Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XIX. La nuova scienza/VI.

XIX. La nuova scienza - VI.

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Intanto il secolo camminava con passo sempre piú celere, tirando le conseguenze dalle premesse poste nel secolo decimosettimo. La scienza si faceva pratica e scendeva in mezzo al popolo. Non s’investigava piú : si applicava e si divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica e diveniva letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi del latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie, lettere, racconti, articoli, dialoghi, aneddoti; forme scolastiche e forme geometriche davano luogo al discorso naturale, imitatore del linguaggio parlato. La scienza prendeva aria di conversazione, anche [p. 303 modifica]negli scrittori piú solenni, come Buffon e Montesquieu: conversazione di uomini colti in sale eleganti. Per dirla con Vico, la «sapienza riposta» diveniva «sapienza volgare», e, scendendo nella vita, prendeva le passioni e gli abiti della vita: ora amabile e spiritosa, come in Fontenelle; ora limpida, scorrevole, facile, come in Condillac e in Elvezio: ora rettorica e sentimentale, come in Diderot. Il «dritto naturale» di Grozio generava il Contratto sociale, la societá era dannata in nome della natura, e l’erudita dissertazione di Grozio ruggiva nella forma ardente e appassionata di Rousseau. Lo scetticismo un po’ impacciato di Bayle, velato fra tante cautele oratorie, si apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire. L’erudizione e la dimostrazione gittavano le loro armi pesanti e divenivano un amabile senso comune. La scienza diveniva letteratura, e la letteratura a sua volta non era piú serena contemplazione: era un’arma puntata contro il passato. Tragedie, commedie, romanzi, storie, dialoghi, tutto era pensiero militante, che dalle alte cime della speculazione scendeva in piazza tra gli uomini, e si propagava a tutte le classi e si applicava a tutte le quistioni. Le sue forme, filosofia, arte, critica, filologia, erano macchine di gueirra, e la macchina piú formidabile fu l’Enciclopedia. Condorcet proclamava il progresso. Diderot proclamava l’ideale. Elvezio proclamava la natura. Rousseau proclamava i dritti dell’uomo. Voltaire proclamava il regno del senso comune. Vattel proclamava il dritto di resistenza. Smith glorificava il lavoro libero. Blackstone rivelava la Carta inglese. Franklin annunziava la nuova «carta» all’Europa. La societá sembrava un caos, dove la filosofia dovea portare l’ordine e la luce. Una nuova coscienza si formava negli uomini, una nuova fede. Riformare secondo la scienza istituzioni, governi, leggi e costumi, era l’ideale di tutti, era la missione della filosofia. I filosofi acquistarono quella importanza che ebbero al secolo decimosesto i letterati. Maggiore era la fede in questo avvenire filosofico, e piú viva era la passione contro il presente. Tutto era male, e il male era stato tutto opera maliziosa di preti e di re, nell’ignoranza de’ popoli. «Superstizione», «pregiudizio», «oppressione» erano le parole [p. 304 modifica]che riassumevano innanzi alle moltitudini tutto il passato. «Libertá, uguaglianza, fraternitá umana» erano il verbo che riassumeva l’avvenire. Tutto il moto scientifico, dal secolo decimosesto in qua, aveva acquistata la semplicitá di un catechismo. La rivoluzione era giá nella mente.

Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che si scioglieva da ogni involucro classico e teologico, e acquistava coscienza di sé, si sentiva tempo moderno. Era il libero pensiero che si ribellava alla teologia. Era la natura che si ribellava alla forza occulta e cercava ne’ fatti la sua base. Era l’uomo che cercava nella sua natura i suoi dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza, il popolo, che sorgeva sulle rovine del papato e dell’impero. Era una nuova classe, la borghesia, che cercava il suo posto nella societá sulle rovine del clero e dell’aristocrazia. Era la nuova «carta», non venuta da concessioni divine o umane, ma trovata dall’uomo nel fondo della sua coscienza, e proclamata in quella immortale Dichiarazione de’ dritti dell’uomo. Era la libertá del pensiero, della parola, della proprietá e del lavoro, l’eguaglianza de’ dritti e de’ doveri. Era la fine de’ tempi divini ed eroici e feudali, il rivelarsi di quella «etá umana», cosí ammirabilmente descritta da Vico. Il medio evo finiva: cominciava l’evo moderno.

