Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XIX. La nuova scienza/V.
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Il serio movimento scientifico usciva di lá dove s’era arrestato, dal seno stesso dell’erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellettuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d’investigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spirito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monumenti. Giá non erano piú semplici eruditi: erano critici. In Europa la critica usciva dal libero esame e dalla ribellione: era roba eretica. In Italia era parte di Arcadia, un esercizio intellettuale sul passato; e U lasciavano fare. Il critico di Europa era Bayle; il critico d’Italia era Muratori. Le sue vaste e diligenti raccolte, Rerum italicarum scriptores, Antiquitates medii aevi, Annali d’Italia, Novus thesaurus inscriptionum, la Verona illustrata e la Storia diplomatica di Scipione Maffei, le Illustrazioni del Fabretti segnano giá questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella erudizione si sviluppa la critica. Non è ancora filosofia, ma è giá buon senso, fortificato dalla diligenza della ricerca e dalla pazienza dell’osservazione. Muratori è assai vicino a Galileo per il suo spirito positivo e modesto e pel giusto criterio. E anche egli osò. Osò combattere il potere temporale, osò porre in guardia gl’italiani contro gli errori e le illusioni della fantasia. Se non gliene venne condanna, fu tolleranza intelligente di Benedetto decimoquarto, il quale disse che «le opere degli uomini grandi non si proibiscono», e che la quistione del potere temporale «era materia non dogmatica né di disciplina». Anche il Maffei parve incredulo al Tartarotti, perché negava la magia, e parve eretico al padre Concina, perché scrivea De’ teatri antichi e moderni; ma quel buon papa decretò «non doversi abolire i teatri, bensí cercare che le rappresentazioni siano al piú possibile oneste e probe». L’Italia papale era piú papista del papa.
Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina, tutto Grecia e Roma, tutto papato e impero, fra testi e comenti, con le spalle vòlte all’Europa. Dommatico e assoluto, sentenzia e poco discute, in istile monotono e plumbeo. È ancora il pedante italiano, sepolto sotto il peso della sua dottrina, senza ispirazione né originalitá, e cosí vuoto di sentimento come d’immaginazione. Pure giá senti che siamo verso la fine del secolo. Giá non hai piú innanzi l’erudito che raccoglie e discute testi, ma il critico che si vale della storia e della filosofia per illustrare la giurisprudenza, e si alza ad un concetto del dritto e ne cerca il principio generatore. Anche la sua Ragion poetica, se non mostra gusto e sentimento dell’arte, colpa non sua, esce da’ limiti empirici della pura erudizione e ti dá riflessioni d’un carattere generale.
Ecco un altro uomo d’ingegno, Francesco Bianchini, veronese. A che pensa costui? Pensa agli assiri, a’ medi e a’ troiani. Non raccoglie, ma pensa, cioè a dire scruta, paragona, giudica. congettura, arzigogola e costruisce. I monumenti non rimangono piú lettera morta: parlano, illustrano la cronologia e la storia. Per mezzo di essi si stabiliscono le date, le epoche, i costumi, i pensieri, i simboli, si rifá il mondo preistorico. In questa geologia della storia i fatti e gli uomini vacillano, si assottigliano, diventano favole, e le favole diventano idee. Comparve la sua Storia nel i697. Vico aveva ventinove anni.
L’erudizione generava dunque la critica. In Italia si svegliava il senso storico e il senso filosofico. E si svegliava non sul vivo, ma sul morto, nello studio del passato. Questo era il carattere del suo progresso scientifico. Quelli, che si occupavano del presente a loro rischio, erano cervelli spostati. E tra questi cervelli balzani c’era il milanese Gregorio Leti, che pose in luce la cronaca scandalosa dell’etá in uno stile che vuol essere europeo e non è italiano; e Ferrante Pallavicino nel suo Corriere svaligiato, una specie di satira-omnibus, dove ce n’è per tutti. In quel vacuo dell’intelligenza sciupavano l’ingegno in argomenti grotteschi e in forme che parevano ingegnose ed erano freddure, un seícentismo arcadico. Il canonico Garzoni scrivea il Teatro de’ cervelli mondani, l’Ospedale de’ pazzi incurabili, la Sinagoga degl’ignoranti, il Serraglio degli stupori del mondo. Sono discorsi accademici, infarciti d’erudizione indigesta, piú curiosa che soda. I quali erano la vera piaga d’Italia, e attestavano una coltura verbosa e pedantesca senz’alcuna serietá di scopo e di mezzi. Il piú noto di questi dotti, e ce n’erano moltissimi, è Anton Maria Salvini, cervello ingombro, cuore fiacco e immaginazione povera: vita vuota. E volle tradurre Omero.
