Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XIX. La nuova scienza/IV.
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iv
Se la ristaurazione cattolica fosse stata vera e ragionevole restaurazione, cioè a dire conciliazione, come volea il Sarpi e come fantasticava il Campanella, si sarebbe assimilato il nuovo in ciò che era pratico e compatibile. Ma la storia non si fa co’ «se» né col senno di poi. Il movimento era ancora nella sua forma istintiva, nel suo stato violento e contraddittorio. D’altra parte la Chiesa, piú che da sentimenti e convinzioni religiose, era mossa da interessi mondani e da passioni politiche. Perciò la restaurazione si chiari un’aperta reazione. Nessuno, di queste condizioni morbose, ha avuto una intelligenza piú chiara che Paolo Sarpi. Ecco alcuni brani delle sue pitture:
Le pene canoniche erano andate in disuso, perché, mancato il fervore antico, non si potevano piú sopportare... Il presente secolo non era simile a’ passati, ne’ quali tutte le deliberazioni della Chiesa erano ricevute senza pensarci piú oltre; lá dove al presente ognuno vuol farsi giudice ed esaminare le ragioni... Il rimedio è appropriato al male, ma supera le forze del corpo infermo, ed, in luogo di guarirlo, sarebbe per condurlo a morte; e, pensando di riacquistar la Germania, farebbe perdere l’Italia prima ed alienare quella maggiormente.
Cosí parlava il cardinale Pucci per dissuadere Adriano sesto, che voleva a forza di pene canoniche sradicare le idee nuove e ricondurre
l’aureo secolo della Chiesa primitiva, nella quale i prelati avevano assoluto governo sopra i fedeli, non per altro se non perché erano tenuti in continuo esercizio colle penitenze; dove ne’ tempi che corrono, fatti oziosi, vogliono scuotersi dalla obbedienza.
Del qual parere era anche il cardinale fra Tommaso da Gaeta, a cui il Sarpi fa dire:
Il popolo germanico, che, sepolto nell’ozio, presta orecchie a Martino, che predica la libertá cristiana, se fosse con penitenze tenuto in freno, non penserebbe a questa novitá. Oltre a questo rimedio delle penitenze, il buono Adriano voleva una seria riforma, quando anche dovesse lasciare il potere temporale. Ma contro gli ragiona il cardinale Soderino in questo modo:
Non esservi speranza di confondere ed estirpare i luterani colla correzione de’ costumi della corte; anzi questo esser un mezzo di aumentare a loro molto piú il credito. Imperoché la plebe, che sempre giudica dagli eventi, quando per l’emenda seguita resterá certificata che con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche parte, si persuaderá similmente che anche le altre novitá proposte abbiano buoni fondamenti... In tutte le cose umane avvenire che il ricevere soddisfazione in alcune richieste dá pretensione di procacciarne altre e di stimare che sieno dovute... Nessuna cosa far perire un governo maggiormente che il mutar i modi di reggerlo; l’aprire vie nuove e non usate esser un esporsi a gravi pericoli, e sicurissima cosa essere camminare per i vestigi de’ santi pontefici... Nessuno aver mai estinto l’eresie con le riforme, ma con le crociate e con eccitare i principi e popoli all’estirpazione di quelle.
Quel bravo cardinale ammette che ci è del cattivo; ma non bisogna toccarvi, per non dar ragione agli avversari. E all’ultimo riserba il piú prezioso, la ragione piú efficace:
Nessuna riforma potersi fare, la quale non diminuisca notabilmente l’entrate ecclesiastiche; le quali avendo quattro fonti, uno temporale, le rendite dello Stato ecclesiastico, gli altri spirituali, le indulgenze, le dispense e la collazione de’ benefici, non si può otturar alcuno di questi che le entrate non restino troncate in un quarto.
Adriano conchiuse che farebbe le riforme passo a passo: il qual sistema moderato non piacque a’ tedeschi, i quali rispondevano motteggiando che da un passo all’altro sarebbe corso un secolo. Si può immaginare quale impressione dovessero fare su’ contemporanei queste rivelazioni di Paolo Sarpi, che metteva in tanta evidenza i motivi mondani e politici della ristaurazione cattolica.