E che cosa era questa vecchia societá, soprapposta a tutto il resto? Ci era alla cima il papato assoluto e la monarchia assoluta, che si pretendevano amendue di dritto divino ed erano stampati sullo stesso modello. Il papato pretendea ancora al dominio universale, ma in parola e conscio della scemata possanza. Pur si facea valere mediante i gesuiti, e mantenea vigorosamente la sua influenza e la sua giurisdizione in tutti gli Stati. Come re, il papa governava in modi cosí assoluti come tutti i monarchi. L’assolutismo dominava in tutta Europa. Quello che era la corte romana al Cinquecento, erano allora tutte le corti: scostumatezza, dissipazione, ignoranza. I conventi, screditati, chiamati «covi del vizio», «asilo dell’ozio e dell’ignoranza». Il clero, scemato di coltura e di riputazione, aumentato di numero e di ricchezza. I vescovi, adulatori in corte, tiranni nelle diocesi, [p. 305 modifica]signori feudali. I nobili, a’ piedi del trono e co’ piedi sopra i vassalli. Altare e trono, appoggiati sul clero e sulla nobiltá: lí era la liberta, lí era il dritto; tutto il resto era poco o meno che cosa, e valeva assai poco. La fonte del dritto era nella concessione papale o sovrana: era investitura, privilegio, immunitá, esenzione. Le leggi erano un caos. Leggi romane, longobarde, canoniche, feudali, usi, costumanze. Un altro caos erano le imposte. Ce n’erano del papa, del clero, de’ baroni, del re, sotto molti nomi e molte forme. Che cosa era il popolo? Materia «taillable et corvéable à merci». Nessuna sicurezza per le proprietá e le persone, nessuna protezione nelle leggi, nessuna guarentigia nei giudizi, secrete le procedure, sproporzionate e arbitrarie le pene. Si può dire di quella vecchia societá quello che allora giá si diceva della proprietá feudale. Era «manomorta» l’uomo cosí immobilizzato, come la terra. La palude non era solo nel territorio, era nel cervello.

Dirimpetto a queste classi privilegiate, cristallizzate dal dommatismo, cioè a dire da un complesso d’idee ammesse per tradizione e fuori di ogni discussione, sorgeva lo scetticismo della borghesia, che tutto ponea in dubbio, di tutto facea discussione. La borghesia faceva in grandi proporzioni quello che prima compirono i comuni italiani. Era il «medio ceto», avvocati, medici, architetti, letterati, artisti, scienziati, professori prevalenti giá di coltura, che non si contentavano piú di rappresentanze nominali e volevano il loro posto nella societá. Non è giá che si affermassero anch’essi come classe e volessero privilegi. Volevano libertá per tutti, uguaglianza di dritti e doveri, parlavano in nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel fatto erano essi la classe predestinata, e in buona fede, parlando per tutti, lavoravano per sé. La loro arma di guerra era lo scetticismo. Alla fede e all’autoritá opponevano il dubbio e l’esame. Oggi è moda declamare contro lo scetticismo. Pure non dobbiamo dimenticare che di lá usci l’emancipazione del pensiero umano. Esso cancellò l’intolleranza religiosa, la credulitá scientifica e la servilitá politica. [p. 306 modifica]

Il movimento, che usciva dalle fila della borghesia, non era solo popolare, cioè nelle sue idee e nelle sue tendenze comune a tutte le classi, ma era ancora cosmopolitico, o, come si dice oggi, «internazionale». L’accento era umano, piú che nazionale. L’America e l’Europa si abbracciavano in un linguaggio che esprimeva idee e speranze comuni: lo svizzero, l’olandese, il francese, il tedesco, l’inglese parevano nati nello stesso paese, educati alle stesse idee. Il movimento era universale nel suo obbiettivo e nel suo contenuto. L’obbiettivo erano tutte le classi e tutte le nazioni. Il contenuto era non solo una riforma religiosa, politica, morale e civile, ma un radicale mutamento nelle stesse condizioni economiche della societá, ciò che oggi direbbesi «riforma sociale», correndo nel suo lirismo sino alla comunione de’ beni. Nato dal costante lavoro di tre secoli, il movimento per la sua universalitá contenea in idea o in germe tutta la storia futura del mondo pel corso di molti secoli. Pure, ciò, che era appena un principio, sembrava esser la fine: tanto parea cosa facile effettuare di un colpo tutto il programma.

Dove il movimento si mostrava piú energico e concentrato e di natura assolutamente cosmopolitica, era in Francia. Ed essendo la lingua francese giá molto divulgata, la propaganda era irresistibile. Nelle altre nazioni appariva appena, e nelle sue forme piú modeste.