Fra tanta erudizione cresceva Vico. Studiò la filosofia in Suarez, la grammatica in Alvarez, il dritto in Vulteio. Pedagogo in casa Rocca in Vatolla, un paesello nel Cilento, si chiuse per nove anni nella biblioteca del convento e vi si formò come Campanella. Quando, compiuto il suo ufficio, tornò in Napoli, era giá un uomo dotto, come poteva essere un italiano, e ce n’erano parecchi anche tra’ gesuiti. Era il tempo del Muratori, del Fontanini, dell’abate Conti, del Maffei, del Salvini. «Dottissimo, eruditissimo» era Lionardo di Capua, e Tommaso Tommaso «latinissimo»: cosí li qualifica Vico. Il quale conosceva a fondo il mondo greco e latino, Aristotele e Platone, con tutta la serie degl’interpreti fino a quel tempo; ammirava nel Cinquecento quello stesso mondo, redivivo ne’ Ficini, ne’ Pico, ne’ Mattei Acquaviva, ne’ Patrizi, ne’ Piccolomini, ne’ Mazzoni; di letteratura, di archeologia, di giurisprudenza peritissimo; il medio evo gli era giunto con la scolastica e con Aristotele, il Cinquecento con Platone e Cicerone; de’ fatti europei sapeva, quanto era possibile in Italia. Era un dotto del Rinnovamento, che scoteva da sé la polvere del medio evo e cercava la vita e la veritá nel mondo antico. Il suo sapere era erudizione, la forma del suo pensiero era latina, e il suo contenuto ordinario era il dritto romano. Avvocato senza clienti, fece il letterato e il maestro di scuola. Passati erano i bei tempi di Pietro Aretino. La letteratura senza l’insegnamento era povera e nuda, come la filosofia. Andava per le case insegnando, facea canzoni, dissertazioni, orazioni, vite, a occasione o a richiesta. Lo conobbe don Giuseppe Lucina, «uomo di una immensa erudizione greca, latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino», e lo fe’ conoscere a don Niccolò Caravita, un avvocato primario e «gran favoreggiatore de’ letterati». Vico, parte merito, parte protezione, fu professore di rettorica all’universitá. Vita semplice e ordinaria, dal i668 al i744. Vita accademica, tranquilla di erudito italiano, formatosi nelle biblioteche e fuori del mondo, rimasto abbarbicato al suolo della patria. Il movimento europeo gli giunse a traverso la sua biblioteca, e gli giunse nella forma piú antipatica a’ suoi studi e al suo genio. Gli venne addosso la fisica di Gassendi, e poi la fisica di Boyle, e poi la fisica di Cartesio. — La gran novitá! — pensava il nostro erudito. — Ma l’hanno giá detto, questo, Epicuro e Lucrezio. — E per capire Gassendi si pose a studiare Lucrezio. Ma la novitá piacque. — Fisica, fisica vuol essere — diceva la nuova generazione, — macchine; non piú logica scolastica, ma Euclide; sperimenti, matematiche: la metafisica bisogna lasciarla ai frati. — Che diveniva Vico, con la sua erudizione e col suo dritto romano? Reagi, e cercò la fisica non con le macchine e con gli esperimenti, ma ne’ suoi studi di erudito. Le scienze positive entravano appena nel gran quadro della sua coltura, e di matematiche sapeva non oltre di Euclide, stimando «alle menti giá dalla metafisica fatte universali non... agevole quello studio proprio degli ingegni minuti». Cercò dunque la fisica fuori delle matematiche e fuori delle scienze sperimentali: la cercò fra i tesori della sua erudizione, e la trovò nei «numeri» di Pitagora, ne’ «punti» di Zenone, nelle «idee divine» di Platone, nell’«antichissima sapienza itafica». L’Europa aveva Newton e Leibnizio; e a Napoli si stampava De antiquissima italorum sapientia. Erano due colture, due mondi scientifici che si urtavano. Da una parte era il pensiero creatore, che faceva la storia moderna; dall’altra il pensiero critico, che meditava sulla storia passata. Chiuso nella sua erudizione, segregato nella sua biblioteca dal mondo de’ vivi, quando Vico tornò in Napoli, trovò nuova cagione di maraviglia. L’aveva lasciata tutto fisica; la trovava tutto metafisica. Le Meditazioni e il Metodo di Cartesio avevano prodotto la nuova mania. Vico senti disgusto per una cittá che cangiava opinione da un di all’altro «come moda di vesti». E vi si senti straniero, e vi stette per alcun tempo straniero e sconosciuto. Vedeva il movimento attraverso i suoi studi e i suoi preconcetti.
