Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XVII. Torquato Tasso/I.
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L’Ariosto, il Machiavelli, l’Aretino sono le tre forme dello spirito italiano a quel tempo: un’immaginazione serena e artistica, che si sente pura immaginazione e beffa se stessa; un intelletto adulto, che dá bando alle illusioni dell’immaginazione e del sentimento, e t’introduce nel santuario della scienza, nel mondo dell’uomo e della natura; una dissoluzione morale, senza rimorso, perché senza coscienza, perciò sfacciata e cinica. Intorno all’Ariosto si schierano gl’innumerabili novellieri, romanzieri e comici, pasto avido di popolo colto e ozioso, che vive di castelli incantati, perché non prende piú sul serio la vita reale. Intorno al Machiavelli si stringono tutta una schiera d’illustri statisti e storici, come il Guicciardini, il Giannotti, il Paruta, il Segni, il Nardi e tutt’i grandi pensatori, che cercano la redenzione nella scienza. Attorno all’Aretino si move tutto il mondo plebeo de’ letterati, istrioni, buffoni, cortigiani, speculatori e mestieranti. L’Ariosto spinge l’immaginazione fino al punto che provoca l’ironia. Il Machiavelli spinge la sua realtá e la logica a tal segno che produce il raccapriccio. E l’Aretino spinge il suo cinismo a tal grado che produce il disgusto. Queste tre forme dello spirito si riflettono in loro ingrandite e condensate.
Quello era il tempo che i grandi Stati d’ Europa prendevano stabile assetto e fondavano ciascuno la «patria» di Machiavelli, cioè una totalitá politica fortificata e cementata da idee religiose, morali e nazionali. E quello era il tempo che l’Italia non solo non riusciva a fondare la patria, ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertá, il suo primato nella storia del mondo.
Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era una certa soddisfazione. Dopo tante calamita venivano tempi di pace e di riposo, e il nuovo dominio non parve grave a popoli stanchi di tumulti e di lotte, avvezzi a mutare padroni e pazienti di servitú, che non toccava le leggi, i costumi, le tradizioni, le superstizioni e assicurava le vite e le sostanze. Alcun moto di plebe ci fu, come a Napoli per l’Inquisizione e per la gabella de’ frutti, cagionato da poca abilitá ne’ governanti anziché da elevatezza di sentimenti ne’ sudditi. Quanto alle classi colte, ritirate da gran tempo nella vita privata, negli ozi letterari e ne’ piaceri della cittá e della villa, niente parve loro mutato in Italia, perché niente era mutato nella lor vita. Contenti anche i letterati, a’ quali non mancava il pane delle corti e l’ozio delle accademie. Questa Italia spagnuola-papale aveva anche un aspetto piú decente. A forza di gridare che il male era nella licenza de’ costumi, massime fra gli ecclesiastici, il concilio di Trento si diede a curare il male, riformando i costumi e la disciplina. «Si non caste, tamen caute». Al cinismo successe l’ipocrisia. Il vizio si nascose, si tolse lo scandalo. E non fu piú tollerata tutta quella letteratura oscena e satirica: Niccolò Franco, l’allievo e poi il rivale di Pietro Aretino, predicatosi da sé «flagello del ‘flagello de’ principi’», finí impiccato per un suo epigramma latino. Il riso del Boccaccio morí sulle labbra di Pietro Aretino. La censura preventiva, stabilita giá dal concilio lateranense, fu applicata con severitá: fu costituita la congregazione dell’Indice. Sorsero nuovi ordini religiosi per la riforma de’ costumi e l’educazione della gioventú: i teatini, i somaschi, i barnabiti, i padri dell’oratorio, i gesuiti. Si composero poesie sacre, che si cantavano nelle chiese e nelle processioni. San Filippo Neri introdusse gli oratòri, drammi e commedie sacre. L’istruzione cadde in mano a’ preti e a’ frati. Spirava un odore di santitá!
