Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Capitolo VIII
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[Anno 1846]
Ricorreva nel giorno 5 dicembre 1846 il centenario della cacciata, a furia di popolo, degli Austriaci da Genova.
Era questa una opportunità di troppo grave momento per non usufruttuarla a favore della rivoluzione, e disponendo gli animi a ciò che far si voleva in seguito, e prendendo le mosse dalla rimembranza storica sovraccennata.
Difatti, in parecchie città d’Italia, ma in Genova sopratutto, in Firenze, ed in Ravenna, si celebrarono delle feste. E le cime dei monti Appennini, lungo tutta l’Italia, si videro rifulgere di splendide fiamme. Accidentali e inavvertite furono per gl’ignari di simili faccende; significative oltremodo però per gl’iniziati nei segreti maneggi dei caporioni della italiana rivoluzione.
Vidersi è vero i fuochi, ma non fu che il giornale dei dibattimenti, il quale si pubblica a Parigi, che mise in rilievo la loro apparizione.1
Stupirono a questa lettura le popolazioni italiane, ma rimase pei più sempre un mistero.
Intanto non mancò taluno di rammentare che in sui primi di decembre eransi veduti affissi per le pubbliche vie di Roma dei proclami, ma in carattere piccolissimo onde sottrarli alla vigilanza della polizia.
Noi stessi ne leggemmo uno, e di un altro ne possediamo una copia stampata. Entrambi riportiamo qui appresso. Il primo trovasi inserito nella Miscellanea del Giorno, stampata a Parigi nel 1847.
Questi pochi fatti preliminari ci spinsero a portare le nostre investigazioni sopra un tale misterioso avvenimento. Ed ecco ciò che dalle medesime risulta.
In molte città di Italia, come già dicemmo, eransi celebrate delle feste. Quelle dì Ravenna sembra che fossero fra le più clamorose ed ostili all’Austria, in guisa che si trovò costretto il governo di arrestare tre individui.2 Quelle di Toscana detter luogo a dei richiami per parte del rappresentante dell’Austria.3 Genova però superò tutte e ottenne il primato nella dimostrazione anti-austriaca.4
La sede di questo movimento era Parigi, ed ivi fino dal giugno 1846 si meditò dal Ricciardi, la cui importanza politica a tutti è nota, dal Rossetti, e forse da altri fuorusciti, di far si che avessero luogo le feste che vidersi il 5 dicembre, poichè vi si pubblicarono dei componimenti in verso e in prosa riuniti in un libriccino in-24, portante il titolo seguente:
«Per la festa secolare da celebrarsi dagl’Italiani in memoria della cacciata degli Austriaci da Genova del 1746. Rime di due fuorusciti.» Dette rime eran precedute da una prosa del Ricciardi del 15 giugno 1846.
Ed in Parigi furono al certo elaborati quei proclametti in-16, che si videro in Roma, poichè se n’ebbe colà una sì esatta cognizione, da inserirli in un’opera che in quella città si divulgò per le stampe.
E che Parigi fosse la sede di tali macchinazioni risulta anche da questo, che il conte Mamiani, il quale colà risiedeva, oltre ad un inno che compose in onore di san Giorgio, patrono di Genova,5 inviò espressamente una circolare a tutti i suoi amici In Italia, per suggerire loro di ardere i fuochi sugli Appennini, la quale lettera porta la data del 20 novembre 1846, e trovasi inserita fra le sue opere politiche pubblicate in Firenze dal Le Monnier, e che noi daremo per disteso a piedi di questo capitolo.6
Risulta però che il partito dei moderati nulla ne sapeva, nè si era adoperato a tal uopo, poichè in certe lettere che ci sembrano rarissime per la loro irreperibilità, e oltremodo importanti per il loro contenuto, si muovon querele sulla origine tenebrosa di queste dimostrazioni anti-austrìache, che si attribuisce alla opera delle sètte, se ne impugna la spontaneità, e se ne presagisce male per l’Italia. E ehi scrivevale era il conte Cesare Balbo, autore delle italiche speranze,7 il quale sembra che le dirigesse al Farini.8
Ora il linguaggio del conte Balbo consuona col nostro tendente a riprovare le dimostrazioni di origine occulta e tenebrosa che si volevano far passare per nostre, mentre dai capi partito, che neppure da noi ma all’estero risiedevano, venivano consigliate e dirette. L’avviso che il Balbo premise a queste sue lettere sarà riportato in fine di questo capitolo.