La forma piú temperata di questo movimento era l’antica lotta tra papato e impero, divenuta lotta giurisdizionale tra la corte romana e le monarchie. In questo terreno i novatori avevano per sé i principi, e all’ombra loro spandevano le nuove idee. I giureconsulti stavano per antica tradizione co’ principi, e difendevano i loro dritti contro la Chiesa con una dottrina ed un acume non scevro di sottigliezza sofistica: erano i liberali di quel tempo, e fu loro opera che le nuove idee si dilatassero nella classe colta. Nel campo avverso erano i gesuiti, inframmettenti, intolleranti, che invelenivano la lotta e ne allargavano le proporzioni. Erano essi lo sprone che stuzzicava l’ingegno. In quel contrasto si formò Paolo Sarpi; da quel [p. 307 modifica]contrasto uscirono le Provinciali di Pascal e il giansenismo e la scuola di Portoreale e le libertá gallicane, preludi di quel movimento che prendeva allora in Francia proporzioni cosí vaste. Ma in Italia il movimento, iniziato con tanta larghezza e ardire nel Cinquecento, arrestato e snaturato dalla reazione trentina, si manteneva ancora in quella forma: era lotta giurisdizionale tra papa e principi. Il pensiero era ito molto innanzi, ma in pochi o tra pochi: ci erano fantasie solitarie; mancava l’eco, non ci era ancora la moltitudine. Ma il movimento, in quella forma cosí circoscritta, guadagnava terreno e costituiva un vero partito politico, intorno al quale stava schierata tutta la borghesia. Era un liberalismo a buon mercato, via a fortuna e favori principeschi, quando rimaneva in quei limiti, e, attaccando curia e gesuiti, si mostrava riverente al papa e alla Chiesa. In Napoli la coltura avea preso questo aspetto; e mentre il buon Vico fantasticava una storia deirumanitá e andava col pensiero cosí lungi, fervea la lotta giurisdizionale, dov’erano principali attori giureconsulti eminenti, Capasso, D’Andrea, Aulisio, Argento, Pietro Giannone. I gesuiti cercavano appoggio nell’ignoranza popolare, e li predicavano empii e nemici del papa. L’avevano principalmente contro il Giannone, e tanto gli aizzarono contro il minuto popolo, che fu piú volte a rischio della vita. Scomunicato dall’arcivescovo per aver lasciato stampar la sua Storia senza il suo permesso, riparò a Vienna, né osò piú tornare a Napoli, ancorché l’arcivescovo ci avesse avuto torto e fosse stata ritrattata la scomunica. I giureconsulti sostenevano bastare per la stampa la licenza regia, non avere alcun valore la proibizione ecclesiastica ed essere invalide le scomuniche senza fondamento di ragione. Era il libero esame applicato alla giurisdizione e agli atti ecclesiastici. E ci era sotto altro: lo spirito laico che si ridestava, e lo spirito borghese che si annunziava, il medio ceto, che all’ombra del principe, interessato anche lui nella lotta, si facea valere cosí contro la nobiltá come, e piú, contro il clero.

Da questa lotta usci la Storia civile del regno di Napoli, e piú tardi il Triregno, di Pietro Giannone. La Storia per la sua [p. 308 modifica]universalitá fu tradotta in molte lingue, riguardando principalmente la quistione giurisdizionale, ardente in tutti gli Stati cattolici. Giannone lasciò gli argomenti e venne a’ fatti, prendendo il potere temporale fino nelle origini e seguendolo ne’ suoi ingrandimenti e nelle sue usurpazioni. È una requisitoria, tanto piú formidabile quanto maggiore è la calma dell’esposizione istorica e l’imparzialitá continuamente ostentata dell’erudizione e della dottrina. Non mancano sarcasmi e punture, ma protesta sempre che è contro gli abusi e le esorbitanze, e affetta il maggior rispetto verso le istituzioni. Vedi prominente l’universalitá della Chiesa, tutta la comunione dei fedeli, insino a che sorge usurpatore l’episcopato, assorbito a sua volta dal papato. Il concetto è questo: che il dritto è nella universalitá de’ fedeli: è la democrazia applicata alla Chiesa. Ma il concetto democratico è annacquato in quest’altro: che i principi, come capi della societá laica, hanno ereditato i suoi dritti. Il popolo sparisce, ed entra in iscena Cesare con quel famoso motto: «Date a Cesare quel che è di Cesare». I gesuiti ritorcevano l’argomento, sostenendo che la fonte del dritto non è ne’ principi, ma ne’ popoli. Cosí democratizzavano i gesuiti per difendere il papato, e democratizzavano i giannonisti per combattere il papato. Erano inconseguenti gli uni e gli altri, e la vera conseguenza doveva tirarla il popolo contro il papato e la monarchia assoluta. S’immagini quale propaganda inconscia facevano. Era facile conchiudere che, se la fonte del dritto è nel popolo, sovrana legittima è la democrazia, l’universalitá de’ fedeli e l’universalitá de’ cittadini. Il vero padrone mettea il capo fuori, salutando gesuiti e giannonisti come suoi precursori, benemeriti tutti e due, perché lavoravano gli uni a scalzare il principato assoluto, gli altri a scalzare il papato assoluto. Erano «istrumenti della provvidenza», avrebbe detto Vico, la quale tirava dall’opera loro risultati superiori a’ lor fini.

