Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Capitolo VI
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[Anno 1846]
Non istupiscano i nostri lettori se tanto ci diffondiamo in ricerche, descrizioni e spiegazioni che alle feste o dimostrazioni popolari si riferiscono. Sono esse per noi la parte vitale di questa storia, mentre ad altri posson sembrare semplici episodi. E come ridicolo sarebbe per chi scrivesse una storia militare il non raccontare le battaglie ch’ebbero luogo, così per noi sarebbe il trasandare le dimostrazioni che furono come le battaglie della rivoluzione.
Esse per tre anni la sostennero e intronizzarono. Con esse si attaccò, s’indebolì, e si rovesciò il potere. Ad esse dunque devono principalmente esser rivolte le nostre investigazioni.
Bisognava al certo non avere occhi in fronte per non avvedersi che nelle dimostrazioni pacifiche, chiamate alla O’ Connell, dal nome di Daniello O'Connell, il quale sì felicemente seppe usufruttuarle in Irlanda, si accoglieva la realizzazione di un piano elaborato magistralmente, e che flotto apparenze di feste andavasi ad inquietare e compromettere la esistenza del governo, e la tranquillità dei cittadini.
L’autorità se ne avvide, e cercò di ripararvi, ma forse con troppa debolezza di misure, da equivalere a poco più die nulla. Simile a quelle madri, amorose sì, ma troppo molli ed indulgenti, le quali ingiungono ai loro figliuolini di guardarsi da questo o dar quel mancamento, persuase che, se pure trasgredissero il divieto, mancherebbe loro la forza di castigarneli. Non si creda però che le nostre parole ascondano un rimprovero per l’autorità. Siamo i primi noi a convenire che trovavasi in tali strette, da non potere agire diversamente, anzi in appresso, prendendo le parti di difensori dell’autorità, lo proveremo.
L’atto contemplato per ovviare al riproducimento di cosiffatte dimostrazioni fu una circolare della segreteria di stato che fu soltanto diramata alle autorità governative dei vari luoghi, ma che fu perfino ignorata dal pubblico, non avendola fatta inserire nel Diario o in altre stampe affinchè acquistasse pubblicità. E tanto poco si conobbe, che nè il Luigi Carlo Farini, nè il Ranalli, nè il Grandoni ne parlano. Forse ad arte si tenne occulta. Ma l’atto esiste, e siccome è di grande importanza perchè svela che fino da quel tempo il governo era insospettito dalle dimostrazioni, ed erasi posto in istato di resistenza, andiamo a sua giustificazione ed a schiarimento dei fatti, a riportarlo per intiero.
«Circolare, N.° 64,232, Sez. I.
- » Ill.mo e R.mo Signore,
» Le manifestazioni di gioia fattesi finora dalle popolazioni dello stato pontificio per solennizzare l’esaltazione al trono, e gli atti del nuovo pontefice Pio IX, nostro clementissimo sovrano, sono state tali, da far conoscere quanto sia colma la misura della letizia, dalla quale tutti sono compresi per sì fausto avvenimento. La gioia dei popoli formando anche quella del sovrano e suo governo, non può non esserne stato commosso vivamente l’augusto pontefice. Ciò non ostante l’animo suo, sempre inclinato a &r preferire alla sua gloria il vero bene de’ sudditi, divide il gaudio con qualche afflizione, considerando che queste feste sono il prodotto di volontarie contribuzioni, e non può egli consentire che i suoi popoli siano aggravati di dispendio per cagion sua. Oltrecchè vede con dolore che molte masse di popolazioni, abbandonandosi a questo entusiasmo, lasciano le domestiche occupazioni, dalle quali, a norma delle diverse classi cui appartengono, ritraggono il necessario sostentamento; onde il suo cuore paterno doppiamente si affligge per questa seconda perdita a danno di una parte degli amatissimi suoi sudditi. Per le esposte cagioni egli vuole che debbano cessare queste dimostrazioni dispendiose, procurando di ritornare ciascuno nell’esercizio delle proprie attribuzioni e tranquillamente attendere quelle disposizioni, delle quali il governo si sta occupando a vantaggio dello stato.
