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nemico, gli tira una stoccata; e se lo ammazza, suo danno, perché «li colpi non si danno a patti». Se lo mettono prigione, gli pare uno scandalo e gli fanno uno «scellerato torto». È divoto come una pinzochera, e superstizioso come un brigante. Crede a’ miracoli, a’ diavoli, agl’ incantesimi, e, quando ne ha bisogno, si ricorda di Dio e de’ santi, e canta salmi e orazioni, e va in pellegrinaggio. Non ha ombra di senso morale, non discernimento del bene e del male, e spesso si vanta di delitti che non ha commessi. Bugiardo, millantatore, audace, sfacciato, pettegolo, dissoluto, soverchiatore e, sotto aria d’indipendenza, servitore di chi lo paga. È contentissimo di sé e non si tiene al di sotto di nessuno, salvo il «divinissimo» Michelangiolo. Potentissimo di forza e di vita interiore, questo cavaliere errante dettò egli medesimo la sua vita e si ritrasse con tutte queste belle qualitá, sicurissimo di alzare a sé un monumento di gloria. Queste qualitá vengon fuori con la spontaneitá della natura ed il brio della forza, in uno stile evidente e deciso, come il suo cesello.

Nella seconda metá del secolo questa vita ricca e licenziosa è compressa, e la personalitá scompare sotto il compasso dell’accademia e del concilio di Trento. Rimangono stizze, passioncelle, denuncie, calunnie, furori grammaticali, la parte piú grossolana e pedantesca di quella vita. In quel tempo l’Inghilterra avea il suo Shakespeare; Rabelais e Montaigne, pieni di reminiscenze italiane, preludevano al gran secolo; Cervantes scrivea il suo Don Chisciotte e Camoens le sue Lusiadi. E i nostri critici scrivevano gli Avvertimenti grammaticali e i Dialoghi sull’amore platonico, Sulla rettorica, Sulla storia, Sulla vita attiva e contemplativa, e cercavano e non trovavano il genere eroico.


ii


Tra queste preoccupazioni e miserie venne in luce la Gerusalemme liberata.

L’Italia avea il suo poema eroico, non so che «simile» all’Iliade e all’Eneide, e i critici dovevano essere soddisfatti.