La quale, essendo aperta reazione, fondavasi sopra idee e tendenze affatto opposte alle altre. Questi proclamavano l’indipendenza e la forza della ragione: quelli la sua incompetenza e la sua debolezza. Questi celebravano la coltura e la scienza: quelli stavano con la pura fede, co’ poveri di spirito e con i semplici di cuore. Gli uni si fondavano sull’esperienza e sull’osservazione; gli altri sulla rivelazione e sull’autoritá di Aristotele, degli scolastici, de’ santi padri e de’ dottori. Gli uni facevano centro de’ loro studi la natura e l’uomo: gli altri sottilizzavano sugli attributi dí Dio, sulla predestinazione e sulla grazia. Gli uni volevano togliere alla Chiesa ogni temporalitá e semplicizzare le forme ed il culto: gli altri volevano mantenere inviolate tutte le forme, anche le assurde e le grottesche; e non che rinunziare al temporale, ma volevano dilatare la loro ingerenza e il loro dominio, prendendo a base il potere assoluto del papa e la sua supremazia anche nelle cose temporali. Fin d’allora valse il motto: «Aut sint ut sunt, aut non sint»: o vivere cosí, o morire.
Questa reazione cosí cieca sarebbe durata poco, se non fosse stata sorretta dalla tenace abilitá de’ gesuiti, la milizia del papa. I quali, doma l’aperta ribellione co’ terrori dell’Inquisizione, vollero guadagnare alla restaurazione anche le volontá e le coscienze, mostrando in questo assunto una conoscenza degli uomini e del secolo e un’arte di governo, che li resero degni continuatori della politica medicea. Persuasi che governa il mondo chi piú sa, coltivarono gli studi e si sforzarono di mantenere il primato del clero nella coltura. Non potendo estirpare in tutto il nuovo, accettarono la superficie, e vestirono la societá a nuovo per meglio conservare il vecchio. Presero dunque aria di uomini colti e liberali, scossero da sé la polvere scolastica, e, per meglio vincere il laicato, presero ne’ modi e ne’ tratti apparenze piú laicali che fratesche, confidandosi di abbatterlo con le sue armi. Divenuti amici e protettori de’ letterati e fautori della coltura, apersero scuole e convitti, e presero nelle loro mani l’istruzione e l’educazione pubblica. Non mancarono i teatrini, le commedie, le accademie, altre imitazioni degli usi laicali. La superficie era la stessa, lo spirito era diverso. Perché, dove gli uomini nuovi miravano a tirare l’attenzione dal di fuori al di dentro, dagli accidenti e dagli accessori al sostanziale, dalle forme allo spirito, essi miravano a coltivare la memoria, ad allettare i sensi e l’immaginazione piú che l’intelletto, a trattenere l’attenzione sulla superficie, si che l’intelligenza fra tante cognizioni empiriche rimaneva passiva e vuota: onde usciva una coltura mezzana e superficiale, piú simile ad erudizione che a scienza. Al che si accomodava facilmente la tempra fiacca de’ piú, contenti di quello spolvero che dava loro un’aria di nuovo, l’aria del secolo, e cosí a buon mercato. I gesuiti vennero in moda, sfogandosi i mali umori del secolo sopra gli altri ordini religiosi, come restii ad ogni novitá. Il loro successo fu grande, perché, in luogo di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono la scienza agli uomini, lasciando le plebi nell’ignoranza e le altre classi in quella mezza istruzione che è peggiore dell’ignoranza. Parimenti, non potendo alzare gli uomini alla puritá del Vangelo, abbassarono il Vangelo alla fiacchezza degli uomini, e costruirono una morale a uso del secolo, piena di scappatoie, di casi, di distinzioni: un compromesso tra la coscienza e il vizio, o, come si disse, una «doppia coscienza». E nacque la dottrina del «probabilismo», secondo la quale un «doctor gravis» rende probabile un’opinione, e l’opinione probabile basta alla giustificazione di qualsiasi azione, né può un confessore ricusarsi di assolvere chi abbia operato secondo un’opinione probabile. Un giudice, dice un dottore, può decidere la causa a favore dell’amico, seguendo un’opinione probabile, ancorché contraria alla sua coscienza. Un medico, dice un altro dottore, può con lo stesso criterio dare una medicina, ancorché egli opini che fará danno. Richiedono, sola cautela, che non ci sia scandalo, e non giá perché la cosa sia in sé cattiva, ma per il pregiudizio che ne può venire.