» V. S. Ill.ma vorrà pertanto darsi premura di far conoscere pubblicamente queste intenzioni del Santo Padre, nell’occasione particolarmente in cui dalle magistrature municipali, e da altri le sia richiesto il permesso di celebrare nuove feste, o di condurre di città in città numerose brigate di popolo. Che se in qualche luogo già si fossero fatte le collette per simili feste, nè si giudicasse possibile di restituire a ciascuno dei contribuenti la sua quota, molto utilmente si potranno questi contributi convertire ad alimento del popolo nella stagione invernale, mediante qualche lavoro di pubblica utilità. E per tal modo la Santità di Nostro Signore ne proverà doppia consolazione vedendo per una parte l’ossequio dei sudditi ad ogni suo desiderio, e per l’altra tornare in soccorso della indigenza ciò ch’era preparato ad onorare il suo nome in altra guisa, più splendida forse, ma men degna e men gradita che non sono le benedizioni dei poveri.
» In attenzione di relativi riscontri, rinnuovo a V. S. Ill.ma le proteste della mia distinta stima.
- » Della V. S. Ill.ma
» Affezionatissimo per servirla |
- » Roma, 8 Ottobre, 1846.»
Di quest’atto poco o nulla si parlò, perchè, come dicemmo, pochissimi lo conobbero. I progressisti però ne sentirono l’importanza. Dissimularono, e deliberarono di far comprendere al Santo Padre, alla prima occasione, che il colpo era tirato per essi, ma che avevano tanto in mano da potersene vendicare. Questa occasione si porse favorevole poco tempo dopo, come si racconterà nel capitolo seguente.1
Intanto è evidente che i desideri del pontefice di far desistere i sudditi dalle dimostrazioni non furono appagati, poichè, quantunque nel mese di ottobre non ne occorressero di quel genere che portar poteva dispendio, le agglomerazioni di popolo continuarono come prima, tutte le volte che se ne porse il destro, e questo era appunto quello che non si sarebbe voluto dal medesimo. Difatti numerosissime e clamorose al solito riuscirono le riunioni al ritorno del Santo Padre da Tivoli il 14 e da Frascati il 21 di ottobre, ed ambedue le volte ebbe luogo la consueta benedizione. Il Santo Padre poi trovavasi nella più imbarazzante posizione, perchè non poteva mostrare diffidenza verso un popolo, la cui quasi totalità a lui devota e ossequente in buona fede, era di sane idee, come quella che non aveva bevuto ancora alla tazza corrompitrice della rivoluzione. Egli parlar voleva pei cattivi, che sapeva esservene pur troppo, e che i leali Romani non credevano che vi fossero, ma non poteva distinguerli, non voleva inimicarseli nè inasprirli, e quindi trovavasi impossibilitato a farne aperta menzione, e soprattutto non poteva parlare in generale, perchè per ammonire i cattivi veniva ad offendere e disgustare i buoni. Parlando poi apertamente, se ne sarebber risentiti e i buoni e i cattivi, e questi ultimi ne avrebbero profittato per corrompere e pervertire chi non lo era.
D’altra parte la circolare sovraccitata, ch’era un atto governativo diramato alle autorità delle provincie, non fu conosciuto a Roma con certezza che dopo la metà di ottobre, tanto più che, come accadde alle circolari di segreteria di stato del 14 luglio, la loro promulgazione ebbe luogo otto o dieci giorni dopo. Sul finire di ottobre dunque si pensò a prendere la rivincita sull’atto ostile alle dimostrazioni, e questo fu nella prima occasione che presentavasi propizia il giorno 4 novembre successivo. Di ciò parleremo sotto quella data.
