Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Capitolo VII
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[Anno 1846]
Eccoci giunti al 4 di novembre, giorno sacro a san Carlo Borromeo, e nel quale i pontefici per antica consuetudine recansi col loro treno nobile alla sua chiesa sulla metà del Corso.
Recandovisi quest’anno e per la prima volta Pio IX, era ben naturale che non vi fosse difetto nè di addobbi ai balconi per onorarlo, nè di concorso di gente per festeggiarlo.
Passò il Santo Padre, e con istupore universale si osservò un glaciale silenzio.
Il Farini e il Ranalli non ne parlano. Il solo Grandoni nella sua storia dice che gli applausi furono vivissimi.1 Forse risonavano ancora alle sue orecchie quei delle dimostrazioni precedenti, i quali furono da questa talmente dissimili, che, mentre quei delle prime assordavano l’aria, in questa neppure sentivi zittire. Se il Grandoni pertanto senti gli applausi, sarà stato dotato di una sensibilità talmente squisita da far sentire e vedere ciò che altri nè vedeva, nè sentiva. È un fatto in somma che non vi furono applausi.
Ma come spiegare, tutti dicevano, un cambiamento si repentino? Dunque gli applausi erano concertati? Dunque eran figli di un indettamento, e gli stessi direttori che comandaron grida in altri incontri inculcaron silenzio in questo ai loro seguaci ed amici, e questi ne diffusero lungo lo stradale a diritta e a sinistra il consiglio?
Rimase per verità misteriosa per qualche tempo la spiegazione, ma in fine si credette di aver colto nel segno, attribuendone la causa allo sdegno destato nei progressisti, ch’erano i veri eccitatori di applausi, dalla circolare del segretario di stato Gizzi dell’8 di ottobre, ostile alle dimostrazioni popolari. Incominciarono molti allora ad aprire gli occhi, e si disse che applausi e silenzio eran dunque tutta parte accordata fra i promotori. Come causa addizionale poi si addusse ancora il poco che in fatto di riforme e miglioramenti era stato operato dal Santo Padre, a fronte del molto che si voleva e che si era sperato; imperocchè dopo l’amnistia niuna delle concessioni che calmar potevano le esigenze della rivoluzione era stata dal pontefice promulgata. In fine il sentimento d’indipendenza che già più di ogni altro scaldava gli animi, spingeva a desiderare un qualche atto, un qualche discorso, un indizio qualunque in somma che il pontefice non fosse alieno per lo meno dal vagheggiarne l’idea.
In vece di ciò l’atto più notevole fu quello contrario alle dimostrazioni, e questo fu un grave delitto agli occhi dei promotori, e parve che in tale occasione palesar volessero al Santo Padre la loro disapprovazione col silenzio, silenzio tanto più eloquente e significativo in quanto che tendeva a porre in chiaro la loro onnipotenza sullo spirito pubblico, a sua norma futura. Vollero insomma fare comprendere che, come disponevano degli applausi e sapevano eccitarli, disponevan pure del silenzio, e di qualche cosa di peggio. Avendo detto su di ciò abbastanza, passiamo a parlare degli atti governativi che antecedentemente al Possesso si emanarono, e che avendolo di poco preceduto, fecero credere di essere stati espressamente sollecitati per disporre il pubblico in favore del Santo Padre affinchè non si rinnovasse l’esempio del giorno 4. Gli atti in discorso furono i seguenti:
1.° L’avere aggiunto alla commissione già esistente per la riforma dei codici civile e criminale
Mons.re | Bartoli Giuseppe Luigi. |
L’avv. | Ciccognani Felice. |
» | Silvani Antonio di Bologna. |
» | Pagani Pietro d'Imola. |
» | Giuliani Giuseppe di Macerata. |
» | Leoncilli Felice di Spoleto. |
» | Dionisi Olimpiade. |
Il dott. | Pagnoncelli Antonio. |
Il dott. | Borghi Saverio e |
Mons.re | Alberghini Ignazio. 2 |
2.° L’avere creata una commissione per provvedere contro il vagabondaggio, composta dei
Mons.ri | Quaglia Angelo. |
» | Savelli Domenico. |
» | Mertel Teodolfo. |
» | Pellegrini Antonio, non che dei |
Princ.i | Aldobrandini Don Camillo. |
» | Odescalchi Don Pietro. |
Comm. | Torlonia Don Carlo. |
March. | Potenziani Ludovico. |
Conte | Carleschi Francesco. 3 |
3.° L’aver dichiarato finalmente con notificazione sottoscritta dal cardinale. Gizzi che il governo era venuto nella determinazione di accollare la concessione delle strade ferrate autorizzandone la costruzione, ed indicando quelle che volevansi eseguire.4
Quest’ultima disposizione in ispecie fu accolta favorevolmente dal pubblico. Piacque pure la seconda, perchè si vide chiamato l’elemento laicale ad aver parte nella pubblica cosa.