Si era sempre parlato dell’etá primitiva della Chiesa. Una immagine confusa ne rimanea alle moltitudini, come dell’etá dell’oro. Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella richiamavano la Chiesa a quei tempi evangelici, piú conformi alla puritá del [p. 309 modifica]Vangelo. Quello era anche il cavallo di battaglia per gli eretici. Ecco quella etá divenuta storia particolareggiata, accertata e in buono e chiaro volgare nelle pagine del Giannone. I primi tre secoli della Chiesa sono descritti coll’immaginazione vòlta alla Chiesa di quel tempo. Scrittore e lettore facevano il paragone. Di mezzo alla narrazione germogliava l’allusione, la confutazione, l’epigramma. Allora la gerarchia era molto semplice, e non ci erano che vescovi, preti e diaconi; e i preti non erano soggetti a’ vescovi, ma erano il loro senato, i loro consiglieri; e alla cima non ci era nessuno che comandasse : comandava il sinodo, l’assemblea de’ vescovi. La legge era la sacra Scrittura; i provvedimenti presi nei sinodi erano semplici regolamenti per l’amministrazione delle chiese; e non ci era la ragion canonica:


la quale da poi, col lungo correr degli anni, emula della ragion civile, maneggiata da’ romani pontefici, ardi non pur pareggiare, ma interamente sottomettersi le leggi civili.


La Chiesa non avea alcuna giurisdizione : la sua giustizia era chiamata «notio», «iudicium», «audientia», non «iurisdictio»; ed era censura di costumi e arbitrato volontario. Clero e popolo eleggevano i vescovi, e anche nell’elezioni de’ preti e de’ diaconi clero e popolo vi avevano lor parte. La Chiesa vivea di offerte volontarie: non avea stabili e non decime. Ciò che soverchiava si dava a’ poveri. Tale era la Chiesa primitiva:


ma assai mostruosa e con piu strane forme sará mirata nell’etá men a noi lontane, quando, non bastandole d’avere in tante guise trasformato lo stato civile e temporale de’ principi, tentò anche di sottoporre interamente l’imperio al sacerdozio.


I monaci erano pochi, solitari e religiosi; ma la corruzione venne subito, e


non senza stupore scorgerassi come in queste nostre province abbian potuto germogliar tanti e si vari ordini, fondandovi si numerosi e magnifici monasteri, che ormai occupano la maggior parte della repubblica e de’ nostri averi, formando un corpo tanto considerabile, che ha potuto mutar lo stato civile e temporale di questo nostro reame. [p. 310 modifica]

Come non avea la Chiesa giustizia contenziosa né giurisdizione, cosí non avea fòro né territorio; perché ciò «non dipende dalle chiavi, né è di diritto divino, ma piú tosto di diritto umano e positivo, procedendo principalmente dalla concessione o permissione de’ principi temporali», ai quali solamente «Dio ha dato in mano la giustizia», come dice il Salmista: «Deus iudicium suum regi dedit». Né avea potere d’imponer pene afflittive di corpo, d’esilio, e molto meno di mutilazione di membra o di morte; e ne’ delitti piú gravi di eresia toccava a’ principi di punire con temporali pene i delinquenti. Degli abusi della Chiesa spettava il rimedio a’ principi, che facevano leggi per porvi un freno, specialmente per gli acquisti de’ beni temporali; e «i padri della Chiesa», come sant’Ambrogio e san Girolamo, «non si dolevano di tali leggi, né che i principi non potessero stabilirle, né lor passò mai per pensiero che per ciò si fosse offesa l’immunitá o liberta della Chiesa». Federico secondo proibi l’acquisto de’ beni stabili alle chiese, monasteri, templari ed altri luoghi religiosi:


ma, essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso di noi altre massime, che persuasero non potere il principe rimediare a questi abusi, e riputata perciò la costituzione di Federico empia ed ingiuriosa all’immunitá delle chiese, si ritornò a’ disordini di prima. E se la cosa fosse stata ristretta a que’ termini, sarebbe stata comportabile; ma da poi si videro le chiese e i monasteri abbondare di tanti stati e ricchezze, ed in tanto numero, che picciola fatica resta loro d’assorbire quel poco ch’è rimaso in potere dei secolari.


Il potere temporale «appartiene allo Stato in corpo» ; ma i principi hanno guadagnata e ottenuta la signoria in tutt’i paesi del mondo. E, se il romano pontefice e i prelati della Chiesa hanno «potenza temporale», non è giá


perché fosse stata prodotta dalla sovranitá spirituale, e fosse una delle sue appartenenze necessarie, ma si è da loro acquistata di volta in volta per titoli umani, per concessioni di principi o per prescrizioni legittime, non giá apostolico iure, come dice san Bernardo: «Nec enim ille tibi dare, quod non habebat, potuit». [p. 311 modifica]