L’atto anzidetto metteva in chiaro evidentemente l’intenzione del governo, e slam certi che la popolazione romana vi si sarebbe uniformata se non fosse stata posta sotto l’influenza degli astuti agitatori. Egli è a sapersi dunque ch’era stata così bene ingannata, e si manteneva sì fattamente in errore dal partito della rivoluzione, che se le fece credere che atti di tale natura non muovevano dal pontefice, e che emanavano invece da quel partito vecchio e sdruscito, come chiamavanlo, che voleva contrariarlo, sicchè molti credevano in buona fede far cosa gradita al Santo Padre, mostrandosi caldi festeggiatori de’ suoi atti, quasi dicessero: Santo Padre non temete, ci siamo noi che conosciamo le vostre intenzioni benevole e le arti subdole dei vostri nemici.
Pei promotori poi era di un interesse sommo il mantenere in inganno la popolazione di Roma, e il trovare così un appoggio per disobbedire al pontefice.
Ricordiamci che ciò che pareva festa era rivoluzione, e ohe pacifica per allora bensì, ma rivoluzione voleva farsi: che altro modo non vi era per ottenere dal governo concessioni e riforme, e che quindi il dlsobbedire era pei rivoluzionari una politica e vitale necessità.
Prima di procedere innanzi preghiamo i nostri lettori di fare avvertenza che noi non intendiamo di censurare (perchè questo non è, nè dev’essere l’officio nostro), nè di giudicare della necessità o sconvenienza di ricorrere a qualche manifestazione che arrecar potesse delle utili riforme sia nel governo, sia nella sua amministrazione, perchè parrebbe anche a noi ridicolo il culto dello statu-quo, e mentre il mondo cammina, noi soli restare dovessimo nello stato d’immobilità inalterata, tanto più poi che sia nell’amministrazione della giustizia civile, sia in quella delle rendile pubbliche, sia nella ripartizione delle tasse (meno forse per difetto dei proti che della classe laicale cui apparteniamo) non crediamo che il governo andasse esente da quei nei, cui van soggetti anche gli altri governi, in guisa da doversi esso solo preporre a modello, nè crediamo che tutti i gestori dei pubblici offici fossero altrettanti campioni intemerati da imitarsi. Le perfettibilità si esaltano facilmente dai poeti, ma la storia non le conosce.
Crediamo anzi che sia il governo imperiale di Napoleone I in Roma e ne’ suoi dipartimenti, sia il regno italico nelle provincie, lasciasser di sè, per energia nel servizio degl’impiegati, per regolarità d’amministrazione, e per rigore di giustizia, traccio profonde di stima e di simpatia nella classe svegliata delle popolazioni, cosicchè i desideri di miglioramenti, avendo la loro radice nelle prenarrate cose, non sarebbero stati poi del tutto riprovevoli.
Egli è perciò che si sarebbe amata dai ben pensanti una maggiore sincerità e lealtà nella manifestazione dei desideri. È meno reo quel ladro che, arrischiando la vita, ti chiede violentemente la borsa, che quello il quale ti deruba con inganno facendoti sottoscrivere un atto per te nocevole nel tuo gabinetto, mentre, simulando amicizia, ti viene stringendo la mano.
Insorsero gli Americani contro gl’Inglesi nel secolo passato, dicendo francamente di volersi emancipare. Vinsero, furono riconosciuti, ed ora primeggiano fra le nazioni del mondo.
Insorse nel 1830 il popolo belga contro l’Olanda. Combattè, vinse, ottenne la indipendenza, e le grandi poterne sanzionarono l’atto di separazione; venne quindi costituito in regno e talmente ben regolato, che rimase immane dalla procella del 1848.