Il giorno 8 di novembre ebbe luogo il tanto desiderato e differito Possesso di Sua Santità nell’arcibasilica lateranense.
Superfluo per noi sarebbe e troppo lungo il dame una descrizione circostanziata, la quale può leggersi in vece nel Diario di Roma. 5
Chi noi vide si persuaderà di leggieri ch’esser dovesse come fu, una cosa veramente magnifica e sorprendente, riflettendo che il corteggio transitò per un tratto lungo oltre a due miglia, cioè dal palazzo del Quirinale alla chiesa di san Giovanni in Laterano. I forestieri giunti in Roma più presto del solito per assistervi, e gli abitanti che dai paesi circonvicini a Roma vi affluirono deliberatamente per lo stesso oggetto, vennero quasi a raddoppiarne la popolazione, in guisa che il concorso lungo lo stradale fu immenso, e quindi gli atti di ossequio, e le festevoli acclamazioni al Santo Padre resero lo spettacolo oltre ogni credere imponente. Ma dove si presentò un colpo d’occhio affascinante, anche sotto il punto di vista artistico, da non potersi descrivere, fu al transitare del corteggio sotto al Colosseo stipato di gente che acclamava fervorosamente da tutte le parti, e perfino dai ruderi monumentali dell’antica Roma, non esclusa la meta sudante avanti l’arco di Costantino.
Questa però non potè dirsi dimostrazione nel senso delle altre, perchè in primo luogo la festa era strettamente di rubrica, e quindi l’iniziativa venne dal papa istesso e costituiva una pompa meramente ecclesiastica. Trattavasi in somma del Santo Padre come capo della cattolicità e vescovo di Roma, e non come sovrano. Quindi le acclamazioni ossequiose del popolo eran dirette esclusivamente al pontefice come successore di Pietro, e vicario li Cristo in terra.
In secondo luogo perchè i festeggiatori per progetto, o non vi presero parte (poco o nulla ad essi calendo del papa, del vescovo, o del vicario), o se la presero, non più, come suol dirsi, sotto l’aspetto di ragione cantante, ma alla spicciolata, e ciascuno da sè. La politica dunque non vi ebbe parte.
Non mancò, è vero, sferzo di decorazioni alle finestre ed ai balconi; non mancarono iscrizioni ed emblemi, e fra questi si distinse il gruppo in istucco, rappresentante Roma trionfante, nella villetta Campana vicino alla piazza Lateranense, col motto a lettere cubitali Roma resurges. Chi bramasse di leggerne le particolarità potrà consultare e opere indicate nella nota a piè di pagina.6
Le cose andavano a vele gonfie in Roma per gli uonini del movimento, poichè i cittadini avevan presso che tutti alterate le menti, e quei pochi cui non si era riscaldato il capo, non osavan zittire.
Il pontefice stesso ed il suo ministro vedevan bene che l’edificio incominciava ad andare in fiamme, e ne erano preoccupati, ma d’altra parte non potevan ripararvi, non sapendo a quale partito appigliarsi.