La dimostrazione di cui trattiamo ora non .era come le altre una espressione di rispetto o di riconoscenza. Era tutt’altro, perchè equivaleva ad un avviso di ciò che stavasi maturando e si aveva in animo di fare ad un’epoca non remota. Era insomma un estote parati della rivoluzione ai suoi figli in Italia.
Per il momento la cosa non ebbe altro seguito, passò inosservata dai più, e si venne dimenticando nell’avvicendarsi di altri fatti che ad ogn’istante venivano ad attirare la pubblica attenzione.
Il proclama importantissimo estratto dalla Miscellanea del giorno alla pag. 173, dice quanto appresso:
- «Italiani!
» Cento anni fa, la sera del 5 decembre il popolo genovese diè il primo segnale di combattimento contro le armate tedesche che gli rubavano le sue case e le sue terre, e alla sua patria insultavano, alla sua libertà, alla sua indipendenza. Cinque giorni durò terribilmente la battaglia e i cittadini genovesi, quasi senz’armi, con quell’irresistibile coraggio che viene dall’amore di libertà e dalla indignazione d’un popolo deriso e oppresso, uomini, fanciulli, donne, nobili, preti, vinsero, asserragliati com’erano da tanta rabbia e forza nemica, la prepotenza tedesca che li aveva disarmati, solita a farlo con tutti i popoli che soggioga per iscannarli, e succhiarne le sostanze impunemente; li scherniva in que’ primi loro sforzi, ma ricorreva allo scherno per nasconder la propria paura, e il popolo inanimato in quella esacerbazione, ne fiaccò l’orgoglio, liberò le sue terre. Tanta è la forza che Dio ispira a chi difende l’onore, l’indipendenza del proprio paese! Cento anni fa. E da moltissimi altri anni Italia anela di stendere quel trionfo genovese fin sulle terre lombarde, ricacciare la rabbia e avidità tedesca che la spolpa e disonora, ridiventare un popolo, una nazione unita, rispettata, gloriosa. Desiderio santo che gl’Italiani tutti scontano ancora sotto un maggiore peso ed insulto di vergognosa oppressione. E perchè? perchè l’arte tedesca che influisce ogni governo e ministerio d’Italia, e ne occupa una delle più fertili e peciose contrade, è riuscita cento anni a ingannare il nostro entusiasmo, il nostro ingegno, le nostre volontà col dividerci. Ma un popolo si può ingannare, opprimere, ma non domare. Un’altra vittoria simile a quella della forte Genova, può rinnovarsi, Italiani! Piangiamo insieme giovani e vecchi, popolo e grandi, d’ogni professione, d’ogni partito, d’ogni paese, tutti piangiamo di dover celebrare colla voce compressa, a mani sempre legate, il centenario di un atto glorioso di libertà, e questo sacro pianto frutti un furor di speranza, un coraggio uguale alla santità dell’intento, di riconquistare la nostra indipendenza. Le cause giuste non periscono mai, e il tiranno o lo straniero non può soggiogare che i codardi.9
L’altro proclama o avviso dice come segue:
«Le dimostrazioni di gioia avvenute la notte del cinque corrente decembre intendevano a festeggiare il centenario della cacciata dei Tedeschi dalla città e riviera di Genova, accaduta nel 1746. Tal fatto, il più bello forse della moderna storia italiana, viene da illustri scrittori in questo modo narrato. Il Tedesco agognante vendetta era entrato in Genova, il popolo aveva statuito di difendersi, ma i nobili rifiutarono. Il marchese Botta generale delle milizie imperiali, impose durissimi patti, e una soldatesca sfrenata oltraggia ad ogni istante gl’infelici abitatori; i sacerdoti e i monaci, che s’avvisano intromettersi pei compatriota loro, sono con dispreuo dal marchese ributtati, e da’ suoi satelliti vilipesi; il popolo bramava vendetta.