Ma quel chiedere una cosa per volerne un’altra, qnel gridare viva che significhi morte, quel vibrare il colpo letale col nostro braccio, e addossarne ad altri la colpa, son queste arti sleali e abbonimevoli che noi ripudiamo col più vivo dell’animo e vituperiamo colla nostra voce, e se cento volte più forte l’avessimo, vorremmo usarla come dice Virgilio nel libro VI dell’Eneide.2
Ritornando, dopo questa digressione, a parlare delle dimostrazioni, diremo che nel progresso di questa storia si rinverranno parecchi atti dell’autorità contrari alle medesime.
Erravamo in sui primordi del pontificato di Pio IX, e già avevamo le circolari di segreteria di stato del 14 luglio, la notificazione di monsignor Santucci del 19 dello stesso mese, e la circolare del cardinale Gizzi dell’8 di ottobre. Ma in seguito ve ne furono dei più decisi e stringenti sia per parte dei segretari di stato pro tempore, sia del governatore di Roma, sia del giornale officiale, con articoli inseriti d’ordine della stessa Santità Sua. E la medesima in appresso non alzò ancora la voce? E che per ciò? Fu sempre, sempre disobbedita.
La ragione peraltro è chiara come la luce del giorno, e costituisce la prova migliore che la inobbedienza non veniva dalla popolazione romana ch’era nella generalità ossequiosa al papa, e lo voleva, ma da quelli appunto, che volendosi togliere dì mezzo questo inciampo molesto, dovean disobbedirlo, fingendo sempre di esaltarne con ovazioni le gesta; poichè, così perseverando, il conflitto dovea giungere un giorno, ed allora dai fiori come accadde, sariasi passato alle armi. E queste son cose che in allora tutti sentimmo colle nostre orecchie, e delle quali possiam farci mallevadori. Ma siccome, quantunque fosser cose vere, niuno avrebbe osato di proclamarle ad alta voce, nè esisteva giornale alcuno che nella sua polemica ne facesse motto, nè scritto clandestino qualunque che venisse a rischiarare la pubblica opinione su cosa di sì grave momento, così restavan tutti, e ne parevan contenti, assorti e sbalorditi in una specie d’inganno spensierato.
La furberia giungeva a tale, che facevasi credere al popolo non dispiacere al papa questa inobbedienza; ch’esso anzi amava le dimostrazioni pacifiche, e che le avversavan soltanto i suoi ministri, perchè indottivi tuttavia dalle brighe dei devoti al cessato governo gregoriano. E volete vedere, aggiungevano, se la cosa è così? Niuno degli atti contrari alle dimostrazioni porta la firma di Pio IX. E intanto gran parte del popolo sel credeva, e ripeteva dietro i suggerimenti di chi guidavalo: che il Santo Padre era buono e clemente, ch’esso solo voleva il bene del popolo, ma che i ministri suoi erano più o meno panno della stessa lana dei gregoriani. A questo proposito non sia inopportuno avvertire essere regola costante dei politici cospiratori lo esaltare i sovrani, e deprimere i loro ministri per isolarli.
Questo dicevasi già nel 1846; questo pure si disse nel 1847. Nel 1848 però, quando parlò e sottoscrisse anche il papa, il rammentiamo con vergogna ed orrore, i rivoluzionari per disfogare la loro rabbia insensata, lacerarono i suoi atti nelle pubbliche strade.
I promotori pertanto così operando venivano a raggiungere lo scopo propostosi, e che stava in cima di ogni lor pensiero, e questo scopo (non è ora più un mistero) era il volere esautorare il papato del governo degli stati romani, operando ciò gradatamente e continuatamente con canti, suoni, feste, evviva, e benedizioni, di cui una non aspettasse l’altra, affinchè non dando mai luogo alla riflessione, ma continuando sempre sotto l’impero della ebrietà, non avvenisse un raffreddamento.
I direttori sapevan bene quel che si facessero, perchè erano ammaestrati dalla esperienza che coll’agitazione continuata ottenne il famoso O’Connel e l’emancipazione dei cattolici e la reintegrazione dei diritti civili, e la rappresentanza in parlamento per essi, senza urti, senza violenze , e senza spargimento di sangue.
