimo, come osservò il Fabricio Bibl. græca, Tom iI. lib. 2. c. 25. pag. 609.; e anonimo è il Codice Vaticano. Viveva già ai tempi di Giustino; ma scrisse ai tempi di Giustiniano verso l’anno 535., e seguenti, come nota il Montfaucon loc. cit. pag. I.
  72. Questo paragrafo l’ho qui aggiunto per maggior compimento, avendolo tratto dal Trattato preliminare, in fine, e dalle Annotazioni del nostro Autore a questo luogo della Storia. Notizie più esatte, e più diffuse, provate principalmente coi monumenti incisi in rame, sì per l’epoca dell’arte nei tempi accennati da Winkelmann in questo capo; e sì per il tratto successivo fino al risorgimento dell’arte medesima in questi ultimi secoli trascorsi, ce le darà l’indefesso, e diligentissimo signor cavaliere d’Agincourt nell’opera, che accennammo qui avanti pag. 78. col. 1.