Quelle fisiche atomistiche gli pareva non poter condurre che all’ateismo e alla morale del piacere, e le accusava di falsa posizione, perché l’atomo, il loro principio, era corpo giá formato, perciò era principiato e non il principio; e andava cercando il principio al di lá dell’atomo, ne’ numeri e ne’ punti. Soffiava in lui lo stesso spirito di Bruno e di Campanella. Si sentiva concittadino di Pitagora e discepolo dell’antica sapienza italica. Quanto al metodo geometrico, rifiutava di ammetterlo come una panacea universale: era buono in certi casi, e si potea usarlo senza quel lusso di forme esteriori, dove vedea ambizione, pretensione e ciarlataneria. Il «cogito» gli pareva cosí poco serio, come l’atomo. Era anch’esso principiato e non principio: dava fenomeni, non dava la scienza. Giudicava Cartesio uomo ambiziosissimo ed anche un po’ impostore, e quel suo «metodo» dove, annullando la scienza con la bacchetta magica del suo «cogito», la fa ricomparire a un tratto, gli pareva un artificio rettorico. Quel suo «de omnibus dubitandum» lo scandalizzava. Quella tavola rasa di tutto il passato, quel disprezzo di ogni tradizione, di ogni autoritá, di ogni erudizione, lo feriva nei suoi studi, nella sua credenza e nella sua vita intellettuale; e si difendeva con vigore, come si difende dal masnadiero la roba e la vita. La diffusione della coltura, la moltiplicitá dei libri, quei metodi strepitosi abbreviativi, quella superficialitá di studi con tanta audacia di giudizi, fenomeni naturali di ogni transizione, quando un mondo se ne va e un altro viene, movevano la sua collera. Avvezzo ai severi e profondi studi, a pensare co’ sapienti ed a scrivere pei sapienti, gli spiacea quella tendenza a vulgarizzare la scienza, quella rapida propagazione d’idee superficiali e cattive. E se la pigliava con la stampa. Si gloriava di non appartenere a nessuna setta. E li era il suo punto debole. Posto tra due secoli, in quel conflitto di due mondi che si davano le ultime battaglie, non era né con gli uni né con gli altri, e le cantava a tutti e due. Era troppo innanzi pe’ peripatetici, pe’ gesuiti e per gli eruditi; era troppo indietro per gli altri. Questi trovavano ridicoli i suoi «punti metafisici»; quelli trovavano avventate le sue etimologie e sospetta la sua erudizione. Era da solo un terzo partito, come si direbbe oggi: la ragione serena e superiore, che nota le lacune, le contraddizioni e le esagerazioni: ma ragione ancora disarmata, solitaria, senza seguaci, fuori degl’interessi e delle passioni; perciò, in quel fervore della lotta, appena avvertita e di nessuna efficacia. Se dietro al critico ci fosse stato l’uomo, un po’ di quello spirito propagatore e apostolico di Bruno e Campanella, sarebbe stato vittima degli uni e degli altri. Ma era un filosofo inoffensivo, tutto cattedra, casa e studio, e guerreggiava contro i libri, rispettosissimo verso gli uomini. Oltreché, le sue ubbie rimanevano nelle altissime regioni della filosofia e della erudizione, dove pochi potevano seguirlo; e fu lasciato vivere fra le nubi, stimato per la sua dottrina, venerato per la sua pietá e bontá. Conscio e scontento della sua solitudine, vi si ostinò, benedicendo «non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse giurato», e ringraziando «quelle selve, traile quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi studi». Il latino veniva in fastidio; ed egli pose da canto greco e toscano, e fu tutto latino. Veniva in moda il francese: e’ non volle apprendere il francese. La letteratura tendeva al nuovo; ed egli accusava questa letteratura «non... animata dalla sapienza greca,... o invigorita dalla grandezza romana». Nella medicina era con Galeno contro i moderni, divenuti scettici «per le spesse mutazioni de’ sistemi di fisica». Nel dritto biasimava gli eruditi moderni, e se ne stava con gli antichi interpreti. Vantavano l’evidenza delle matematiche; ed egli se ne stava tra’ misteri della metafisica. Predicavano la ragione individuale; ed egli le opponeva la tradizione, la voce del genere umano. Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo, erano Lionardo di Capua, Cornelio, Doria, Calopreso, che stavano con le idee nuove, con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo con tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s’incontravano per la prima volta, l’una maestra, l’altra ancella. Vico resisteva. Era vanitá di pedante? era fierezza di grande uomo? Resisteva a Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri erano «lumi sparsi», a Grozio, a Puffendorilo, a Locke, il cui Saggio era la «metafisica del senso». Resisteva, ma li studiava piú che non facessero i novatori. Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi; combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co’ suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura italiana, che non si lasciava assorbire e stava chiusa nel suo passato; ma resistenza del genio, che, cercando nel passato, trovava il mondo moderno. Era il retrivo che, guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa era la resistenza di Vico. Era un moderno, e si sentiva e si credeva antico, e, resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sé.
Bacone gli aveva fatta una grande impressione. Era il suo uomo, dopo Platone e Tacito. Quel suo libro. De augumentis scientiarum, gli faceva dire: — Roma e Grecia non hanno avuto un Bacone. — Trovava in lui congiunto il senso ideale di Platone, il senso pratico di Tacito, la «sapienza riposta» dell’uno, la «sapienza volgare» dell’altro. E poi, gli apriva nuovi orizzonti. Avea studiato tanto, e la sua scienza non era piú un libro chiuso: ci era tanto da aggiungere, tanto da riformare. Voleva egli pure conferire del suo «nella somma che costituisce l’universal repubblica delle lettere». Non è piú un erudito immobilizzato nel passato : è un riformatore, un investigante. Critica, dubita, esamina, approfondisce. Sente il morso dello spirito nuovo. Ne’ suoi studi dell’antica sapienza italica vedi giá il disdegno delle «etimologie grammaticali», il dispregio dell’erudizione volgare, l’uomo che tenta nuove vie, intravvede nuovi orizzonti, cerca tra i particolari le alte generalitá.
Piú tardi gli capitò Grozio, e divenne il suo «quarto autore». Grozio gli completa Bacone. Costui vide «tutto il saper umano e divino doversi supplire in ciò che non ha, ed emendare in ciò che ha; ma, intorno alle leggi,... non s’innalzò troppo all’universo delle cittá ed alla scorsa di tutt’ i tempi, né alla distesa di tutte le nazioni». Grozio gli dá un dritto universale, in cui «è sistemata tutta la filosofia e la teologia». Il comentatore del dritto romano si sente alzare a filosofo. Cerca una filosofia del dritto con Grozio, e si fa il suo annotatore : poi riflette che è un eretico, e lascia stare.