Questa fu la riforma fatta dal concilio di Trento e che il Sarpi chiama «difformazione». Il tema prediletto de’ poeti italiani e de’ protestanti erano gli scandali della corte romana. Roma, la «meretrice» di Dante, la «Babilonia» del Petrarca, era stata assalita da’ protestanti nel suo lato piú debole e piú efficace sulle grossolane moltitudini: nella sua scostumatezza. Il concilio spezzò quest’arma antica di guerra in mano agli avversari, riformando la disciplina e dando in questo ragione al vecchio Savonarola. Rimosso lo scandalo, il concilio credea di aver tolta alla Riforma protestante la sua ragion di essere, e stimò possibile una conciliazione. Ma la licenza de’ costumi era il pretesto e non la cagion vera e intima della Riforma germanica e della incredulitá italiana, che era l’intelletto giá adulto e libero, che non voleva riconoscere autoritá di sorta e reclamava la libertá di esame. Ora il concilio non dava a questo alcuna soddisfazione, come sarebbe stato un accostare la gerarchia a forme democratiche e lasciare alcuna larghezza di opinione in certe quistioni; anzi fece proprio l’opposto: rafforzò l’autoritá papale a spese de’ vescovi, atteggiando la gerarchia a monarchia assoluta, e definí tutte le quistioni di domma e di fede, negando la competenza della ragione e della coscienza individuale. Cosi la scissione divenne definitiva, e l’Europa cristiana fu divisa in due campi: dall’un lato la Riforma, dall’altro il romanismo e il papismo. La Riforma avea per bandiera la libertá di coscienza e la competenza della ragione nell’interpretazione della Bibbia e nelle quistioni teologiche: il romanismo avea per contrario a fondamento l’autoritá infallibile della Chiesa, anzi del papa, e l’ubbidienza passiva, il «credo quia absurdum». Questa lotta tra la fede e la scienza, l’autoritá e la libertá, è antica, coeva alle origini stesse della religione; ma si manifestava in quistioni parziali intorno a questo o a quel domma: e solo allora se ne acquistò coscienza, e la differenza fu elevata a principio. In questa coscienza piú chiara sta l’importanza della Riforma e del concilio di Trento. Innanzi di questo tempo ci era in Italia una specie di ecletismo, per il quale filosofia e teologia andavano insieme, senza troppo saper come, a quel modo che classicismo e cristianesimo; e le idee piú ardite si facevano largo, quando erano accompagnate con la clausola «salva la fede». Era una specie di compromesso tacito, per il quale il mondo, bene o male, andava innanzi senza troppi urti. Ora non sono piú possibili gli equivoci, le cautele e ipocrisie oratorie: le due parti sanno quello che vogliono e stanno a fronte nemiche. La Chiesa, anzi il papa si proclama solo e infallibile interprete della veritá, e dichiara eretica non questa o quella proposizione solamente, ma la libertá e la ragione, il dritto di esame e di discussione. Da questa lotta esce il concetto moderno della libertá. Presso gli antichi «libertá» era partecipazione de’ cittadini al governo, nel qual senso è intesa anche dal Machiavelli. Presso i moderni accanto a questa libertá politica è la libertá intellettuale o, come fu detto, la «libertá di coscienza», cioè a dire la libertá di pensare, di scrivere, di parlare, di riunirsi, di discutere, di avere una opinione e divulgarla e insegnarla: libertá sostanziale dell’individuo, dritto naturale dell’uomo e indipendente dallo Stato e dalla Chiesa. Di qui viene questa conseguenza : che interpretare e bandire la veritá è dritto naturale dell’uomo e non privilegio di prete; sicché proprio della Riforma fu il secolarizzare la religione. Il concetto opposto, fondato sull’onnipotenza della Chiesa o dello Stato, è il dritto divino, la teocrazia, il cesarismo, assorbimento dell’individuo nell’essere collettivo, come si chiami, o Chiesa o Stato, o papa o imperatore.
Il concilio di Trento portava conseguenze non solo religiose, ma politiche. Da esso usciva la consacrazione della monarchia assoluta sulle rovine de’ privilegi feudali e delle franchigie comunali. Papa e re si diedero la mano. Il re prestava al papa il braccio secolare, e il papa lo consacrava, lo legittimava, gli dava i suoi inquisitori e i suoi confessori. La monarchia fu ordinata a modo della gerarchia ecclesiastica e fondata sullo stesso principio dell’autoritá e della ubbidienza passiva. Trono e altare furono del pari inviolabili e indiscutibili. E fu atto di ribellione pensare liberamente di papa o di re, anzi venne su il motto: «De Deo parum, de rege nihil». Cosi la religione divenne un istrumento politico, il dispotismo religioso divenne il sussidio naturale del dispotismo politico.