Questo quadro della Chiesa primitiva, accompagnato con tali riscontri, ti dá come in iscorcio tutto il processo della storia. La lotta tra le leggi canoniche e le civili è come il centro di un vasto ordito, che abbraccia tutta la storia della legislazione, illuminata dalla storia de’ governi e delle mutazioni politiche. Vico e Giannone erano contemporanei. Giannone era di otto anni piú giovane. Ma non parlano l’uno dell’altro, come non si conoscessero. Pure lavoravano su di un fondo comune, le leggi, e riuscivano per diversa via alle stesse conclusioni. L’uno era il filosofo, l’altro Io storico del mondo civile. Tutti e due avvocati mediocri, profondi giureconsulti. Vico si tenea alto nelle sue speculazioni filosofiche e nelle sue origini, e non scendeva in mezzo agl’interessi e alle passioni, e passò inosservato. Ma grandissima fu la fama e l’influenza dell’altro, perché scende nelle quistioni piú delicate di quel tempo, ed è scrittore militante, animato dallo stesso spirito de’ combattenti. Parla ardito, e giá con quel motteggio che era proprio del secolo: sente dietro di sé tutta la sua classe e tutti gli uomini colti. La persecuzione fece di lui un eroe, lo confermò nella sua via, lo spinse fino al Triregno, la piú radicale negazione del papato e dello spiritualismo religioso, a volerne giudicare da’ sunti. Il manoscritto fu seppellito negli archivi dell’Inquisizione. Il suo motto era: — Bisogna demolire il regno celeste. — Non gli basta piú la polizia ecclesiastica: vuole colpire il papato nella sua radice, rompendo il legame che stringe gli uomini al cielo. Fa perciò una storia del regno celeste, come prima avea fatto una storia delle leggi ecclesiastiche; e, come questa è il centro di un quadro piú vasto, quella è il centro di un quadro che abbraccia tutta l’umanitá. Mostrare i dogmi nella loro origine, nelle loro alterazioni, nella loro negazione, scuotere la fede nel dogma della risurrezione degli uomini: questo fa con grande erudizione e con sottili considerazioni. Ma l’ambiente in Italia non era ancora tale che vi potessero trovar favore idee cosí radicali, elaborate a Vienna e a Ginevra. La coltura avea sviluppato l’ingegno, ma non avea ancora formato il carattere. In Giannone stesso l’uomo era inferiore allo scrittore. Né i tempi [p. 312 modifica]erano cosí feroci nella persecuzione e cosí assoluti nella proibizione, che rendessero possibili le disperate resistenze sino al martirio. Ci era una mezza libertá, e perciò una mezza opposizione. Ci era il liberalismo del medio ceto, rivolto contro i baroni e i chierici, favorito dal sovrano, e perciò in certi limiti cortigiano, ipocrita e, come si dice oggi, in guanti gialli. Un saggio delle idee di quel tempo e di questo modo di opposizione ce lo dá il seguente brano di uno scrittore napolitano di quella etá:


La giusta idea che fossero i chierici ministri del regno del cielo gli aveva esentati da tutt’i pesi del regno della terra; e la cura destinata loro delle anime e del culto divino gli ha oltre misura arricchiti di beni e privilegi in questo mondo. Non è giá nostra intenzione di diminuire in nulla la vantaggiosa opinione del clero presso il popolo: quei ministri della religione li rispettiamo nel fondo del cuore. La religione è una delle prime leggi fondamentali dello Stato; e il senso di tali leggi non deve mai fare l’oggetto della discussione del semplice cittadino. Al consiglio del sovrano appartiene il decidere delle loro inutilitá e vantaggi; siccome la sua suprema potestá ne crea o depone i ministri, ne fissa o sospende l’esercizio, i riti, le funzioni, ne spiega o vela le dottrine, o le vendica, altera ed abroga, conformemente a’ lumi che su di ciò la divinitá, di cui è il rappresentante, gl’ispira. Dico la «divinitá», perché altrimenti che significherebbe quel «Dei gratia rex»? Ascoltare e ubbidire, ecco in questo caso il dovere del suddito. Ma la religione, e soprattutto la vera religione, ordina agli uomini di amarsi, vuole che ciaschedun popolo abbia le migliori leggi politiche, le migliori leggi civili. Ella impone a’ suoi ministri l’osservanza di queste leggi. Essi devono dare l’esempio: la loro condotta è la base della puritá delle coscienze de’ popoli. Ma, parlando a cuore aperto, hanno eglino da piú secoli mai dato, o dánno tuttora un tale esempio? Le loro immunitá personali, l’esenzione de’ loro beni da’ tributi, le giurisdizioni usurpate, gl’immensi acquisti sorpresi, la maniera rigogliosa con la quale hanno sempre sostenuto tali giurisdizioni ed acquisti, le dottrine bizzarre da loro insegnate a tal fine, e tanti altri loro pretesi previlegi, dritti e riguardi non sono nel fondo tante manifeste infrazioni delle leggi politiche e civili? Essi sono troppo ragionevoli onde volere sottrarsi all’evidenza di questo argomento. Noi non parliamo a’ sacerdoti [p. 313 modifica]di Cibele o di Bacco, e molto meno ai preti di Hume e di Rousseau: noi ci lusinghiamo di ragionare co’ ministri della vera religione, e fra questi soprattutto con quei d’ Italia, li quali si son quasi sempre distinti per l’affabilitá e dolcezza del loro carattere, non meno che per l’aborrimento pel bigottismo e l’intolleranza. Non vi ha una contea, baronia o altro simile feudo, non vi ha una rendita stabile e fissa, un’abitazione comoda e decorosa destinata a compensare i sudori di un ministro di Stato, di un presidente, di un consigliere o di un generale; dove tanti guardiani, priori, vescovi ed abati possedono sotto questo titolo de’ pingui feudi e rendite fisse, intatte da’ pesi de’ sovrani ed intangibili, e le loro abitazioni fanno scorno a quelle de’ principi. I frati, comeché giurino solennemente di osservare una maggior povertá del clero secolare, sono andati piú oltre nell’accumulare, e han tolto a’ poveri secolari i mezzi da potere sussistere. In coscienza potrebbono essi occupare nell’universitá le cattedre, nella corte le cariche, nelle parrocchie i pulpiti, e fino nelle case l’intendenza degli affari domestici? Potrebbono senz’arrossire far da speziale, da mercante e da banchiere? In quanto al loro numero, è divenuto cosí eccessivo, che, se i principi non vi mettono presto rimedio, il loro vortice inghiottirá l’intiero Stato. Onde viene che il minimo villaggio d’Italia debba esser retto da cinquanta o sessanta preti, senza contare gl’iniziati di alto rango? Le cittá vi pullulano di campanili e i conventi fanno ombra al sole. Vi ha in qualcheduna di esse venticinque conventi di frati o suore di san Domenico, sette collegi di gesuiti, altrettante case di teatini, una ventina o trentina di monasteri di frati francescani, forse cinquanta altri di diversi ordini religiosi di ambi i sessi, e piú di quattro o cinquecento altre chiese e cappelle di minor conto; ma non vi sono all’incontro che trentasei smilze parrocchie, verun osservatorio astronomico, veruna accademia di pittura, di scoltura, di architettura, di chirurgia, di agricoltura e di altre arti e scienze, veruna buona fabbrica di panni o di tele, veruna buona manifattura di seta o di cotone, veruna biblioteca appartenente al pubblico, verun orto botanico o gabinetto di curiositá naturali o teatro anatomico, veruna cura per rendere i porti netti, le strade comode ed agiate, gli alberghi propri e le cittá illuminate, il commercio piú vivo. Pensano i chierici di dover sempre sentire i comodi della societá senza mai sentirne alcun peso? che la bilancia penderá sempre a lor favore? che non vi sará mai da sperar l’equilibrio? [p. 314 modifica]