La materia della sua coltura è sempre quella: dritto romano, storia romana, antichitá. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l’ente, l’uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio l’«unum simplicissimum» di Ficino. L’uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni. La scienza è conoscere Dio, «perdere se stesso» in Dio. E vien sú il Dio di Campanella, l’eterno lume, il senno eterno, con le sue primalitá, «nosse, velie, posse». Fin qui Vico è un luogo comune. La sua erudizione e la sua filosofia camminano in linea parallela e non s’incontrano. Manca l’attrito. Ci è l’ascetico, il teologo, il platonico, l’erudito, ci è l’italiano di quel tempo nello stato ordinario delle sue credenze e della sua coltura.
Dentro a questa coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. — La coltura non ha valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo dá la scienza ed il senso. — Cosa diveniva l’erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le «idee divine» di Platone? e il «simplicissimum» di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica, non era piú buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppò le sue forze. Usci del vago e del comune : trovò un terreno, un problema, un avversario. La sua erudizione si spiritualizzava. La sua filosofia si concretava. E si compivano l’una nell’altra.
Giá non si perde negli accessori : vede e investe subito la dottrina avversaria nella sua base. Vuole atterrare Cartesio e con lo stesso colpo atterra tutta la nuova scienza, e non andando indietro, ma andando piú avanti. La sua confutazione di Cartesio è completa, è l’ultima parola della critica. Ma la sua critica non è solo negativa : è creatrice; la negazione si risolve in un’affermazione piú vasta, che tirasi appresso, come frammenti di veritá, le nuove dottrine, e le alloga, le mette a posto. La nuova scienza, la scienza degli uomini nuovi, trova nella Scienza nuova il suo limite, e perciò la sua veritá.
La nuova scienza, uscita da lotta religiosa e politica, è in uno stato di guerra contro il passato, e lo combatte sotto tutte le sue forme. La tradizione, l’autoritá, la fede è il suo nemico, e cerca riparo nella forza e nell’indipendenza della ragione individuale: gli «universali», gli «enti», le «quidditá» lo infastidiscono della metafisica, e cerca la sua base nella psicologia, nella coscienza; il soprannaturale, il sopramondano offende il suo intelletto adulto, e vi oppone lo studio diretto della natura, la fisica nel suo senso piú generale, le scienze positive; al gergo scolastico cerca un antidoto nella precisione delle matematiche, nel metodo geometrico; ai misteri, alle cabale, alle scienze occulte, alle astrazioni oppone l’esperienza rischiarata dall’osservazione, la percezione chiara e distinta, l’evidenza della coscienza e del senso; alla societá in quello stato di corruzione oppone l’uomo integro e primitivo, la natura dell’uomo, dalla quale cava i principi della morale e del dritto. Questo è lo spirito della nuova scienza: naturalismo e umanismo, fisica e psicologia. Cartesio, in maschera di Platone, porta la bandiera.
Ma non inganna Vico, che gli strappa la maschera. — Tu non sei che un epicureo. La tua fisica è atomistica, la tua metafisica è sensista, il tuo trattato Delle passioni par fatto piú per i medici che per i filosofi, segui la morale del piacere. — Combattendo Cartesio, la quistione gli si allarga, attinge nella sua essenza tutto il nuovo movimento. Anch’esso è un’astrazione. È un’ ideologia empirica: idea vuota e vuoto fatto. L’importante non è di dire «io penso» (la grande novitá!), ma è di spiegare come il pensiero si fa. L’importante non è di osservare il fatto, ma di esaminare come il fatto si fa. Il vero non è nella sua immobilitá, ma nel suo divenire, nel suo «farsi». L’idea è vera, còlta nel suo farsi. Il pensiero è moto che va da un termine all’altro, è idea che si fa, si realizza come natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò «verum et factum», vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive il vero; il fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è ima logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto de’ fatti, una «storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni».
Ecco ribenedetta tradizione, autoritá e fede : ecco filologia, storia, poesia, mitologia, tutta l’erudizione rientrata in grembo della scienza. La storia è fatta dall’uomo, come le matematiche, e perciò è scienza non meno di quelle. È il pensiero che fa quello che pensa, è la «metafisica della mente umana», la sua «costanza», il suo processo di formazione secondo le leggi fisse del pensiero umano. Perciò la sua base non è nella coscienza individuale, ma nella coscienza del genere umano, nella ragione universale. I nuovi filosofi vogliono rifare il mondo coi, loro principi assoluti, co’ loro dritti universali. Ma non sono i filosofi che fanno la storia, e il mondo non si rifá con le astrazioni. Per rifare la societá non basta condannarla: bisogna studiarla e comprenderla. E questo fa la Scienza nuova.