Ma l’autoritá e la fede sono di quelle cose che non si possono imporre. E in Italia era cosi difficile restaurare la fede, come la moralitá. Ciò che si potè conseguire fu l’ipocrisia, cioè a dire l’osservanza delle forme in disaccordo con la coscienza. Divenne regola di saviezza la dissimulazione e la falsitá nel linguaggio, ne’ costumi, nella vita pubblica e privata: immoralitá profonda, che toglieva ogni autoritá alla coscienza ed ogni dignitá alla vita. Le classi colte, incredule e scettiche, si rassegnarono a questa vita in maschera con la stessa facilitá che si acconciarono alla servitú e al dominio straniero. Quanto alle plebi, vegetavano, e fu cura e interesse de’ superiori lasciarle in quella beata stupiditá.
Non mancarono resistenze individuali. Molti uomini pii, e anche ecclesiastici, amarono meglio ardere su’ roghi o esulare che mentire alla coscienza. Intere famiglie abbandonarono l’Italia e portarono altrove le loro industrie. Uomini egregi di virtú e di scienza onorarono il paese natio scrivendo, predicando nella Svizzera, nell’Inghilterra, in Germania. Operosissimo fra tutti il Socino da Siena, da cui presero nome i sociniani. Il suo merito è di avere avuto della Riforma una coscienza assai piú chiara che non Lutero e non Calvino, facendo fede quanto l’intelletto italiano era innanzi in queste speculazioni. Perché il Socino, uscendo dalle quistioni parziali intorno a questo o a quel pronunziato teologico, sulle quali battagliavano Lutero, Melantone e Calvino, proclama la ragione sola competente, negando ogni elemento soprannaturale, e fa centro dell’universo l’uomo nel suo libero arbitrio, negando l’onniscienza divina e la predestinazione. Ci si vede subito l’italiano, il concittadino di Machiavelli.
A questi esempi e a questi martiri l’Italia rimaneva indifferente. Quistioni, che insanguinavano mezza Europa, non la toccavano. Ed erano quistioni, dalle quali, sciolte nell’uno o nell’altro modo, dipendeva l’avvenire della civiltá e la sorte delle nazioni. Rimase romana tutta la gente latina: Spagna, Francia, Italia. Ma in Francia e nella Spagna non fu se non dopo accanite persecuzioni, che resero indimenticabile il tribunale della Inquisizione e la giornata di san Bartolomeo. In quelle lotte lo spirito nazionale si ritemprò, e si svegliarono gl’intelletti; e il sentimento religioso, esaltato dagl’interessi politici e dal fanatismo delle plebi, fu fattore di civiltá, accentrò le forze intorno alla monarchia assoluta, costituí fortemente l’unitá nazionale e impresse alla vita intellettuale un moto piú celere. La Spagna di Carlo quinto e di Filippo secondo ebbe il suo Cervantes, il suo Lope e il suo Calderon; e la Francia ebbe il suo secolo d’oro co’ suoi poeti, filosofi e oratori, ebbe Cartesio, Malebranche e Pascal, ebbe Bossuet e Fénelon, Corneille, Racine e Molière. Le due nazioni uscirono dalla lotta potenti, prospere e saldamente unificate.
In Italia non ci fu lotta, perché non ci fu coscienza, voglio dire convinzioni e passioni religiose, morali e politiche. Le altre nazioni entravano pure allora in via; essa giungeva al termine del suo cammino stanca e scettica. Rimase papale, con una coltura tutta pagana ed antipapale. Il suo romanismo non fu effetto di rinnovamento religioso negli spiriti, come tentò di fare frate Savonarola; fu inerzia e passivitá: mancava la forza e di combatterlo e di accettarlo. Piacque quella maggiore castigatezza e correzione nelle forme, stucchi della licenza; né dispiaceva quel nuovo splendore del papato; e, non avendo patria, si fabbricavano volentieri una patria universale o cattolica, col suo centro a Roma. Venne in voga predicare contro gli eretici e celebrare le vittorie cattoliche sopra i turchi, come quella di Lepanto e piú tardi quella di Vienna. Papa e Spagna imperavano, nessuno riluttante. Ma, se Filippo secondo o Luigi decimoquarto potevano dire: — Lo Stato son io; — Spagna e papa non potevano dire: — L’Italia siamo noi. — Mancavano loro quei gagliardi consensi, che vengono dal di dentro e formano il vincolo nazionale. Lo spirito italiano ubbidiva inerte e non scontento; ma rimaneva al di fuori, non s’immedesimava in loro. Le idee vecchie non erano credute piú con sinceritá, e mancavano idee nuove che formassero la coscienza e rinvigorissero la tempra: indi quel consenso superficiale ed esteriore, quello stato di acquiescenza passiva e di sonnolenza morale. L’intelletto in quella sua virilitá non apparteneva a loro: era contro di loro. E se vogliamo trovare i vestigi di una nuova Italia che si vada lentamente elaborando dobbiamo cercarli nell’opposizione fatta a Spagna e papa. La storia di questa opposizione è la storia della vita nuova.