Pittura viva di quel tempo, nelle sue idee e nel suo linguaggio. Si sente a mille miglia il laico, il borghese e l’avvocato. Il sovrano è per lui l’infallibile. Dovere del suddito è «ascoltare e ubbidire». Rispetta la religione, ha il maggiore ossequio verso i suoi ministri, li accarezza anche; e, fra tante dolcezze, che botte da orbo! Il suo dispetto è che quelli sieno cosí ricchi; e lui, cioè loro, fra tante strettezze. Se anche loro avessero un feudo, passi. Ci si vede l’effetto della coltura. Il confronto fra tante chiese e conventi, e tanta negligenza di scienze, arti, industrie e commerci, è eloquente. Si sente il progresso dello spirito con un carattere ancora volgare. L’animo è ancora servile: lo spirito si è emancipato. Tali erano i giureconsulti, da’ quali usciva il movimento liberale, in quella forma un po’ grottesca, tra l’insolenza verso il prete e la servilitá verso il sovrano. Pure, teneri com’erano delle leggi, doveano essere portati naturalmente, per necessitá della loro professione, a combattere l’arbitrio non solo ne’ chierici, ma anche ne’ laici, e a promovere una monarchia non piú assoluta, ma legale, se non liberale. Questa tendenza è giá manifesta in Giannone. Adora le leggi romane, ma adora innanzi tutto la legge, ed è inesorabile verso l’arbitrio:


Fin da’primi tempi — egli dice — della repubblica niente altro bramavasi dalla licenziosa gioventú romana, salvo che non esser governati dalle leggi, ma che dovesse al re ogni cosa rimettersi ed al suo arbitrio, né ciò per altra ragione se non per quella che... vien rapportata da Livio: «Regem hominem esse, a quo impetres, ubi ius, ubi iniuria opus sit... Leges rem surdam, inexorabilem esse...». Sentimenti pur troppo licenziosi e dannevoli... Meglio sará che nella repubblica abbondino le leggi... che rimetter tutto all’arbitrio de’ magistrati.