A Vico non basta porre le basi: mette mano alla costruzione. Se la storia ha la sua costanza scientifica, se è fatta dal pensiero, com’è fatta? qual è il suo processo di formazione? Che la storia sia una scienza, non era cosa nuova nella filosofia italiana. Alla storia formata dall’arbitrio divino e dal caso Machiavelli avea giá contrapposta la «forza delle cose», lo spirito della storia eterno e immutabile. L’«intelletto universale» di Bruno, la «ragione che governa il mondo» di Campanella rientrano nella stessa idea. Platone con le sue «idee divine» porgeva giá il filo a Vico. L’importante era di eseguire il problema, il cui dato era giá posto, era il trovar le leggi di questo spirito della storia, era il «probare per causas», il generare la storia come l’uomo genera le matematiche, il fare la storia della storia, ciò che era fare una scienza nuova. Di questa storia ideale egli «ritrova le guise dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana», cerca la base nella natura dell’uomo, doppio com’è, spirito e corpo. È una psicologia applicata alla storia. Stabilisce alcuni canoni psicologici, ch’egli chiama «degnitá», o «principi». Il concetto è questo: che l’uomo, come essere naturale, opera per istinti, sotto la pressura dei suoi bisogni, interessi e passioni; ma ivi appunto si sviluppa come essere pensante, come Mente, si che nelle sue opere piú grossolane e corpulente ce n’ è come un’ immagine velata, il sentore. La quale immagine si fa piú chiara, secondo che «la mente piú si spiega», insino a che il pensiero si manifesta nella sua propria forma, opera come riflessione o filosofia. Questo, che è il corso naturale della vita individuale, è anche il corso naturale e la storia di tutte le nazioni, quando non ci sia interruzione o deviazione per violenza di casi estrinseca, come fu per Numanzia oppressa nel suo fiorire da’ romani. Perciò nelle nazioni ci è tre etá : la divina, l’eroica e la umana. Precede lo stato selvaggio o di mera barbarie, dove l’uomo è servo del corpo e come una «fiera vagante nella gran selva della terra». La libertá è il «tenere in freno i moti della concupiscenza, che viene dal corpo, e dar loro altra direzione, che viene dalla mente ed è propria dell’uomo». Secondo che la mente si spiega, o si fa piú intelligente, si sviluppa la liberta, prevale la ragione o l’«umanitá». La prima etá ragionevole o socievole, l’etá divina, sorse co’ matrimoni e l’agricoltura, quando, «a’ primi fulmini dopo l’universal diluvio» gli uomini «si umiliarono ad una forza superiore che immaginarono essere Giove, e tutte le umane utilitá e tutti gli aiuti porti nella loro necessitá immaginarono essere dèi». Allora, rinunziando alla vaga venere, ebbero certe mogli, certi figli e certe dimore : sorsero le famiglie governate da’ padri con «famigliari imperii ciclopici». In questi regni familiari, divenuti sicuro asilo contro i selvaggi o vaganti, riparavano i deboli e gli oppressi, che furono ricevuti in protezione, come clienti o famoli. Cosí si ampliarono i regni familiari, e si spiegarono le «repubbliche erculee» sopra ordini naturalmente migliori per virtú «eroiche»: la pietá verso gl’iddii; la prudenza, o il consigliarsi co’ divini auspici; la temperanza, onde i concubiti umani e pudichi co’ divini auspici; la fortezza, uccider fiere, domar terreni; la magnanimitá, il soccorrere a’ deboli e a’ pericolanti. In questi primi ordini naturali comincia la libertá e il primo spiegarsi della mente. Nacque la corruzione. I padri, lasciati grandi per la religione e virtú de’ loro maggiori e per le fatiche de’ clienti, tralignarono: uscirono dall’ordine naturale, che è quello della giustizia, abusarono delle leggi di protezione e di tutela, tiranneggiarono: indi la ribellione de’clienti. Allora i padri delle famiglie si unirono con le loro attinenze in ordini contro di quelli, e, per pacificarli, con la prima legge agraria concessero il «dominio bonitario», ritenendosi essi il «dominio ottimo», o «sovrano famigliare»: onde nacquero le prime cittá sopra «ordini regnanti di nobili», e l’«ordine civile». Finirono i regni divini: cominciarono gli eroici. La religione fu custodita negli ordini eroici, e perciò gli auspici e i matrimoni, e per essa religione furono de’ soli eroi tutt’ i dritti e tutte le ragioni civili. Ma, «spiegandosi le umane menti», i plebei intesero essere di egual natura umana co’ nobili, e vollero entrare anch’essi negli ordini civili delle cittá, essere sovrani nelle cittá. Finisce l’etá eroica: comincia l’etá umana, l’etá della eguaglianza. la «repubblica popolare», dove comandano gli ottimi non per nascita, ma per virtú. In questo stato della mente, agli uomini non è piú necessario fare le azioni virtuose per «sensi di religione», perché la filosofia fa intendere le virtú «nella loro idea» ; in forza della quale riflessione, quando anche gli uomini non abbiano virtú, almeno si vergognano de’ vizi. Nasce la filosofia e l’eloquenza, insino a che l’una è corrotta dagli scettici, l’altra da’ sofisti. Allora, corrompendosi gli Stati popolari, viene l’anarchia, il totale disordine, la peggiore delle tirannidi, che è la sfrenata libertá de’ popoli liberi. I quali o cadono in servitú di un monarca, che rechi in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza delle armi; o diventano schiavi per «diritto naturai delle genti», conquistati con armi da nazioni migliori, essendo giusto che chi non sa governarsi da sé si lasci governare da altri che il possa, e che nel mondo governino sempre i migliori; o, abbandonati a sé, in quella folla di corpi vivendo in una solitudine d’animi e di voleri, seguendo ognuno il suo piacere e capriccio, con disperate guerre civili vanno a fare selve delle cittá, e delle selve covili d’uomini, e in lunghi secoli di barbarie vanno ad «irrugginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi». Con questa «barbarie della riflessione» si ritorna allo stato selvaggio, alla «barbarie del senso», e ricomincia con lo stess’ordine una nuova storia, si rifá lo stesso corso.