Il primo fenomeno di questa sonnolenza italiana fu il meccanismo: una stagnazione nelle idee, uno studio di fissare e immobilizzare le forme. Si arrestò ogni movimento filosofico e speculativo. Il concilio di Trento avea poste le colonne d’Ercole, avea pensato esso per tutti. La scienza fu presa in sospetto. Permesso appena il platonizzare. I grandi problemi della destinazione umana, etici, politici, metafisici, furono messi da parte, ed al pensiero non rimase altro campo che lo studio della natura ne’ limiti della Bibbia. Crebbe invece lo studio delle forme.
Fu allora che si formò l’accademia della Crusca, e fu il concilio di Trento della nostra lingua. Anch’essa scomunicò scrittori e pose dommi. E ne venne un arruffio, concepibile solo in quell’ozio delle menti.
La nostra lingua avea giá una forma stabile e sicura in tutta Italia. Il toscano era «il fiore della lingua italiana» : cosi dice Speron Speroni. Ci era dunque una lingua italiana, vale a dire un fondo comune di vocaboli, con una comune forma grammaticale, atteggiato variamente e colorito secondo le varie parti d’Italia. Allora, come ora, si sentiva nello scrittore l’italiano e anche il toscano, il lombardo o il veneziano o il napolitano. Questa varietá di atteggiamento e di colorito, questo elemento locale era la parte viva della lingua, che lo scrittore attingeva dall’ambiente in cui era. Se Firenze fosse stata un centro effettivo d’Italia come Parigi, la lingua fiorentina sarebbe rimasta lingua viva di tutti gli scrittori italiani, che ivi avrebbero avuto la loro naturale attrazione. Ma Firenze era allora per gli italiani un museo, da studiarsi nei suoi monumenti, voglio dire ne’ suoi scrittori. L’accademia della Crusca considerò la lingua come il latino, vale a dire come una lingua compiuta e chiusa in sé, di modo che non rimanesse a fare altro se non l’inventario. Chiamò puri tutt’ i vocaboli contenuti nel suo dizionario e usati da questo o da quello scrittore, e scomunicò tutti gli altri. Fece una scelta degli scrittori, e di sua autoritá creò gli eletti ed i reprobi. Cosi la lingua, segregata dall’uso vivente, divenne un cadavere, notomizzato, studiato, riprodotto artificialmente; e gl’italiani si avvezzarono a imparare e scrivere la loro lingua come si fa il latino o il greco. Il Petrarca e il Boccaccio diventarono modelli cosi inviolabili come la Bibbia, e il «non si può» venne in moda anche per le parole, tanto che mancò pazienza fino al gesuita Bartoli. A mostrare in qual modo studiassero i nostri letterati, cito ad esempio un uomo coltissimo e d’ingegno non ordinario, Speron Speroni:
Io veramente fin da’ primi anni, desiderando oltramodo di parlare e di scrivere volgarmente i concetti del mio intelletto, e questo non tanto per dovere essere inteso, il che è cosa da ogni volgare, quanto a fine che ’l nome mio con qualche laude tra i famosi si numerasse, ogni altra cura posposta, alla lezion del Petrarca e delle Cento novelle con sommo studio mi rivolgei: nella qual lezione con poco frutto non pochi mesi per me medesimo esercitatomi, ultimamente, da Dio inspirato, ricorsi al nostro messer Trifon Gabriele; dal quale benignamente aiutato, vidi ed intesi perfettamente quei due autori, li quali, non sapendo che notar mi dovessi, avea trascorso piú volte.