Cosí la quistione ecclesiastica si allargava e diveniva quistione legale, combatteva l’arbitrio sotto ogni forma. Le usurpazioni de’ nobili e de’ chierici erano contrastate come illegittime, contrarie alle leggi politiche e civili. E del pari erano biasimati gli atti arbitrari nelle autoritá secolari, e anche nel monarca. In questo pendio si andava molto innanzi. Arbitrio [p. 315 modifica]erano non solo gli atti fuori delle leggi, ma le leggi stesse non conformi a giustizia ed equitá. Gli scrittori cominciarono a notare tutt’ i disordini e abusi nelle leggi civili e criminali; e i principi lasciavano dire, perché non si toccava della forma de’ governi, né era messa in dubbio la loro potestá, anzi si facea loro appello per isradicare gli abusi. Il moto liberale in Italia non veniva dalla filosofia o da «ragioni metafisiche», come dicea Giannone, ma da un intimo sentimento di legalitá e di giustizia. Al Cinquecento il motto de’ riformatori era la «corruttela de’ costumi». Allora fu l’«ingiustizia delle leggi». Quel moto era religioso ed etico, questo era politico: quello stesso moto sviluppato nelle sue premesse e allargato nelle sue conseguenze.

Il movimento, rimasto in gran parte speculativo e senza immediate applicazioni in Bruno, in Campanella, in Vico, quasi ancora un’utopia, allargandosi nella classe colta, si concretava nello scopo e ne’ mezzi per opera principalmente de’ giureconsulti. Scopo era combattere i privilegi ecclesiastici e feudali in nome dell’eguaglianza, combattere l’arbitrio in nome della legge e riformare la legge in nome della giustizia e dell’equitá. La leva era il principato civile, elemento laico, legale e riformatore, sul quale si appoggiavano le speranze de’ novatori. Le idee erano sviluppate con grande erudizione, con molta sottigliezza d’interpretazioni e di argomentazioni, come di gente avvezzata alle dispute forensi. In Germania il movimento era appena spuntato, rimasto nelle alte regioni della speculazione. Il sensismo di Locke avea generato lo scetticismo di Hume, e n’era nata una nuova speculazione sull’intelletto umano, una filosofia o una critica dell’intelletto, del quale Locke avea scritta la storia. Kant e poi Fichte concentravano lo spirito in quegli ardui problemi, e attendevano a gittare profonde le radici prima di alzare l’albero; pensavano alla base, sulla quale dovea sorgere la civiltá nazionale. Di questi filosofi, in Italia era appena penetrato Locke, e in una traduzione mutilata dalla censura. Il movimento, come si andava sviluppando nell’Inghilterra e in Germania, aveva appena qualche eco in Italia, anzi anche cola penava a farsi via, dominato dagl’influssi francesi. La Francia [p. 316 modifica]era la grande volgarizzatrice delle idee dal secolo anteriore elaborate: era non la dimostrazione, ma l’epilogo; non la ricerca, ma la formola; non la speculazione, ma l’applicazione; la scienza giá assodata ne’ suoi principi e divenuta catechismo, in una forma letteraria e popolare che rendeva la propaganda irresistibile. La negazione giungeva all’ultima sua efficacia nell’ironia bonaria di Voltaire, con tanto buon senso sotto tanta malizia. L’affermazione giungeva alla precisione di un catechismo in Rousseau, che combatteva quella societá convenzionale in nome della societá naturale, dalla quale scaturivano i dritti dell’uomo, il suffragio universale e la sovranitá del popolo. Giá la sua non era quasi piú una speculazione filosofica: era una bibbia, filosofia divenuta sentimento e calata nell’immaginazione. Montesquieu sollevava i piú ardui problemi di politica e di legislazione in una forma incisiva, la quale, piú che scienza, era sapienza condensata e formolata. Intorno a questi centri si aggruppavano gli enciclopedisti e una moltitudine di scrittori, diversi d’ingegno e di coltura, ma tenuti tutti a quel tempo grandi uomini. Ben presto non ci fu piú uomo colto in Italia che non li leggesse avidamente.