Questa morale rilassata era favorita da un’altra teoria. «directio intentionis». formulata a questo modo: che un’azione cattiva sia lecita quando il fine sia lecito. È la massima che il fine giustifica i mezzi, applicata non solo alle azioni politiche, ma alla vita privata. Non è peccato annegare in un fiume un fanciullo eretico per battezzarlo: uccidi il corpo, ma salvi l’anima. Non è peccato uccidere la donna che ti ha venduto l’onore, quando puoi temere che, svelando il fatto, noccia alla tua riputazione.
E all’ultimo viene la dottrina: «reservatio et restrictio mentalis». Il giuramento non ti lega, se tu usi parole a doppio senso rimanendo a te l’interpretazione, o se aggiungi a bassa voce qualche parola che ne muti il senso. Non è bugia, dice un dottore, usare parole doppie che tu prendi in un senso, ancorché gli altri le prendano in un senso opposto. E non è bugia dire una cosa falsa, quando nel tuo pensiero intendi altro. Hai ammazzato il padre: pure puoi dire francamente: — Non l’ho ammazzato, — quando entro di te pensi a un altro che realmente non hai ammazzato, o ci aggiungi qualche riserva mentale, come: — Prima ch’egli nascesse, non l’ammazzai di certo. — Questa scaltrezza, aggiunge il dottore, è di grande utilitá, porgendoti modo di nascondere senza bugia quello che hai a nascondere.
Vedi quante scappatoie! E ce n’era per tutt’i casi. In quell’arsenale trovi come puoi senza peccato non andare talora a messa, o spendervi poco tempo, o durante la messa conversare, o, andando a messa, guardare le donne con desideri amorosi. Se vuoi rimanere in buon concetto presso il tuo confessore, scegli un altro quando abbi commesso qualche peccato grave. E, se ti pesa il dirlo, usa parole doppie, o fa’ una confessione generale, per gittarlo cosí, alla rinfusa, nella moltitudine de’ peccati vecchi.
Ciascuno immagina, con quella facile scienza, con quella piú facile morale, che séguito e che favore dovettero avere i gesuiti, maestri, confessori, predicatori, missionari, scrittori, uomini di mondo e di chiesa. Seppero conoscere il secolo e lo dominarono. E mantennero il dominio con l’energia e la logica della loro volontá. Salirono a tanta potenza, che ingelosirono i principi e posero talora in sospetto anche i papi. Prendendo a base l’ubbidienza passiva, di modo che l’uomo dirimpetto al suo superiore fosse «perinde ac cadavere, stabilirono la monarchia assoluta. Ma volevano che il papa dominasse i principi, e volevano loro dominare il papa.