Questo è un solo periodo! e che affanno! e domando se vi par lingua viva. Ecco ora in iscena Trifone, uno de’ grammatici e critici piu riputati e chiamato il «Socrate» di quella etá:
Questo nostro buon padre primieramente mi fece noti i vocaboli; poi mi die’ regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni de’ nomi e verbi toscani; finalmente gli articoli, i pronomi, i participi, gli ad verbi e l’altre parti d’orazione distintamente mi dichiarò: tanto che, accolte in uno le cosette imparate, io ne composi una mia grammatica, con la quale, scrivendo, io mi reggeva... Poiché a me parve d’esser fatto un solenne gramatico... io mi diedi al far versi. Allora pieno tutto di numeri, di sentenzie e di parole petrarchesche e boccacciane, per certi anni fei cose a’ miei amici meravigliose; poscia, parendomi che la mia vena s’incominciasse a seccare (perciocché alcune volte mi mancava i vocaboli, e, non avendo che dire, in diversi sonetti uno istesso concetto m’era venuto ritratto), a quello ricorsi che fa il mondo oggidí, e con grandissima diligenzia fei un rimario o vocabolario volgare, nel quale per alfabeto ogni parola, che giá usarono questi due, distintamente riposi: oltra di ciò, in un altro libro i modi loro del descriver le cose, giorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza, si fattamente raccolsi, che né parole né concetto non usciva di me che le novelle e i sonetti loro non ne fossero esempio... Era d’opinione che la nostra arte oratoria e poetica altro non fosse che imitar loro ambidue, prosa e versi a lor modo scrivendo.
Adunque la lingua, la «testura delle parole», i loro «numeri» e la loro «concinnitá», frasi del tempo, si studiavano nel Boccaccio e nel Petrarca, e se ne cavarono grammatiche, dizionari e repertori di frasi e di concetti. Cosi insegnava Trifone Gabriele, detto «Socrate», e cosi praticava Speron Speroni, riuscito con questa scuola a scrivere in quel gergo artificiale e convenzionale che si è visto. Cosi la lingua, fatta classica e pura, rimase immobile e cristallizzata come lingua morta, e il suo studio divenne difficilissimo. Si voleva non solo che la parola fosse pura ma che fosse «numerosa» ed elegante. Si formò una scienza de’ numeri non pure in verso, ma in prosa. Il periodo divenne un artificio complicatissimo. Eccone un saggio nello Speroni:
...come la composizion della prosa è ordinanza delle voci delle parole, cosi i numeri sono ordini delle sillabe loro, con li quali, dilettando gli orecchi, la buona arte oratoria incomincia, continua e finisce l’orazione; perciocché ogni clausula, come ha principio, cosi ha mezzo e fine: nel principio si va movendo ed ascende; nel mezzo, quasi stanca della fatica, stando in pié, si posa alquanto; poi discende e vola al fine per acquetarsi... La prosa alcuna volta ben compone le parole non belle, e altra volta le belle malamente va componendo; e può occorrere che, siccome nella musica bene e spesso le buone voci discordano e le non buone o per usanza o per arte sono tra loro concordi, cosi i pari, i simili ed i contrari, cose tutte per lor natura ben risonanti, qualche volta con voce aspra e difforme, qualche volta scioccamente ed a bocca aperta, va esplicando la orazione. Finalmente molte fiate intra viene che la prosa perfettamente composta, quasi fiume del proprio corso appagandosi, non si cura, non che di giungere al fine, ma di posarsi per lo cammino, e va sempre, e, se’ l fiato non le mancasse, continuamente tutta sua vita camminarebbe: però a’ numeri ricorriamo, li quali, attraversando la strada, piacevolmente, con lusinghe e con vezzi, a rinfrescarsi ed albergare con loro la invitino, e, non valendo la cortesia, vogliano usare le forze e per ben suo, mal suo grado, con violenzia l’arrestino.