Chiamare come in altri tempi gli Austriaci per ispegnere il fuoco, sarebbe stato in quel momento più che dissennato consiglio. Un colpo di stato non vi era nè modo, nè ragione, nè forza di arrischiarlo. E poi perchè farlo? Perchè i beneficati applaudivano al beneficatore. E come, poteva dirsi, non sono gli atti stessi del pontefice che festeggiano? Dunque nulla era a potersi fare, e null’altro restava che rassegnarsi, e sperare nel tempo.
Intanto i popoli eransi data la mano. Bologna aveva inviato un magnifico sonetto a Roma impresso in pergamena e a caratteri d’oro, e Roma ne aveva ricambiato Bologna con uno eguale, in segno d’amplesso fraterno.7
Le Provincie simpatizzavano coi Romani, portavano alle stelle il loro eroismo, e colla voce e collo scritto n’esaltavano la grandezza, e degni figli chiamavanli degli antichi dominatori del mondo. Era una scena quel sentire glorificati i Romani che dianzi deprimevansi e vituperavansi, e parificati agli eroi dell’antica Roma. In una parola, fosse pure un artificio di partito, è un fatto ohe Felsina esultava, Roma gavazzava, e che la capitale e le Provincie porgevansi amichevolmente la destra, e facevano a gara chi potesse stringerla più fortemente.
Nè il papa, anche a cose più inoltrate, ma che non fossero ancor giunte agli estremi, prender poteva risoluzione veruna. Doveva esso sopravvegliare alla salvezza dei cardinali, dell’alto clero, e di alcune corporazioni religiose, ch’erano in voce di avversare le iniziate riforme. Il solo arrestarne la continuazione avrebbe compromesso gravemente chi ne fosse ritenuto l’istigatore, e quindi gli avrebbe esposti ad essere sacrificati.
Non credasi ciò una esagerazione. I Romani, sia che lo avesser creduto naturalmente, sia che fosse stato loro artificiosamente insinuato, ritenevano che il liberalismo fosse stato quasi santificato dal pontefice, che il desiderio di emanciparsi dall’Austria sì aggirasse nella sua mente, e ch’esso fosse, quale si preconizzava, l’homo missus a Deo per quest’oggetto. 8
L’essere chiamato liberale divenne allora un vanto, e liberale e papalino divenner sinonimi. E questo equivoco fece di molte vittime innocenti, che più tardi ne pagarono il fio.
Tutti gloriavansi in allora di conversare cogli amnistiati. Ad, essi tutte le simpatie, ad essi eran rivolti i primi onori e le cortesi accoglienze. E siccome lo stesso pontefice, come padre amoroso, non isdegnò di parlare e d’intrattenersi con taluno de’ suoi figli traviati per ricondurli stabilmente nel retto sentiero, così i Romani stessi credevano che non disdicesse loro di fare buon viso agli amnistiati.
Gli uomini intanto dell’antico sistema sorpresi ed intimoriti per l’insolito cambiamento, incedevano a capo chino, e ciascuno a preservaaione della propria tranquillità teneva ermeticamente chiusa la bocca. Questa era già la condizione di Roma nel novembre del 1846. Quale dovesse essere in seguito, si potrà agevolmente congetturare.
In così favorevole opportunità il grande agitatore Mazzini, non si lasciò sfuggire dalle mani il destro, e divisò di spedire in Italia due emissari colle sue istruzioni bene determinate pe’ suoi affigliati onde trarre partito dalle favorevoli circostanze, o come francescamente direbbesi per exploiter la situation.
In queste istruzioni tracciavasi così bene il modo di guadagnare i sovrani, i grandi, il clero, e sì ben prescrivevasi il modo da condursi col popolo che, pei vergini d’idee, e di animo semplice e sincero, era impossibile il non lasciare accalappiare.
Questi emissari partirono in sul finire di ottobre dalla Svizzera per recarsi, ad esercitazione del loro apostolato, in Italia. La presunzione pertanto è che nei primi dieci giorni di novembre fossero in Roma, e vi avesser diramato le loro istruzioni per profittare della pompa del Possesso, che come dicemmo vi aveva attirato un numero straordinario di concorrenti, e del banchetto patriottico destinato pel giorno 11, che ne aveva ritenuto una gran parte; cosicchè, nè tempo migliore poteva scegliersi, nè terra più feconda per raccogliere una messe abbondante poteva ritrovarsi.