» Gli Austriaci, che mancavano di grossa artiglieria, toglievano dalle mura di Genova i cannoni che destinavano all’impresa di Provenza; e i Genovesi, come che frementi di rabbia per questa nuova ingiuria, a trasportarli forzavano anche con bastonate. Da un fanciullo incominciò la tempesta. Rivolto ai compagni: Oh la rompo — e trasse un sasso agli sgherri. Ed ecco gli Austriaci oppressi da una grandine di pietre, si riparano nei loro alloggiamenti. Il grido all’arme rimbomba per ogni dove; i monaci si pongono a capo del popolo assembrato. L’arsenale è investito, si uccidono, si disperdono i soldati postivi a guardia. Già diecimila uomini impugnano le armi; donne, fanciulli, vecchi, innalzano dovunque barricate. Tutto questo si faceva dai popolani, il senato non vi voleva partecipare. I soldati austriaci non osavano più inoltrarsi tra un popolo furibondo. Così la città di Genova si travagliava per più giorni in guerra. I nobili si fanno mediatori fra la patria e gli stranieri che l’opprimono. Il doge da un lato intercede per gl’insorti, e dall’altro gl’infiamma. Finalmente Doria, uomo ai Genovesi diletto, dirige i moti della moltitudine e ne forma un’armata. Tentano gli Austriaci di uscire dalla cittadella per andare all’arsenale; assaltati, circondati, oppressi, e fin dalle donne che dall’alto dei tetti rovesciavano sopra essi ciò che il furore poneva loro tra mano, muoiono in numero di ben 4000. Quindi i Genovesi co’ loro cannoni assediano una torre che li soverchia, e la diroccano. Travi, campane, e Tedeschi rovinano a terra in un mucchio. Si odono rimbombare le artiglierie da ogni parte, gli archibusi strepitare, grida tedesche e italiane alzarsi; frastuono orribile e misto, a cui aggiunge terrore un continuo suono di campane a martello di tutte le chiese, segno che una santa religione si mescola ad una santa causa. Genova felice che tali cose tramandò; e se fia che un giorno le ravvedute generazioni pensino che nei forti e virtuosi fatti consistono l’amor della patria, l’amor della libertà, Genova sarà lodata di avere rinnovato in tempi corrotti la romana virtù.
» Il marchese Botta ferito fugge di posto in posto, e perduta la città, ripara al faro, dove con vergognosa capitolazione salva una parte del suo esercito da questa sommossa, più danneggiato che da una battaglia campale.
» Genova è liberata, ed ha fiaccato l’orgoglio di coloro, che con tanta insolenza l’insultavano e la rubavano. Tanta forza Iddio spira a chi difende la patria!!!
Lettera del conte Mamiani in forma di Circolare.
- «Signore,
» In questo anno come v’è noto compiesi il centenario della cacciata degli Austriaci dalla città e riviera di Genova. E il primo atto della gloriosa sollevazione accadde il 5 del vicino decembre. Tal gesto, il più bello forse della storia moderna italiana, e che diviene caparra e simbolo di altri non molto remoti da noi, merita di essere celebrato con ogni possibile dimostrasione. Pare a me ed ai miei amici che uno dei segni di gioia pubblica da praticarsi in quel giorno esser dovrebbe di ardere fuochi sulle colline più prossime a ciascuna città nelle prime ore della notte. Noi ne abbiamo scritto a parecchi in Romagna, in Liguria, e in Piemonte. Se vi garba l’idea, parlatene ai vostri amici, e invitateli a porla in effetto, facendo loro avvertire ch’ella è cosa, la qual non incontra nè spesa, nè rischio; e d’altra parte, è vistosa e significativa oltremodo. Nè altro per questa.
- » Di Parigi, li 20 novembre 1846.
AVVISO
del conte Cesare Balbo premesso alle sue lettere politiche.
«Queste lettere mi vennero incominciate d’impeto quasi irresistibilmente, al primo ricevere le nuove delle dimostrazioni fatte in Ravenna, ed in gran parte di Romagna e Toscana la sera del 5 decembre 1846 in commemorazione della bella sollevazione di Genova al medesimo dì del 1746. Poi, tra le difficoltà, che ognun sa, del far stampare queste cose, e lo scrupolo di compromettere, parlandone pubblicamente, coloro ch’erano stati arrestati in tale occasione, indugiai la pubblicazione; ed approfittai dell’indugio per allargar l’argomento, per trattare d’alcune questioni particolari che mi paiono importanti nelle condizioni presenti della nostra patria. Nei due libretti della storia e delle speranze d’Italia, io esposi già i miei principi generali; qui m’abbandonai alla prima occasione di scendere alle applicazioni più determinate.