Con questi criteri non è maraviglia che, a lungo andare, si sia giunto a tale, che un predicatore componeva i suoi periodi a suon di musica. E si comprende anche che lo Speroni fabbricasse a questo modo i suoi periodi, e quanta ammirazione dovessero destare i periodi, con tanto artificio congegnati, del Bembo, del Casa o del Castiglione. La parola ebbe una sua personalitá: fu isolata dalla cosa; e ci furono parole pure e impure, belle e brutte, aspre e dolci, nobili e plebee. Nella scelta delle parole stava il segreto della eleganza. Si cercava non la parola propria, ma la parola ornata o la perifrasi. La ripetizione era peccato mortale; e, se la cosa era la stessa, dovea cercarsi una diversa parola, tacere i nomi propri, e «ogni cosa delle altrui voci adornare», come lo Speroni nota del Petrarca, il quale chiamò «la testa ‘oro fino’ e ‘tetto d’oro’; gli occhi ‘soli’, ‘stelle’ ‘zaffiri’, ‘nido e albergo d’amore’; le guance or ‘neve e rose’, or ‘latte e foco’; ‘rubini’ i labbri, ‘perle’ i denti; la gola, il
petto ora ‘avorio’, ora ‘alabastro’». Una lingua viva è sempre propria, perché la parola ti esce insieme con la cosa: una lingua morta è necessariamente impropria, perché la trovi ne’ dizionari e negli scrittori bella e fatta, mutilata di tutti quegli accessori che il popolo vi aggiungeva e che determinavano il suo significato e il suo colore. Cosi la nostra lingua, giunta a un alto grado di perfezione, che pure allora nella Eneide del Caro e nel Tacito del Davanzati mostrava la sua potenza, si arrestò nel suo sviluppo, a quel modo che la vita italiana; e disputavano come si avesse a chiamare, o «toscana» o «fiorentina» o «italiana», quando era giá bella e imbalsamata, ben rinchiusa e coperchiata nel dizionario della Crusca.
Il medesimo era della grammatica. Si cercò il criterio non nella natura e nel significato delle cose e non nella logica necessitá, ma nell’uso variabilissimo degli scrittori. Indi regole arbitrarie e piú arbitrarie eccezioni, e quella folla di significati attribuiti a una sola parola, e tante inutilitá decorate col nome di «ripieno», e sottigliezze infinite su di una lettera o una sillaba. Onde nacque una ortografia in molte parti campata in aria e tentennante, una sintassi complicata e incerta, un guazzabuglio di particelle, pronomi, generi, casi, alterazioni e costruzioni, una grammatica che anche oggi è una delle meno precise e semplici. Avemmo una lingua senza proprietá e una grammatica senza precisione; perché lingua e grammatica furono considerate non in rispetto alle cose, ma per se stesse, come forme vacue e arbitrarie.
L’attenzione era tutta al di fuori, sulla superficie. La letteratura fu un artificio tecnico, un meccanismo. E si cercò il suo fondamento non nelle ragioni intrinseche di ciascuna forma messa in relazione con le cose, ma nell’esempio degli scrittori. Come del periodo, cosi immaginarono uno schema artificiale e immobile di composizione, la cui base fu posta in una certa concordanza del tutto e delle parti, come in un orologio, e questo chiamavano «scrivere classico». Smarrito il sentimento dell’arte e della poesia, non rimase che un concetto prosaico di perfezione meccanica, la regolaritá e la correzione. Davano una importanza straordinaria alla lingua, alla grammatica, all’elocuzione, al periodo, alla composizione : e qui erano le colonne di Ercole, qui finiva la critica. Gli scrittori, giudicati secondo questi criteri, erano piú o meno lodati secondo che piú o meno si avvicinavano al modello. Si vantavano le commedie e le tragedie di quel tempo per la loro conformitá alle regole. E come un effetto bisognava ottenere sugli spettatori, e quella regolaritá ammiratissima era pur la piú noiosa cosa di questo mondo, cercavano l’effetto ne’ mezzi piú grossolani e caricati, a cui sogliono ricorrere gli uomini mediocri. Le commedie erano buffonerie, le tragedie erano orrori, e tra le piú insopportabili era appunto la Canace dello Speroni. Una sola cosa mancava all’Italia, il genere eroico, e lo Speroni è tutto sconsolato di non trovarne l’esempio nel Petrarca. «Quasi nuovo alchimista, lungamente mi faticai per trovare l’eroico, il qual nome niuna guisa di rima dal Petrarca tessuta non è degna di appropriarsi.» Il Trissino era mal riuscito. L’Orlando furioso era fuori regola, e gli si perdonava perché era «romanzo» e non poema. Il problema era di «trovare l’eroico», come diceva lo Speroni. Ciascun vede quanto Pietro Aretino entrasse innanzi, per ingegno critico, a tutti costoro.