Noi poniamo pertanto la diramazione di queste istruzioni nella prima decina di novembre, e siccome le giudichiamo di una importanza maggiore di qualunque altro documento, le trascriviamo tutte da cima a fondo. Dicevano così:
» Agli Amici d’Italia.
» Gli scompartimenti d’Italia presentano alla rigenerazione delle difficoltà che converrà vincere prima che si possa progredire direttamente. Però non si vuole perdere corano; cadaun passo verso l’unità sarà un progresso, e senza prevederlo, la rigenerazione sarà sul punto di esser compita il giorno in cui l’unità potrà essere proclamata.»
Mezzi.
I. — I Principi
«Nei grandi paesi si deve andare alla rigenerazione per mezzo del popolo, nel vostro per mezzo dei principi: bisogna metterli assolutamente nell’impresa; è facile. Il papa si avanzerà nelle riforme per principio e per necessità; il re del Piemonte per l’idea della corona d’Italia; il granduca di Toscana per inclinazione ed imitazione; il re di Napoli per la forza; e i piccoli principi avranno a pensare ad altro che a riforme. Non vi mettete in pena della parte occupata dagli Austriaci. Egli è possibile che le riforme, prendendoli alle spalle, li facciano avanzare più rapidamente che gli altri nelle vie del progresso. Il popolo a cui la costituzione dà il diritto di esigere, può parlare alto, e all’uopo comandare colla sommossa; ma colui ch’è ancora nella schiavitù, non può che cantare i suoi bisogni per fame sentire l’espressione senza troppo dispiacere. Profittate della menoma concessione, per riunire le masse, non fosse che per attestare riconoscenza; feste, canti, raduni, rapporti numerosi stabiliti fra uomini di ogni opinione, bastano per far nascere delle idee, e dare al popolo il sentimento della sua forza, e renderlo esigente.
II. — I Grandi.
» Il concorso dei grandi è di necessità indispensabile per fare crescere il riformismo in un paese di feudalità. Se voi non avete che il popolo, la diffidenza nascerà al primo passo e tutto sarà perduto. Se il movimento è condotto da alcuni grandi, questi serviranno di passaporto al popolo. L’Italia è ancora quella ch’era la Francia prima della rivoluzione, ha bisogno dei suoi Mirabeau, dei suoi Lafayette, e tanti altri. Un gran signore può essere ritenuto da interessi materiali, ma si può prenderlo per la vanità. Pochi vogliono andare sino al fine. L’essenziale si è che il termine della grande rivoluzione sia sconosciuto. Non lasciam mai vedere che il primo passo da farsi.
III. — Il Clero.
» In Italia il clero è ricco dell’argento e della fede del popolo, conviene conciliarlo per questi due vantaggi, e guadagnarne l’influenza. Se voi poteste in ogni capitale creare dei Savonarola, faremmo passi da gigante. Il clero non è nemico delle istituzioni liberali. Cercate dunque di associarlo a questo primo lavoro, che si deve considerare come il vestibolo obbligato del tempio della uguaglianza. Senza il vestibolo il santuario resta chiuso. Non attaccate il clero nella sua fortuna, nè nella sua ortodossia; promettetegli la libertà, e lo vedrete nelle vostre file.
IV. — Il Popolo.
» In Italia il popolo è ancora da crearsi, ma egli è pronto a rompere l’involucro che il rattiene ancora. Parlate spesso, molto, e per tutto delle sue miserie, e dei suoi bisogni. Il popolo non intende ancora, ma la parte operosa della società si penetra di questi sentimenti di compassione per il popolo, e tosto o tardi ella opera. Le discussioni profonde e dotte non sono necessarie né opportune, vi sono parole generatrici che contengono tutto, e che devono sovente ripetersi al popolo: libertà, diritti, dell’uomo, progresso, eguaglianza, fratellanza, ecco quello che il popolo comprenderà, sopratutto quando vi si contrapporranno le parole di dispotismo, di privilegi, di tirannia, di schiavitù. Il difficile non è convincere il popolo, ma riunirlo; il giorno in cui sarà riunito, sarà il giorno dell’era novella.