» Ma intanto ricevetti nuove informazioni, ed io dubito quindi più che mai che i moti di cui vengo discorrendo, non Steno stati fatti dalle società segrete propriamente dette; che sieno anzi stati promossi da uomini alieni da esse, alieni, se non da tutti, certo da ogni moto rivoltoso, da uomini partigiani, ammiratori di Pio IX. —
» E quindi io dubitai se non dovessi forse abbandonare la presente pubblicazione. Perchè rivolgermi a disturbare uomini amici, moderati e ben intenzionati? Ma il mio dubbio fu vinto da queste considerazioni: che se le intenzioni sono tutto dinanzi a Dio, se son molto pure da uomo ad uomo privato, esse non son nulla, assolutamente nulla in politica, nelle cose pubbliche, dove un fatto qualunque fa lo stesso bene o male, con qualunque intenzione ei sia stato fatto; — che dunque ciò ch’io dissi qui, senza accusare ninna intenzione, dei moti in piazza, può e debbe stare con qualsiasi intenzione eglino sieno stati fatti; — e che ciò io diceva delle società segrete può e deve stare, o per le semi-segrete, che segretamente in somma apparecchiarono questi moti, o per le intieramente e propriamente segrete, che in un luogo in un altro, molte o poche, forti o deboli, pur rimangono insomma anche oggidì. — Del resto in queste, come in ogni cosa segreta, se avrò errato, non so guari vergognarmene, e m’affido d’avere ad esserne scusato facilmente da molti che sono nel caso mio, che sono come me, necessariamente mal informati.
» Un ultimo dubbio mi fu proposto. Badate, mi fu detto, che gl’Italiani in generale, i Romagnoli in particolare non sono Inglesi e Francesi, non sono a tal punto di educazione, di virilità, di sodezza politica, da potersi loro dire intiera la verità, l’opportunità politica, come se fossero politici adulti o vecchi; che qualche sfogo, qualche trastullo bisogna lasciar loro. — Ma rispondo io, nè io, nè niuno di noi scrittori, non siamo principi o governanti che abbiamo a lasciare, giudicare, o perdonare tali od altri sfoghi o trastulli, col fatto; non facciam che discorrere di loro opportunità; o se non li veggiamo opportuni, dobbiamo, potendolo, pur dirlo. E Io dobbiamo massimamente se temiamo che dai nostri scritti anteriori sieno state tratte applicazioni che non intendemmo nè intendiamo.
» E lo dobbiamo più che mai, se non siamo di quelli che credono a tante fanciullaggini, a tante ineducazioni, a tante non sodezze degli Italiani; so non crediamo che essi abbiano bisogno oramai di sfoghi e trastulli pericolosi , od inutili; se li crediamo anzi e per natura i più capaci uomini del mondo, e per esperienza così educati almeno oramai da sapere e voler udire intiera l’opinione di un compatrlotta sincero, d’uno che, spero, non dubitino, de’ più devoti alla causa nazionale italiana.
» Io rigettai dunque tutte queste dubbiezze, le quali non erano forse, se non che debolezze, paure, di far rivolgere contro a me alcuni o molti già consenzienti, paura di perdere più o meno di quell’opinione popolare, che è ricompensa sola de’ miei scritti. Ed essendomi tolto intanto Y altro dubbio del comprometter gli arrestati, dalla liberazione di essi, virtuosamente, felicemente come tante altre cose consumate da Pio IX, io lascio dubbi ed indugi e m’appresento un’altra volta con fiducia ai miei compatriotti.»
Queste furon dunque le parole che scrisse, questi i sospetti e gli scrupoli che sorsero per un momento nella mente del celebre autore delle Speranze d'Italia; e siccome le giudicammo d’importanza, e non troverebbonsi fra le sue opere stampate, così credemmo doverli riportare per disteso. Ma intanto risulta chiaramente dal fin qui detto, che le surriferite manifestazioni avrebbero avuto il loro merito, ed avrebbero acquistato una politica importanza, se fossero emanate dal popolo, e caratterizzate dallo spirito di spontaneità.
Ma ove ne sia dato di discoprire invece, che non furono se non la esecuzione di ordini ricevuti, esse perdono tutto il prestigio loro, e rassomigliansi alle evoluzioni militari comandate dagli ufficiali, e nelle quali il soldato, come macchina, obbedisce senz’altro al cenno de’ suoi superiori. E siccome per cospirare al sicuro faceva d’uopo d’un paese libero, si scelse Parigi come centro a tal uopo adattato.