Conforme a quei criteri era la pratica. Comenti al Boccaccio e al Petrarca infiniti. Molte traduzioni di classici, tra le quali il Livio del Nardi, la Rettorica e l’Eneide del Caro, le Metamorfosi dell’Anguillara, il Tacito del Davanzati. Grammatiche e rettoriche tutte ad uno stampo, dal Bembo al Buommattei, detto «messer Ripieno», anzi sino al matiche e rettoriche tutte ad uno stampo, dal Bembo al Corticelli. Imitazioni, anzi contraffazioni classiche in uno stile artificiato, che tirava a sé anche i piú robusti ingegni, anche il Guicciardini. E le accademie, che moltiplicavano sotto i nomi piú strani, dove, finiti i baccanali, regnavano vuote cicalate e dispute grammaticali. Come contrapposto, non mancavano gli eccentrici, che cercavano fama per via opposta, come il Lando, che chiamava «imbecille» il Boccaccio e «animalaccio» Aristotele e solleticava l’attenzione pubblica co’ suoi Paradossi.
Nella prima metá del secolo la libertá, anzi la licenza dello scrivere gittava in mezzo a quell’aspetto uniforme e pedantesco della letteratura la vivezza, la grazia, la mordacitá, la lubricitá, la personalitá dello scrittore. Dirimpetto al classico ci era l’avventuriere.
Ultimo di questi avventurieri fu Benvenuto Cellini, morto nel i57i. Natura ricchissima, geniale e incolta, compendia in sé l’italiano di quel tempo, non modificato dalla coltura. Ci è in lui del Michelangiolo e dell’Aretino insieme fusi, o piuttosto egli è l’elemento greggio, primitivo, popolano, da cui usciva ugualmente l’Aretino e Michelangiolo.
Artista geniale e coscienzioso, l’arte è il suo dio, la sua moralitá, la sua legge, il suo dritto. L’artista, secondo lui, è superiore alla legge, e «gli uomini, come Benvenuto, unici nella loro professione, non hanno ad essere obbligati alle leggi». Cerca la sua ventura di corte in corte, armato di spada e di schioppetto, e si fa ragione con le sue armi e con la lingua, non meno mortale, che «fora e taglia». Se incontra il suo nemico, gli tira una stoccata; e se lo ammazza, suo danno, perché «li colpi non si danno a patti». Se lo mettono prigione, gli pare uno scandalo e gli fanno uno «scellerato torto». È divoto come una pinzochera, e superstizioso come un brigante. Crede a’ miracoli, a’ diavoli, agl’incantesimi, e, quando ne ha bisogno, si ricorda di Dio e de’ santi, e canta salmi e orazioni, e va in pellegrinaggio. Non ha ombra di senso morale, non discernimento del bene e del male, e spesso si vanta di delitti che non ha commessi. Bugiardo, millantatore, audace, sfacciato, pettegolo, dissoluto, soverchiatore e, sotto aria d’indipendenza, servitore di chi lo paga. È contentissimo di sé e non si tiene al di sotto di nessuno, salvo il «divinissimo» Michelangiolo. Potentissimo di forza e di vita interiore, questo cavaliere errante dettò egli medesimo la sua vita e si ritrasse con tutte queste belle qualitá, sicurissimo di alzare a sé un monumento di gloria. Queste qualitá vengon fuori con la spontaneitá della natura ed il brio della forza, in uno stile evidente e deciso, come il suo cesello.
Nella seconda metá del secolo questa vita ricca e licenziosa è compressa, e la personalitá scompare sotto il compasso dell’accademia e del concilio di Trento. Rimangono stizze, passioncelle, denuncie, calunnie, furori grammaticali, la parte piú grossolana e pedantesca di quella vita. In quel tempo l’Inghilterra avea il suo Shakespeare; Rabelais e Montaigne, pieni di reminiscenze italiane, preludevano al gran secolo; Cervantes scrivea il suo Don Chisciotte e Camoens le sue Lusiadi. E i nostri critici scrivevano gli Avvertimenti grammaticali e i Dialoghi sull’amore platonico, Sulla rettorica, Sulla storia, Sulla vita attiva e contemplativa, e cercavano e non trovavano il genere eroico.