I principi si difendevano, offendendo, e cercando fino un sostegno nelle idee nuove. Cosí Paolo Sarpi difendeva la libertá di Venezia. La lotta era disuguale, perché alle armi spirituali era scemata la riputazione, e i principi avevano guadagnata tutta quella forza ch’era mancata a’ feudi ed a’ comuni. I gesuiti allora, non trasandando le armi puramente ecclesiastiche, operarono principalmente come un corpo politico, e seppero maneggiare le armi mondane con una tenacitá uguale alla destrezza. Presero aria di democratici e cercarono forza ne’ popoli contro i principi. Fin dal i562 Lainez, il secondo generale de’ gesuiti, sosteneva nel concilio di Trento che la Chiesa ha le sue leggi da Dio, ma la societá ha il dritto di scegliersi essa il suo governo. Il cardinale Bellarmino sostiene che il potere politico è da Dio; ma il dritto divino è non ne’ singoli uomini, ma nella intera societá, non ci essendo nessuna buona ragione che uno o molti debbano comandare agli altri; che monarchia, aristocrazia, repubblica sono forme che derivano dalla natura dell’uomo; e che perciò, quando ci è alcuna legittima ragione, può il popolo mutare la sua forma di governo, come fecero i romani. Ecco giá spuntare la «sovranitá del popolo» e il «dritto dell’insurrezione». Mariana vuole la monarchia, ma a patto che ubbidisca al consiglio de’ migliori cittadini raccolti in senato. Era spagnuolo, e scriveva sotto Filippo terzo, che tenea Campanella nelle prigioni di Napoli. Non ammette il dritto ereditario, «nato dalla troppa possanza de’ re e dalla servilitá de’ popoli», e causa di tanti mali, non ci essendo niente piú mostruoso che «commettere le sorti di un popolo a fanciulli ancora in culla e al capriccio di una donna». Re che ofiende i dritti de’ popoli e disprezza la religione è come una bestia feroce, e «ciascuno gii può metter le mani addosso». I dritti di successione non possono esser mutati che col consenso del popolo, perché «dal popolo viene il dritto della signoria». Il re ha il suo potere dal popolo: perciò «non è signore dello Stato o de’ singoli individui, ma un primo magistrato, pagato da’ cittadini». Il re non può da solo porre tasse, fare leggi, scegliersi il successore; perché «le son cose che interessano non solo il re, ma anche il popolo». Il re è sottoposto alle leggi e, quando le viola, il popolo ha il dritto «di deporlo e punirlo con la morte». Queste erano le risposte che davano a’ principi i gesuiti. Ma erano armi a doppio taglio. Perché si potea loro rispondere che, se il dritto di signoria è non ne’ singoli individui, ma nella universalitá de’ cittadini, quel dritto nelle faccende ecclesiastiche è non nel papa, ma nella Chiesa o universalitá de’ fedeli, e per essa nel concilio, che può perciò deporre e anche punire il papa. Che cosa diveniva allora il loro papa, il vicario di Dio? Essi erano repubblicani dirimpetto allo Stato, ed assolutisti dirimpetto alla Chiesa. E, per dire la veritá, si mostravano repubblicani per meglio dominare i principi, ed erano assolutisti per avere tutto il potere nelle loro mani. Né voglio dir giá che i loro scrittori erano di mala fede: anzi moltissimi erano sinceri, credenti e patrioti, primo fra tutti Mariana. Parlo de’ capi, piú uomini politici che uomini di fede.
Dicono che corruppero e infiacchirono i popoli. Il che è cosí poco giusto come dire che Marino corruppe il gusto. Furono effetto e causa. Furono il cattolicismo rammodernato, accomodato possibilmente a’ nuovi tempi per meglio conservarlo nella sua sostanza; furono l’intelletto che succede alla fede e all’immaginazione e si affida piú nell’arte del governo che nelle passioni e nella violenza, l’intelletto spinto sino alla sua ultima depravazione, sofistico e seicentistico; nacquero da quello stesso spirito che portò sulla scena del mondo Machiavelli. Perciò furono un progresso, un naturale portato della storia. La loro responsabilitá è questa: che, trovando nel secolo fiacchezza e ignoranza, non lavorarono a combatterla per migliorare l’uomo, anzi la favorirono e se ne fecero piedistallo. Torto di tutte le reazioni. Vollero una coltura con licenza de’ superiori e stretta in pochi. E quando la coltura, rotte le dighe, si diffuse, fini il loro regno.