Questa è la «storia ideale eterna», la logica della storia, applicabile a tutte le storie particolari. È in fondo la storia della mente nel suo spiegarsi, come dice Vico, dallo stato di senso, in cui è come dispersa, sino allo stato di riflessione, in cui si riconosce e si afferma. L’operazione, con la quale l’intelletto giunge alla veritá, è la stessa operazione con la quale l’intelletto fa la storia. Locke aveva il suo complemento in Vico. La teoria della conoscenza aveva il suo riscontro nella teoria della storia. Era una nuova applicazione della psicologia. Gli uomini operano secondo i loro impulsi e fini particolari; ma «i risultati sono superiori a’ loro fini», sono risultati mentali, il successivo progredire della mente nel suo spiegarsi. Perciò le passioni, gl’interessi, gli accidenti, i fini particolari sono non la storia, ma le occasioni e gli strumenti della storia; perciò una scienza della storia è possibile. Machiavelli e Hobbes ti dánno la storia occasionale, non la storia finale e sostanziale. La loro storia è vera, ma non è intera : è frammento di veritá. La veritá è nella totalitá, nel vedere «cuncta ea, quae in re insunt, ad rem sunt affecla»: l’idea nella pienezza del suo contenuto e delle sue attinenze. Machiavelli è, non meno di Vico, un profondo osservatore de’ fatti psicologici, è un ritrattista, ma non è un metafisico. La psicologia di Vico entra giá nelle regioni della metafisica, ti dá le prime linee della nuova metafisica, fondata non sull’immobilitá dell’ente guardato nei suoi attributi, ma sul suo moto o divenire; perciò non descrizione o dimostrazione, come te la dava Aristotele e Platone, ma vero dramma, la storia dello spirito nel mondo. In questo dramma tutto ha la sua spiegazione, tutto è allogato: la guerra, la conquista, la rivoluzione, la tirannide, l’errore, la passione, il male, il dolore, fatti necessari e strumenti del progresso. Ciascuna etá storica ha la sua guisa di nascere e di vivere, la sua natura, onde procede la forza delle cose, la «sapienza volgare» del genere umano, il senso comune delle genti, la forza collettiva. Non è l’individuo, è questa forza collettiva che fa la storia; e spesso i piú celebrati individui non sono che simboli e immagini, «caratteri poetici» di quella forza, come Zoroastro, Ercole, Omero, Solone. Cerchi un individuo, e trovi un popolo; cerchi un fatto, e trovi un’ idea. Fabbro della storia è «l’umano arbitrio regolato con la sapienza volgare».
Rimaneva a dare la dimostrazione di questa storia ideale : dimostrare cioè che tutte le storie particolari sono, secondo quella, regolate da uno stesso corso d’idee, ubbidienti a un solo tipo. La prova poteva cercarla a priori nella logica stessa dello spirito nel suo spiegarsi. Lo spirito si estrinseca in conformitá della sua natura, in che è la sua logica, la legge del suo divenire; e quel divenire è appunto la storia. Ma Vico, appena adombrate le prime linee della nuova metafisica, si arresta sulla soglia, e ritorna erudito, e cerca la prova a posteriori, consultando tutte le storie e cercando in tutte il suo corso, il suo sistema, e non solo nelle grandi linee, ma ne’ piú minuti accidenti. Impresa titanica di erudizione e critica italiana. E s’immerge tra’ «rottami dell’antichitá», e raccoglie i minimi frammenti, e li anima, «intus legit», li fa corpi interi; ricostituisce la storia reale a immagine della sua storia ideale. È il mondo guardato da un nuovo orizzonte, ricreato dalla critica e dalla filosofia, e con la sua originalitá scolpita in quella potente forma, lapidaria e metaforica, come una legge delle Dodici tavole. Cerca tra quei rottami la prova della «scienza nuova», e scopre per via nuove scienze. Lingua, mitologia, poesia, giurisprudenza, religioni, culti, arti, costumi, industrie, commercio, non sono fatti arbitrari, sono fatti dello spirito, le scienze della sua Scienza. Cronologia, geografia, fisica, cosmografia, astronomia, tutto si rinnova sotto questa nuova critica. Ad ogni passo senti il grido trionfale del gran creatore: — Ecco una nuova scoperta! — Alla metafisica della mente umana, filosofia dell’umanitá o delle idee umane, onde scaturisce una giurisprudenza, una morale e una politica del genere umano, corrisponde la logica, «fas gentium»; una scienza dell’espressione di esse idee, la filologia. Ecco dunque una scienza delle lingue e de’ miti e delle forme poetiche, una lingua del genere umano, una teoria dell’espressione ne’ miti, ne’ versi, nel canto, nelle arti. E come teoria e scienza non è che «natura delle cose», e la natura delle cose è nelle «guise di lor nascimenti»; l’uomo ardito, sgombro lo spirito d’ogni idea anticipata e fidato al solo suo intendere, si addentra nelle origini dell’umanitá, guaste dalla doppia «boria», «delle nazioni e de’ dotti»; e tu assisti alla prima formazione della societá, de’ governi, delle leggi, de’ costumi, delle lingue; vedi nascere la storia di entro la mente umana, e svilupparsi logicamente da’ suoi elementi o principi, «religione, nozze, seppolture», svilupparsi sotto tutte le forme, come governo, come legge, come costume, come religione, come arte, come scienza, come fatto, come parola. La sua grande erudizione gli porge infiniti materiali, che interpreta, spiega, alloga, dispone secondo i bisogni della sua costruzione; audace nelle etimologie, acuto nelle interpretazioni e ne’ confronti, sicurissimo ne’ suoi procedimenti e nelle sue conclusioni, e con l’aria di chi scopre ad ogni tratto nuovi mondi, tenendo sotto i piedi le tradizioni e le storie volgari. Cosí è nata questa prima storia dell’umanitá, una specie di Divina commedia, che dalla «gran selva della terra», per l’inferno del puro sensibile, si va realizzando tra via sino all’etá umana della riflessione o della filosofia; irta di forme, di miti, di etimologie, di simboli, di allegorie, e non meno grande che quella; pregna di presentimenti, di divinazioni, d’idee scientifiche, di veri e di scoperte: opera di una fantasia concitata dall’ingegno filosofico e fortificata dall’erudizione, che ha tutta l’aria di una grande rivelazione.