Disobbedire e andare avanti nelle dimostrazioni era dunque la parola d’ordine, e la popolazione romana associandovisi, avrebbe servito senza saperlo di celata e di usbergo BÌ promotori, mentre il governo, per motivo si apparentemente innocente, non sarebbe giammai venuto agli estremi di fare fuoco sul popolo per impedirle. Ritrovato questo sotterfugio, e penetrato il pensiero del governo, il loro trionfo era certo. Crediamo che riuscirebbe malagevole a chi che sia lo smentire questi fatti.
Abbiamo veduto nelle pagine precedenti come i primi istigatori delle dimostrazioni romane fossero i Mazzini, i Montanelli, e i Mamiani.
Risulta però che i Ricciardi, i Rossetti, i Canuti, e tanti altri all’estero residenti cospirassero sia colle dimostrazioni pacifiche, sia con altri mezzi per ribellare Roma e l’Italia, ma Roma sopratutto, che ne doveva essere il centro diffonditore.
Abbiamo dunque più che sufficenti le prove della non ispontaneità e non originalità romana, una volta che risulta i suddetti esserne stati i capi.
E se i capi non furono Romani, romane non furono le dimostrazioni; e le recenti memorie del Gaiani, delle quali abbiam tenuto discorso nel capitolo m, cel confermano. Cosi risulta già, e risulterà meglio in seguito, che le manifestazioni popolari sovraccennate furono V anima e il nerbo della rivoluzione. Ed anche in Roma i più che sì mischiarono in codeste faccende non furon Romani e ne citeremo in esempio i Bezzi, i Matthey, i Tommasoni, i Masi, i Canino, gli Sterbini, i d'Azeglio ed i Zauli-Saiani.
E quantunque, come dicemmo, quasi tutti i promotori fossero estranei a Roma, non è perciò da doverli ravvolgere tutti in un fascio, quasi che fosser tutti cospiratori. Dio ce ne guardi. Sappiamo, e il sappiamo di certa scienza, che non pochi giovani colti, e di un sentire nobile, generoso, e proclive alla beneficenza, furon colpiti siffattamente dalla soavità dell’atto di amnistia, che si dedicaron tutt’uomo a favorire le dimostrazioni al Santo Padre, ma il fecero di proprio moto, senza fine secondario, e scevri da qualunque influenza che venisse dall’estero, o che fosse connessa con un piano da altri preconcetto.
L’effervescenza giovanile poi risvegliava e nutriva in essi vergini speranze di sociali miglioramenti, e di benessere si fisico, come morale.
E le speranze di questi beni che così vivamente linfbcolavano le loro giovanili immaginazioni, tanto più venivano rinvigorite, quanto meno sembrava loro essere state sentite e caldeggiate nei pontificati decorsi. La virtù non mancò in tanto svolgimento di affetti e di passioni. E se vi fu della poltiglia e del lezzo, vi fu ben anco dell’oro puro, e queste sostanze così fra loro difformi non possono e non devono andare insieme confuse.
Il molto che abbiam detto per chiarire tuttociò che alle dimostrazioni si riferisce, trova la sua esplicazione nel nostro desiderio, e nel dovere che c’incombe di tributare ad ognuno ciò che di diritto gli appartiene, e quindi abbiam voluto purgare i Romani dalla taccia, fondata sulle apparenze, di esserne stati essi i promotori.
Che se l’inganno è sempre vituperevole, lo è a mille doppî quando viene ordito contro chi, come il sommo pontefice Pio IX, presentavasi circondato dall’aureola di tutte le più sublimi virtù innestate in un cuor generoso, onorato e gentile.