Intanto queste manifestazioni, senza alcun frutto eseguite contro una potenza di prim’ordine qual è l’Austria, e colla quale in virtù del trattato di Vienna tutte le altre trovavansi collegate e interessate a sostenerla, non potevano non dare ombra ai governi, e mentre tenevano in attività le polizie, inquietavano gli spiriti. Aggiungi che i sovrani d’Italia mentre avrebber voluto abbandonarsi con securtà alla introduzione di miglioramenti e riforme, ne eran rattenuti e messi in diffidenza per quella imprudente dimostrazione ch’emanava evidentemente dal nemico comune la rivoluzione italiana. E così tanto toglievano alle cure di procurare il benessere materiale, quante dedicarne dovevano alle cautele per preservarsi da una sorpresa, e da una compromessa.
Che se il conte Balbo, nella sua integrità di carattere, non potè resistere all’impeto di riprovare la dimostrazione anti-austriaca, quantunque sincera nel suo significato, sol perchè gliene parve sospetta la spontaneità, che cosa non avrebbe detto il nobile conte se si fosse ritrovato in Roma e avesse semplicemente potuto subodorare che tutte quelle che vi si organizzarono ebber sempre lo scopo d’ingannare il pontefice cui si dirigevano, i Romani cui si spingevano a farle, e gli esteri che, leggendo le cose nostre, cadevano nell’inganno ancor essi, credendole una cosa mentre erano l’altra? E se il conte disapprovandole ne presagì male per l’Italia, che cosa non dovremmo dire noi, che nell’avere intrapreso il racconto del loro svolgimento, dovrem finire col narrare le barricate, lo stato d’assedio, e la guerra, che vennero più tardi a funestare la nostra città?
Con ciò poniam fine a questo capitolo, al quale aggiungiamo un riepilogo di tutte quelle opere o giornali o altri scritti, cui potranno ricorrere i nostri lettori che fosser vogliosi di addentrarsi in sull’argomento che nel capitolo stesso abbiamo trattato.
L’Ausonio, giornale che pubblicavasi in Parigi dalla principessa Belgioioso vol. II, pag. 399.
Il Giornale dei dibattimenti (Journal des débats) che pubblicavasi in detta città il 25 dicembre 1846. 1ª pag.
Miscellanea dal giorno, lib. di 184 pag. che si stampò a Parigi nel 1847, pag. 162, 163, 164, 173 e 358.
Rime di due fuoriusciti per la festa secolare da celebrarsi dagli Italiani in memoria della cacciata degli Austriaci da Genova del 1746, Parigi Courtet, Rue du Petit Carreau 32.11
Mamiani Terenzio, Scritti politici. Firenze, Le Monnier 1853. in-12. pag. 50.
Mamiani T. Inno a san Giorgio patrono di Genova.12
Balbo Cesare. Lettere politiche opuscolo di 36 pagine in-24, stampato nel 1847 ma senza indicazione di luogo.13
Il proclama agl’Italiani nella pag. 173 della Miscellanea del giorno, indicata di sopra.
L’altro proclama sotto forma di avviso può leggersi fra i documenti del vol. I, num. 62 A.
Farini, Lo Stato Romano 3ª ediz. di Firenze del 1853 pag. 170 e 175.
Montanelli, Memorie ec. vol. I, pag. 236.
- ↑ Vedi il Journal des Débats dei 25 decembre 1846.
- ↑ Vedi Miscellanea del giorno, pag. 164.
- ↑ Vedi detta pag. 163.
- ↑ Vedi detta pag. 162.
- ↑ Vedilo fra i Documenti, vol. I, n. 61 A.
- ↑ Vedi Mamiani Terenzio Scritti politici, Firenze Le Monnier 1858 pag. 50.
- ↑ Vedi conte Cesare Balbo, Lettere politiche 1847, in-24. nel vol. LI, delle Miscellanee, n. 2.
- ↑ Vedi Farini terza ediz. vol I, pag. 180.
- ↑ Vedi Documenti, vol. I, n. 62. A.
- ↑ Estratta dagli Scritti politici del conte Terenzio Mamiani, pubblicati nel 1853 alla pag. 50.
- ↑ Vedilo nel vol. XXV, delle Miscellanee, num. 2.
- ↑ Vedilo nel vol. I, Documenti, num. 61 A.
- ↑ Vedilo nel vol. LI, della Miscellanee, num. 2.