È la Divina commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l’avvenire, tutta ancora ingombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuovo. Platonico e cristiano, continuatore di Ficino e di Pico, uno di spirito con Torquato Tasso, Vico non comprende la Riforma e non i tempi nuovi, e vuol concordare la sua filosofia con la teologia, e la sua erudizione con la filosofia, costruire un’armonia sociale come un’armonia provvidenziale. La sua metafisica ha sotto i piè il globo, e gli occhi estatici in su verso l’occhio della provvidenza, onde le piovono i raggi delle divine idee. Vuole la ragione, ma vuole anche l’autoritá, e non certo degli «addottrinati», ma del genere umano; vuole la fede e la tradizione; anzi fede e tradizione non sono che essa medesima la ragione, «sapienza volgare». Tale era l’uomo formato nella biblioteca di un convento; ma, entrando nel mondo de’ viventi, lo spirito nuovo l’incalza, e, combattendo Cartesio, subisce l’influenza di Cartesio. Era impossibile che un uomo d’ingegno non dovesse sentirsi trasformare al contatto dell’ingegno. Tutto dietro a costruir la sua Scienza, gli si affaccia il «de omnibus dubitandum» ed il «cogito»:
... in meditando i principi di questa Scienza, dobbiamo... ridurci in uno stato di una somma ignoranza di tutta l’umana e divina erudizione, come se per questa ricerca non vi fussero mai stati per noi né filosofi né filologi; e chi si vuol profittare, egli in tale stato si dee ridurre, perché nel meditarvi non ne sia egli turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni.
Parole auree, che sembrano tolte da una pagina del Metodo. E in questa ignoranza cartesiana, qual è l’«unica veritá», che fra tante dubbiezze non si può mettere in dubbio, ed è perciò la «prima di siffatta Scienza»? È il «cogito», è la mente umana:
Poiché... il mondo delle gentili nazioni... è stato... fatto dagli uomini, i di lui principi si debbono ritruovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere.
La provvidenza e la metafisica, che guarda in lei, sono nel gran quadro un semplice antecedente, o, com’egli dice, un’«anticipazione», un convenuto e non dimostrato: il quadro è la mente umana nella natura e nell’ordine della sua esplicazione, la mente umana delle nazioni, la storia delle umane idee. La provvidenza regola il mondo, assistendo il libero arbitrio con la sua grazia ed oltrepassando ne’ suoi risultati i fini particolari degli uomini; ma questi risultati provvidenziali non sono piú miracolo, sono scienza umana, sono lo «schiarire delle idee», lo «spiegarsi della mente». Come Bruno, Vico canta la provvidenza e narra l’uomo: non è piú teologia, è psicologia. Provvidenza e metafisica sono di lontano, come sole o cielo, nello sfondo del quadro: il quadro è l’uomo e la sua luce, la sua scienza è in lui stesso, nella sua mente. La base di questa scienza è moderna: ci è Cartesio col suo scetticismo e col suo «cogito». Ben talora, portato dall’alto ingegno speculativo, spicca il volo verso la teologia e la metafisica; ma Cartesio è lá che lo richiama e lo tiene stretto ne’ fatti psicologici. Nel quale studio del processo della mente negl’individui e ne’ popoli fa osservazioni cosí profonde e insieme cosí giuste, che ben si sente il contemporaneo di Malebranche, di Pascal, di Locke, di Leibnizio, il piú affine al suo spirito, e ch’egli chiama «il primo ingegno del secolo». Né solo è moderno nella base, ma nelle conclusioni, mostrando nell’ultimo spiegarsi della mente vittoriosi i principi de’ nuovi filosofi. Perché corona della sua epopea storica è lo spiritualizzarsi delle forme, il trionfo della filosofia o della mente nella sua «riflessione», la fine delle aristocrazie, e perciò de’ feudi e della servitú, la libertá e l’uguaglianza di tutte le classi, come stato delle societá «ingentilite e umane», come ultimo risultato della coltura. È la teocrazia e l’aristocrazia conquise dalla democrazia per il naturale spiegarsi della mente, è l’affermazione e la glorificazione dello spirito nuovo. Ma qui appunto Vico se ne spicca e rimane solo in mezzo al suo secolo. Posto tra il mondo della sua biblioteca, biblico-teologico-platonico, e il mondo naturale di Cartesio e di Grozio, due assoluti, e impenetrabili come due solidi, e che si scomunicavano l’un l’altro, cerca la conciliazione in un mondo superiore, l’idea mobilizzata o storica, e in una scienza superiore, la critica, l’idea analizzata e giustificata ne’ momenti della sua esistenza, la scienza uscita dall’assolutezza e rigiditá del suo dommatismo e mobilizzata come il suo contenuto. La critica è rifare con la riflessione quello che la mente ha fatto nella sua spontaneitá. È la mente «spiegata e schiarita», che si riflette sulla sua opera e vi trova se stessa nella sua identitá e nella sua