Abbiamo provato bensì che i Romani vi si associarono in buona fede e con rette intenzioni. Ed appunto perchè agivan di buona fede e con rettitudine d’intenzioni, avrebber veduto di mal occhio che se ne fosse voluto impedire la ripetizione; tanto più che le prime dimostrazioni riuscirono A liete, si commoventi, e sì grandiose, che gli animi ne restavano dolcemente inebriati e rapiti.
Che se la vera popolazione romana avesse potuto prevedere che cosiffatte dimostrazioni erano mezzo, e mezzo potentissimo, a minare e scassinare dalle fondamenta le basi dell’autorità, non vi si sarebbe associata per certo, perchè il vero Romano avendo ereditato i germi del grande del nobile, e del generoso, abborre tutto ciò che sente di basso, di vile, di vituperevole.
E ciò quanto alle dimostrazioni.
Eran già quattro mesi decorsi dalla elezione del Santo Padre, e tre dall’atto di amnistia, e ad onta della pressura che per tutti i versi, e in voce e in iscritto e col lenocinio delle feste erasi esercitato sul medesimo, poco o nulla vedevasi di ciò che contentar potesse gl’intemperanti desideri dei più corrivi, e le limitate speranze dei moderati.
Se togli di fatto la manifestazione delle buoni intenzioni per parte del Santo Padre, e qualche circolare della segreteria di stato sulla educazione della gioventù e sui sequestri a carico degl’impiegati, poco o nulla si vide di ciò che speravasi, e quindi parole d’impazienza già sfuggivan dal labbro mendace dei lodatori eccessivi.3
Il 10 di ottobre apparve come lenitivo altra circolare del cardinale Gizzi per promuovere lavori di pubblica beneficenza4 e la creazione di una commissione sotto la presidenza dell’eminentissimo segretario di stato, per una migliore divisione di materie e di attribuzioni fra i diversi offici di amministrazione pubblica, e per la istituzione di un Consiglio di ministri. Detta commissione era tutta prelatizia, e n’era segretario monsignor Giovanni Rusconi, uomo adattato ai tempi per cultura di spirito, cognizioni moderne, e idee più avvicinantesi alle correnti.5
Ricevette il Santo Padre due giorni dopo, la visita della regina d’Olanda e del principe Alessandro suo figlio.6
La società principe Conti e compagni, che il 14 luglio presentò al Santo Padre il suo progetto sulle strade ferrate, cambiata ditta, e assunto il nome di Società nazionale, emise il 3 novembre il suo programma col quale, rinunziando ai cinque baiocchi e mezzo al giorno, proponeva duecentocinquantamila azioni di scudi cento ciascuna, pagabili in rate trimestrali di scudi tre per otto anni. Quantunque essa non presentasse sufficienti garanzie di solidità, perchè vedevi figurarvi fra i promotori moltissimi nomi rispettabili per coltura d’ingegno, ma pochi ricchi capitalisti, pure pei tempi che correvano, aveva qualche apparenza di possibilità, come niuna ne avrebbe avuta in tempi regolari.7
Ma siamo giunti omai alla dimostrazione del 4 novembre, e con essa apriremo le pagine del capitolo seguente.
Note
- ↑ Il detto atto venne riportato bensì nella Pallade di Gerardi alla pagina 114, sotto la data del 14 ottobre.
- ↑
Non, mihi si lingua centum sint, oraque centum,
Ferrea vox, omnes scelerum comprendere formas,
Omnia poenarum percurrere nomina possim.(Virg., Æneid., libro VI, verso 625)
- ↑ Vedi un foglietto clandestino diretto al medesimo cardinale. Esso porta la data di Roma del 20 settembre 1846, ed è pieno di lamenti pel non fatto e di consigli sul da fare, nel vol. I, Documenti, n. 46.
- ↑ Vedi il vol. I, intitolato Motu-propri ec. n. 4. A.
- ↑ Vedi il Diario di Roma del 10 settembre, n. 81.
- ↑ Vedi Diario di Roma del 13 ottobre.
- ↑ Vedi Documenti, vol. I, n. 54.