Abbondarono i «filosofi» i «filantropi» e gli «spiriti forti»: i nuovi nomi de’ liberali o degli uomini nuovi o novatori. I filosofi erano filantropi o amici dell’uomo o umanitari, e insieme spiriti forti o liberi pensatori, che in nome della ragione o della scienza condannavano tutto ciò che nelle idee o ne’ fatti se ne allontanava. La loro azione pubblica era avvalorata dalle associazioni secrete de’ franchi muratori, mossi dagli stessi fini e dagli stessi sentimenti. Emancipare il pensiero e l’azione da ogni ostacolo esteriore, religioso o sociale, uguagliare giuridicamente le classi, provvedere all’istruzione e al benessere delle classi inferiori, queste erano le basi del nuovo edificio che si voleva costruire. Credevasi che tutto questo si potesse ottenere con articoli di leggi, a quel modo che avevano fatto Solone, Licurgo, Numa. E blandivano i sovrani e li predicavano istrumenti provvidenziali per il rinnovamento del mondo. Si formò una pubblica opinione, il cui centro era Parigi, la cui voce [p. 317 modifica]erano i filosofi. Seguire la pubblica opinione, fare alcune riforme secondo i dettami de’ filosofi era un mezzo di governo, un modo di acquistarsi fama e popolaritá a buon mercato, come era nel secolo decimosesto il proteggere letterati e artisti. Il gran delitto del secolo, il violento attentato alla nazionalitá polacca rimase seppellito sotto quel nembo di fiori, che i filosofi sparsero sulla memoria di Elisabetta e Caterina seconda, di Maria Teresa e Giuseppe secondo e di Federico secondo, i cortigiani e i corteggiati di Voltaire, di D’Alembert, di Raynal e degli enciclopedisti. Né voglio giá dire che fossero riformatori solo per calcolo, ché sarebbe calunniare la natura umana. Riforme benefiche e non pericolose alla loro autoritá, anzi buone a rafforzarla, le facevano volentieri, cospirando insieme l’utile proprio e l’interesse pubblico: il calcolo si accompagnava col desiderio del bene, col piacere delle lodi e con l’intima persuasione. imbevuti com’erano delle stesse idee. Il simile avveniva in Italia. I principi gareggiarono nelle riforme: Carlo terzo e Ferdinando quarto, Maria Teresa e Giuseppe secondo, Leopoldo, Carlo Emmanuele, e fino papa Ganganelli, che alla pubblica opinione offerse in olocausto i gesuiti. I filosofi, domandando in nome della libertá e della uguaglianza l’abolizione di tutt’i privilegi feudali, ecclesiastici, comunali, provinciali, e di ogni distinzione di classi o di ordini sociali, avevano seco i principi, che lottavano appunto da gran tempo per conseguire questo scopo, fondando il loro potere assoluto sulla soppressione di ogni libertá o privilegio locale. Fin qui filosofia e monarchia assoluta andavano di conserva. Lo stesso accordo era per le riforme economiche, amministrative e giuridiche, come semplicizzare le imposte, unificare le leggi, svincolare la proprietá, promovere l’industria e il commercio e l’agricoltura, assicurare contro l’arbitrio la vita e le sostanze de’ cittadini. I principi ci stavano, e, qual piú qual meno, erano innanzi in quella via. Pensavano che, fiaccato il clero e la nobiltá, sciolte le maestranze, rimosse tutte le resistenze locali, sarebbe rimasta nelle loro mani la signoria assoluta, assicurata da’ due nuovi ordigni che succedevano a quella compagine disfatta del medio evo: la [p. 318 modifica]burocrazia e l’esercito. E non pensavano che i principi, da cui movevano quelle riforme e che costituivano la pubblica opinione, menavano a conseguenze piú lontane, essendo impossibile, che, abolendo i privilegi, rimanesse salvo il privilegio piú mostruoso, ch’era la monarchia assoluta e di dritto divino, e che, frenando l’arbitrio ne’ preti, ne’ baroni e ne’ magistrati, potessero essi governare a lungo co’ biglietti regi e i motupropri. Erano conseguenze inevitabili, che presto o tardi avrebbero condotta la rivoluzione, anche se la Francia non ne avessedato l’esempio. Ma per allora nessuno ci badava, e si procedeva allegramente nelle riforme, persuasi tutti che bastassero ministri «illuminati» e principi «paterni» per potere pacificamente e per gradi rinnovare la societá. Gli scrittori, non impediti, anzi incoraggiati e protetti, lasciavano le speculazioni astratte, e trattavano i problemi piú delicati e di applicazione immediata con quella sicurezza che veniva e dall’applauso pubblico e dalla benevolenza de’ principi, «direttori della pubblica felicitá». Beccaria dice:


I grandi monarchi, i benefattori della umanitá, che ci reggono, amano le veritá esposte dall’oscuro filosofo...; e i disordini presenti... sono la satira e il rimprovero delle passate etá, non giá di questo secolo e de’ suoi legislatori.


E Filangieri, con entusiasmo meridionale, cosí conchiude il libro secondo della sua Scienza della legislazione:


Il filosofo dev’essere l’apostolo della veritá e non l’inventore dei sistemi. Il dire che «tutto si è detto» è il linguaggio di coloro che non sanno cosa alcuna produrre, o che non hanno il coraggio di farlo. Finché i mali che opprimono l’umanitá non saranno guariti; finché gli errori e i pregiudizi, che li perpetuano, troveranno de’ partigiani; finché la veritá, conosciuta da pochi uomini privilegiati, sará nascosta alla maggior parte del genere umano; finché apparirá lontana da’ troni; il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, d’ illustrarla. Se i lumi ch’egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. Cittadino di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte l’etá, [p. 319 modifica]l’universo è la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli.


La filosofia è giá oltrepassata. Non la si dimostra piú: è un antecedente generalmente ammesso. Lo scopo non è fare una filosofia, inventare un sistema. Lo scopo è un apostolato : propagare e illustrare la filosofia, cioè la veritá conosciuta da pochi uomini privilegiati. È la veritá annunziata con tuono di oracolo, col calore della fede, come facevano gli apostoli. È una nuova religione. Ritorna Dio tra gli uomini. Si rifá la coscienza. Rinasce l’uomo interiore. E rinasce la letteratura. La nuova scienza giá non è piú scienza : è letteratura.