V. - Tutti.
» La scala del progresso è lunga, vuolsi tempo e pazienza per salirne a capo. Il mezzo di andare più presto, si è non varcare che uno scalino per volta; volere prendere un volo presso l’ultimo, egli è esporre l’impresa a parecchi danni. Sono omai due mila anni che un gran filosofo chiamato Cristo (orrenda bestenmiia chiamare così l’uomo Dio)9 predicò la fratellanza che si cerca ancora nel mondo. Ricevete dunque tutti i soccorsi che vi saranno offerti, senza riguardarli mai come poco importanti. Il globo terrestre è formato di grani di sabbia; chiunque vorrà fare un solo passo di progresso con voi, dev’essere dei vostri finché v’abbandoni. Un re dà una legge più liberale; applaudite, domandandogli quella che deve seguire. Un ministro non mostra che mire di progresso, datelo per modello. Un gran signore mostra non sapersi che fare dei suoi privilegi, mettetela sotto la sua direzione; se egli vuole arrestarsi, voi siete a tempo a lasciarlo, egli resterà isolato, e senza forza contro di voi, e voi avrete mille mezzi da rendere impopolari quelli che si sono opposti ai vostri progetti Tutti i dispiaceri personali, tutte le illusioni, tutte le ambizioni irritate, possono servire la causa del progresso, se altri dà loro buona direzione.
VI. — Ostacoli.
» L’armata è il più grande ostacolo al progresso del socialismo, sempre sommessa per educazione, per organizzazione, per dipendenza; la è un grande aiuto pel dispotismo. Conviene paralizzarla colla educazione generale del popolo; quando si sarà diffuso nel pubblico che r armata fatta per difendere il paese non deve in alcun conto mescolarsi di politica interiore, e rispettare il popolo, si potrà andare avanti senza di lei, ed anche contro di lei senza rischio. Il clero non ha che la metà della dottrina sociale; egli vuole come noi la fratellanza, cui denomina carità, ma la sua gerarchia e le sue abitudini ne fanno un aiuto dell’autorità, ossia del dispotismo; conviene prendere quanto ha di bene e troncare il male. Procurate di fare penetrare l’uguaglianza nella Chiesa, e tutto camminerà. La potenza chiericale è personificata nei Gesuiti; l’odioso di questo nome, è una potenza pei socialisti, ricordatelo.
VII. — Mezzi.
» Associare, associare, associare, tutto è in questa parola. Le società scerete danno una forza irresistibile al partito che può invocarle; non temete di vederle divise: più elleno si divideranno, meglio riusciranno. Tutte vanno allo stesso scopo per differenti strade, il secreto sarà spesso violato, tanto meglio è necessario il secreto per dare tranquillità ai membri, è necessaria una certa trasparenza per dare paura ai stazionari. Quando un gran numero d’associati ricevendo la parola d’ordine per diffondere una idea e farne l’opinione pubblica, potranno concertarsi per un movimento, troveranno il vecchio edificio traforato da tutte le parti, e cadente come per miracolo al menomo soffio del progresso. Meraviglieranno eglino stessi di vedere fuggire davanti alla sola potenza dell’opinione, re, signori, ricchi, preti, che formavano il vecchio edificio sociale. Coraggio e perseveranza.» (Dall’Osservatore di Ginevra.)
- Tipografia di Angelo Alani. nota
Queste son dunque le norme che divulgò il Mazzini, questo il suo dottrinale politico. La stampa però e la pubblicazione di questo dottrinale per parte dell’autorità, o di qualche aderente alla medesima, non si creda che avesse luogo nel 1846, ma molto più tardi, e quando già era istituita la guardia civica. Non si creda neppure che la diffusione in istampa di cosiffatte dottrine avesse per iscopo di vederle eseguite. Si volle al contrario premunire il pubblico contro di esse. Ma il pubblico buono o non capiva di queste faccende, o, capito il male, non sapeva quale rimedio opporvi; intanto che il partito sommovitore leggeva le dottrine, le divulgava le raccomandava, e ne eseguiva i dettati. Che seppure il mettere all’aperto questa rivelazione avesse potuto giovare, sarebbe stato in sui primi e non un anno dopo. Solito inconveniente quello di chiudere la stalla quando ne sono fuggiti i buoi.