La diffusione della coltura era visibile in Italia. E non parlo solo delle scienze esatte e naturali, dove i gesuiti si mostrarono valentissimi, seguendo anche loro la via aperta da Galileo, ma pur delle scienze storiche e sociali. L’abbondanza dell’oro per la scoperta dell’America e la crisi monetaria die’ occasione a’ primi scritti di economia: il Discorso sopra le monete e la vera proporzione fra l’oro e l’argento di Gaspare Scaruffi, che propugnava, come Campanella, l’uniformitá monetaria; e il trattato sulle Cause che possono fare abbondare i regni di oro e d’argento di Antonio Serra di Cosenza, scritto alla Vicaria, dove l’autore, come complice di Campanella, era tenuto prigione. Moltiplicarono i trattati di giurisprudenza, massime nella seconda metá del secolo. Alberico Gentile nel suo libro De iure belli fa giá presentire Grozio; e gli è vicino per forza speculativa Alessandro Turamini, che scrisse De legibus. Tra gl’interpreti del dritto romano sono degni di nota l’Alciato, l’Averani, il Farinaccio, il Fabro. Fondatori della storia del dritto furono il «gran» Carlo Sigonio, come lo chiama Vico, e il Panciroli, maestro del Tasso.
Pubblicarono lavori non dispregevoli di cronologia l’Allacci, il Riccioli, il Vecchietti. Comparivano storie venete, napolitane, piemontesi, pisane: il Nani, il Garzoni, il Summonte, il Capecelatro, il Tesauro, il Roncioni: cronache piú che storie, volgari di sentimento e di stile. In Roma naturalmente si sviluppava l’archeologia. Il Fabretti di Urbino scrivea degli Acquidotti romani e della Colonna traiana, e pubblicava in otto serie quattrocentotrenta iscrizioni dottamente illustrate. Moltiplicavano le compilazioni, le raccolte, come sussidio agli studiosi. Il Zilioli scrisse l’indice di tutt’i libri di dritto pontificio e cesareo, e il Ziletti in ventotto volumi il trattato Iuris universi. Avevi giá annali, giornali, biblioteche, cataloghi e simili mezzi di diffusione. Vittorio Siri aveva pubblicato il Mercurio politico e le Memorie recondite, l’Avogadro il Mercurio vendico. Il Nazzari cominciò a Roma nel i668 il Giornale de’ letterati, e il Cinelli pubblicava la Biblioteca volante, una specie dí storia letteraria. Comparivano gli Annali del Baronio, le Vite de’ papi e cardinali del Ciacconio, la Storia generale de’ concili di monsignor Battaglini, la Storia delle eresie del Bernini, la Napoli sacra di Cesare Caracciolo e la Sicilia sacra del Pirro, liste e notizie di vescovi, la Miscellanea italica erudita del padre Roberti, la Bibliotheca selecta e l’Apparatus sacer del gesuita Possevino, il Mappamondo storico del padre Foresti, continuato da Apostolo Zeno, un primo tentativo di storia universale. Aggiungi relazioni, come la Descrizione della Moscovia del Possevino; i Viaggi del Careri napolitano, che nel i698 compí per terra il giro del mondo; la Relazione dello Zani bolognese, che fu in Moscovia; le Lettere del Negri da Ravenna, che giunse fino al capo Nord; la descrizione delle Indie dei fiorentino Sassetti, che primo die’ notizia della lingua sanscrita. Si conoscea meglio il mondo e meglio i popoli stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante latino delle Indie orientali; il Falletti ferrarese, della Lega di Smalcalda; il Bentivoglio, in lingua artificiata e falsamente elegante, delle Guerre di Fiandra ; il Davila, con semplicitá trascurata, delle Guerre civili di Francia; il padre Strada, prolissamente, delle Cose belgiche. A questa coltura empirica e di mera erudizione partecipavano tutti, laici e chierici, uomini nuovi e uomini vecchi, e i gesuiti vi si mostravano operosissimi: si pensava poco, ma s’imparava molto e da molti. La coltura guadagnava di estensione, ma perdeva di profonditá.