continuitá: è la coscienza dell’umanitá. In questo mondo superiore tutto si muove e tutto si riconcilia e si giustifica : i principi, che i nuovi filosofi predicavano assoluti e perciò applicabili in ogni tempo e in ogni luogo e co’ quali dannavano tutto il passato, si riferiscono a stati sociali di certe epoche e di certi luoghi; ed i principi contrari, appunto perché in certi tempi hanno governato il mondo e sono stati «comportevoli», sono veri anch’essi, come anticipazioni e vestigi de’ principi nuovi. Perciò il criterio della veritá non è l’idea in sé, ma l’idea come si fa o si manifesta nella storia della mente, il senso comune del genere umano, ciò ch’egli chiama la «filosofia dell’autoritá». Qui Vico avea contro di sé Platone e Grozio, il passato e il presente. La malattia del secolo era ; appunto la condanna del passato in nome di principi astratti, come il passato condannava esso in nome di altri principi astratti. Vico era come chi, vivuto solitario nel suo gabinetto, scenda in piazza d’improvviso, e vegga gli uomini concitati, co’ pugni tesi, pronti a venire alle mani. A lui quegli uomini debbono sembrare de’ pazzi da catena. — A che tanto furore contro il passato? il quale, appunto perché è stato, ha avuto la sua ragion d’essere. E poniamo pure sia tutto cattivo, credete di poter distruggere con la forza l’opera di molti secoli? I vostri principi! Ma credete voi che la storia si fa da’ filosofi e co’ principi? La vostra ragione! Ma ci è anche la ragione degli altri, uomini come voi e che sanno ragionare al pari di voi. E poi, un po’ di rispetto, io credo, si dee pure all’autoritá. E non parlo di tanti dottori, ne’ quali non avete fede : parlo dell’autoritá del genere umano, al quale, se uomini siete, non potete negar fede. Un po’ meno di ragione e un po’piú di senso comune. — Un discorso simile sarebbe parsa una stranezza a quegli uomini pieni di odio e di fede. E qualcuno poteva rispondergli: — Fátti in lá, e sta’ fra le tue nuvole, e non venire fra gli uomini, ché non te ne intendi. Il passato tu lo hai studiato su’ libri: è, la tua, erudizione. Ma il passato è per noi cosa reale, di cui sentiamo le punture ad ogni nostro passo. Il fuoco ci scotta, e tu ci vuoi provare che, perché è, ha la sua ragion di essere. Lascia prima che noi lo spengiamo, e poi ci parla della sua natura. Quando ci avremo tolto di dosso codesto passato, nostro martirio e de’ padri nostri, forse allora potremo essere giusti anche noi e gustar la tua critica. — Vico rimase solo nel secolo battagliero; e quando la lotta ebbe fine, si alzò come iride di pace la sua immagine su’ combattenti, e comunicò la parola del nuovo secolo: «critica». Non piú dommatismo, non piú scetticismo: critica. Né altro è la storia di Vico che una critica dell’umanitá: l’idea vivente fatta storia e, nel suo eterno peregrinaggio, seguita, compresa, giustificata in tutt’ i momenti della sua vita. I principi, come gl’individui e come la societá, nascono, crescono e muoiono, o piuttosto, poiché niente muore, si trasformano, pigliando forme sempre piú ragionevoli, piú conformi alla mente, piú ideali. Indi la necessitá del progresso, insita nella stessa natura della mente, la sua fatalitá. La teoria del progresso è per Vico come la terra promessa. La vede, la formula, stabilisce la sua base, traccia il suo cammino, diresti che l’indica col dito; e quando non gli resta a fare che un passo per giungervi, la gli fugge dinanzi, e riman chiuso nel suo cerchio e non sa uscirne. Poneva le premesse e gli fuggiva la conseguenza. Gli è perché, profondo conoscitore del mondo greco-romano, non seppe spiegarsi il medio evo e non comprese i tempi suoi, parendogli indizio di decadenza e di dissoluzione quella vasta agitazione religiosa e politica, in cui era la crisi e la salute. D’altra parte, lui, che negava 1’esistenza di Omero, non osò sottoporre alla sua critica il mito di Adamo e le tradizioni bibliche e il dogma della provvidenza e la missione del cristianesimo, lasciando grandi ombre nelle sue pitture. Vedi la coscienza moderna rilucere nel mondo pagano, ardita nelle sue negazioni e nelle sue spiegazioni, e, quando sta per entrare nel mondo inquieto e appassionato de’ vivi, chiudere gli occhi per non vedere. Ciò che è proprio de’ grandi pensatori: aprire le grandi vie, stabilire le grandi premesse, e lasciare a’ discepoli le facili conseguenze. Come Cartesio, Vico non indovinò i formidabili effetti che doveano uscire dalle sue speculazioni. Cartesio avrebbe rinnegati per suoi Spinosa e Locke; e Vico Condorcet, Herder ed Hegel. Poiché si occupa piú degli antichi che de’ moderni, piú de’ morti che de’ vivi, i vivi lo dimenticarono. La sua Scienza parve piú una curiosa stranezza di erudito che una profonda meditazione di filosofo, e non fu presa sul serio.