Ora che abbiam messo in chiaro queste importantissime istruzioni del Mazzini, che per fermo circolarono clandestinamente in Roma fino dai primi del novembre 1846, passiamo a narrare ciò che occorse dopo la solennità del Possesso.
10 Il giorno seguente al medesimo fu dal Santo Padre emanata la enciclica che comincia: Qui plurimis jam abhinc annis colla quale annunziava a tutti i patriarchi, primati, arcivescovi, vescovi ec, di essere succeduto a Gregorio XVI, disapprovava e condannava le massime che si diffondevano contro la divina autorità, e contro le leggi della chiesa, aventi per iscopo di conculcare i diritti della sacra e civile potestà della medesima. Disapprovava le sètte, le società bibliche, e condannava i libri che tendono a corrompere il dogma e la morale, nonchè le dottrine comunistiche, le quali minacciavano di sconvolgere la umana società. Raccomandava inoltre d’impedire la diffusione di cattivi libri, e di tenerne lontano il popolo fedele, servendosi dell’espressione: eumque a pestiferis libris diligenter avertere.
Questa enciclica, il cui linguaggio è consonante a quello che tennero i passati, e che terranno i futuri pontefici, eccitò la disapprovazione acrimoniosa del Ranalli, il quale chiamollo eminentemente acerbo, concludendo con queste parole. «Bisogna dire che se Pio IX aveva le migliori intenzioni di riescire un buon principe, non intendeva di essere papa diverso da quanti lo avevano preceduto.»11
Noi troviamo che dice benissimo il Ranalli quando annuncia la magnifica scoperta che il papa Pio IX non volesse essere dissimile in fatto di principî e di dogma dai pontefici suoi antecessori, colla differenza però, che mentre il Ranalli se ne conturba e rattrista, tutti i buoni cattolici se ne allietarono e se ne allietano ancora.
E che? doveva forse il papa, perchè come sovrano emporale aveva meditato qualche utile riforma o miglioramento negli stati della Chiesa, alterare anche le forme, linguaggio, ed i principî del supremo suo magistero?
La diatriba pertanto del Ranalli si converte in un elogio sulla sana morale e sulla fermezza dei principî religiosi del regnante sommo pontefice Pio IX.
Passiamo ora a parlare di altro.
Meditavasi da vari giorni, come già dicemmo, uno strepitoso banchetto nel teatro Alibert di sette od ottocento convitati, in segno di esultanza per la novella vita che vivevasi in Roma e di quella lietissima che presagivasi pel tempo avvenire.
Si volle profittare a tal uopo dell’affluenza straordinaria di gente che in occasione del Possesso, era accorsa in Roma. Si emise fino dal 6 un programma in litografia contenente le disposizioni pel buon ordine.12 Precorse ancora un invito, a chi vi avesse voluto recitarvi componimenti.13
Promotori ne furono al solito gli amnistiati, perchè vedemmo figurarvi e gli Sterbini, e i Zauli-Saiani, e i Matthey, ch’eran del numero, e che è bene di osservare, eran tutti estranei a Roma.
Il banchetto ebbe luogo il giorno 11 ed era ordinato così. La maggior parte dei convitati era nella platea. Gli altri in sul palco scenico, fra i quali i recitatori dei componimenti. Gli spettatori poi occupavano i palchi. Si ritiene che i primi fossero circa un migliaio, ed altrettanti i secondi.
Recitarono;
Sterbini Pietro di Vico. |
L’avv. Balducci Anacleto non romano recitò ancora una poesia sul Possesso di Sua Santità. Fra questi per quanto sia a nostra cognizione gli amnistiati non furono che i tre primi.
Non vi fu censura per parte dell’autorità civile come ecclesiastica. Ebber facoltà i promotori di farsela da per loro. E questo si disse uno sbaglio grandissimo dell’autorità. È inutile il dire che i componimenti in genere sentivano di patriottismo non solo, ma riboccavano di espressioni allusive alla nazionalità ed alla indipendenza italiana.
Il convito fu lietissimo, frugale e senza fasto il banchetto. Molti degli astanti richiedevansi l’un l’altro, e il sentimmo ancor noi ch’eravamo presenti, se si stesse nella Roma dei papi o in quella dei Gracchi.
Un busto colossale di Pio IX, opera dello scultore Villa di Milano, posto sulla scena, sembrava fare gli onori del convito. Non mancarono applausi fragorosi a Pio IX e all’Italia, ai quali prendevan parte e i commensali in platea e gli spettatori nei palchi.
Vi si osservò l’ordine il più perfetto, ma increbbe assai che niuno dei nobili v’intervenisse, e siccome in quella sera davasi un ballo in casa del principe Borghese, ballo che altamente riprovossi dagli uomini del movimento, se ne attribuì ad esso la cagione, quasi che la cosa fosse stato fatta espressamente per chiamare altrove l’aristocrazia. Accadde quindi che una parte dei convitati i quali, un poco per la potenza di Bacco, un poco per quella delle Muse, avevano soverchiamente inebriati gli spiriti, recaronsi sotto al palazzo del principe, e con quei segni non equivoci di disapprovazione, che chiamansi volgarmente fischi, manifestarono il loro malcontento. Tranne questo aneddoto dispiacente, non vi fu sconcio di sorta.
Il banchetto, o come chiamossi, il convito nazionale è narrato nella Pallade di Gerardi.14
Quantunque lo storico Farini, come cel dice egli stesso, fosse poco proclive a parlare di cose festose e di numerosi assembramenti, anzi disapprovasse in genere e gli uni e le altre, pure ci sarebbe piaciuto che di un banchetto di tale fatta avesse dato un qualche cenno. Per un narratore di storie, il quale deve illuminare il pubblico sul come effettivamente progrediva la rivoluzione, le non son cose da taoersi.
Una riunione di circa duemila persone inebriate parte simposi, e parte dalle poesie patriottiche, non è una di poco momento. Un migliaio di persone che applaudiscono dalla platea e dalla scena, e altrettante dai palchi, è tale uno spettacolo da non passare inosservato, perchè troppo imponente e significativo. Significativo sia per la prevalenza che i promotori avevan già acquistato in Roma, significativo per la troppa condiscendenza colla quale l’autorità lo permise, il che ammette o inganno nella esposizione dell’oggetto per parte di chi ne fece la richiesta, o imprevidenza e arrendevolezza soverchia in accordarla dada presiedeva alla polizia. Abbiamo letto poc’anzi le istruzioni del Mazzini per fare la rivoluzione. E potevano eseguirsi meglio? E ci lamentavamo poi che ardesse la casa, mentre facevan tutti a gara per introdurvi il combustibile? Introdotto esso una volta, ad appiccarvi il fuoco ci pensava Mazzini.
Questo dunque fu il così detto banchetia-mostro. Esso dette la mossa, e ad esso, come si vedrà nel progresso di questi scritti, parecchi altri ne succedettero, i quali, come accadde in Francia nel 1847 e 1848, contribuirono non poco ad accendere le fantasie e agevolare lo scoppio della rivoluzione non più inghirlandata di fiori, ma suasidiala dal ferro e dal fuoco. Accordato il primo banchetto sopra una scala sì colossale, e riuscito sì bene, come, e per quale motivo dovevansi impedire gli altri? Quando si richiese il permesso per quello del teatro Alibert, era allora il caso di applicare il principiis obsta, ma non si fece.
Difatti, il giorno 4 del prossimo dicembre, giorno di santa Barbara, altro se ne diè in caste! sant’Angelo, e non fu piccola cosa, perchè v’intervennero circa duecentocinquanta militari, oltre a molti individui non militari. 15
Importante poi perchè, oltre il numero imponente dei convitati, faceva entrare la truppa nel movimento iniziato.
Poche disposizioni governative ebbero luogo in quel tempo, imperocchè, di una circolare all’infuori dell’eminentissimo Gizzi del 24 novembre sul Consiglio supremo,16 ed un editto del 1 dicembre tendente a richiamare in vigore quelle provvidenze che sogliono adottarsi negli anni di minacciata carestia, nulla occorse in Roma che meriti di essere narrato.17 Non vogliam però pretermettere che il Santo Padre in data del 20 novembre pubblicò il giubileo universale duraturo dal 6 al 27 dicembre18 e che il giorno 1 ricevette in udienza il consigliere Mouttiuho de Lima che gli rimise le credenziali come inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. brasiliana.19
Il 3 poi dello stesso mese si riunivano gli Arcadi per onorare e lodare il nuovo pontefice. Fu, com’è da immaginarsi, una delle più calde ed animate riunioni. 20 Pei tipi del Salviucci furon pubblicate le poesie che vi si recitarono.21
Ma ora ci si presenta una manifestazione di carattere veramente politico, perchè mentre si era tra le feste e i fiori, s’incominciò a parlare sotto voce di armi, di armati, e di discacciamento del barbaro dal suolo d’Italia, ciò che era, e non le riforme amministrative soltanto, uno degli scopi precipui della romana rivoluzione che volea farsi credere vestita cogli abiti pontificali. Di questa faremo il soggetto esclusivo del capitolo seguente.
Note
- ↑ Vedi Grandoni, pag. 26.
- ↑ Vedi Diario di Roma del 7 novembre 1846, n. 89.
- ↑ Vedi il detto Diario di detto giorno.
- ↑ Vedi a detto Diario del 10, pag. 4.
- ↑ Vedi il Diario di Roma del 10 novembre 1846.
- ↑
Vedi il Diario di Roma del 10 novembre 1846. » Ranalli, vol. I, pag. 74. » Grandoni, pag. 28. » Documenti della mia raccolta, voi. I, 56 e 56 A e 57. » Appendice ai Documenti num. 2. » Stampe e litografie, num. 18 e 18 A. » Roman adviser, pag. 26. » la Pallade di Filippo Gerardi, dell'11 novembre. - ↑ Vedi il vol. I, degli Atti ufficiali, ov’è riportato in fine.
- ↑ Vedi nel volume stampe e litografie, il num. 3, ov’è un angelo che sorregge il ritratto del Santo Padre col motto homo missus a Deo.
- ↑ Questa nota di chi pubblicò in Roma le istruzioni del Mazzini affinchè i Romani aprisser gli occhi, e se ne guardassero.
- ↑ Vedi il vol. I, Documenti, anno 1846, num. 55.
- ↑ Vedi Ranalli, Storia degli avvenimenti d’Italia. Vol. I, pag. 76 ediz. di Firenze del 1848 in-4.
- ↑ Vedi vol. I dei documenti, num. 60.
- ↑ idem idem num. 58.
- ↑
Vedi la Pallade di Gerardi del 18 novembre 1846. » Ranalli vol. I, pag. 76. » Prosa e poesia del Saiani, nel vol. XII, Miscellanee num. 11. » Sterbini, prosa e versi, nel vol. XXIV, Miscellanee, num. 1. » Documenti vol. I, num. 58, 59 e 60. » Appendice ai Documenti, num. 3. - ↑ Vedi la Pallade di Gerardi, del novembre 1846.
- ↑ Vedi il vol. Motu-propri ec. num. 5 A.
- ↑ » Diario di Roma del 6 dicembre 1846.
- ↑ » Vol. Motu-propri ec. num. 5.
- ↑ » Diario di Roma del 5 dicembre.
- ↑ » Diario di Roma del 12.
- ↑ » Vol. intit. Adunanza solenne tenuta dagli Arcadi per la esaltazione al pontificato di Sua Santità papa Pio IX in-8.