Chi avesse allora guardata l’Italia con occhio plebeo, potea dirla una terra felice. Rivoluzione e guerra aveano abbandonato le sue contrade: piena pace, tranquilli gli spiriti, in riposo il cervello. Le piccole cose vi erano avvenimenti: l’Inghilterra avea Cromwell, ella avea Masaniello. L’Europa camminava senza di lei e fuori di lei, tra guerre e rivoluzioni, nelle quali si elaborava e si accelerava la nuova civiltá. Lei giaceva beata in quel dolce ozio idillico, che era il sospiro e la musa de’ suoi poeti. Dalle guerre di Alemagna usciva la libertá di coscienza, dalle rivoluzioni inglesi usciva la libertá politica, dalle guerre civili di Francia usciva la potente unitá francese e il secolo d’oro, la monarchia di Carlo quinto e di Filippo secondo si andava ad infrangere contro la piccola nazionalitá olandese. L’Italia assisteva a questi grandi avvenimenti senza comprenderli. Davila e Bentivoglio ci pescavano intrighi e fattarelli curiosi, la parte teatrale. E si che tra quegli avvenimenti ci erano pure grandi attori italiani: Caterina de’ Medici, Mazzarino, Eugenio di Savoia, Montecuccoli, il cui trattato della guerra è una delle opere piú serie scritte a quel tempo. Si combatteva non solo con la spada, ma con la penna: le quistioni piú astratte interessavano ed infiammavano le moltitudini; dall’attrito scintillavano nuovi problemi e nuove soluzioni; era una generale fermentazione d’idee e di cose. Ciò che fermentava nel cervello solitario di Bruno e di Campanella, fluttuante, contraddittorio, li era pensiero, stimolato dalla passione, affinato dalla lotta, pronto all’applicazione, in un gran teatro, fra tanta eco, con una chiarezza e precisione di contorni come fosse giá cosa. Questa chiarezza è giá intera in Bacone e in Cartesio, dove il mondo moderno si scioglie da tutti gli elementi scolastici e mistici, da tutti i preconcetti, e si afferma in forme nette e recise. Perciò Galileo, Bacone, Cartesio sono i veri padri del mondo moderno, la coscienza della nuova scienza. Il metodo, che Galileo applicava alle scienze naturali, diviene nelle mani di Bacone il metodo universale e assoluto, la via della veritá in tutte le sue applicazioni: l’induzione caccia via il sillogismo, e l’esperienza mette in fuga il soprannaturale. Cartesio, col suo «de omnibus dubitandum», riassume il lato negativo del nuovo movimento, togliendo ogni valore all’autoritá e alla tradizione; e, col suo «cogito, ergo sum», pone la prima pietra alla costruzione dell’edificio, inizia l’affermazione. Come la Riforma, cosí Cartesio pone a fondamento della coscienza il senso individuale; e come Galileo stabilisce il mondo naturale su’ fatti, cosí egli stabilisce il mondo metafisico su di un fatto: «io penso». All’esperienza esterna si aggiunge l’esperienza interna, l’analisi psicologica. L’ente, ch’era il primo filosofico, qui è un prodotto della coscienza, un «ergo». L’evidenza innanzi a’ sensi e innanzi alla coscienza, il senso interno, è il criterio della veritá. Cartesio, che era un matematico, introduce nella filosofia la forma geometrica, credendo che in virtú della forma entrasse nel mondo metafisico quella evidenza ch’era nel mondo matematico. Era un’ illusione, il cui benefizio fu di cacciar via definitivamente le forme scolastiche e aprire la strada a quella forma naturale di discorso, di cui Machiavelli avea dato esempio, ed egli medesimo nel suo ammirabile Metodo. Queste idee non erano nuove in Italia, anzi erano volgari a tutti gli uomini nuovi; ma, naufragate in vaste sintesi immature e senza eco, rimanevano sterili. Qui le vedi a posto, staccate, rilevate, formulate con chiarezza ed energia; e parvero una rivelazione. D’altra parte Cartesio ebbe cura di non rompere con la fede e di accentuare la natura spirituale dell’anima e la sua distinzione dal corpo, base della dottrina cristiana, si che dicea parergli meno sicura l’esistenza del corpo che quella dello spirito: oltre a ciò, con le sue «idee innate» lasciava aperto un varco alla teologia e al soprannaturale. Cosí egli ti dava la prima filosofia nuova, che sembrasse conciliabile con la religione, in un tempo che, per l’infanzia della critica e della coscienza, non era facile pesare tutte le sue conseguenze. Perciò, come la Riforma religiosa, la sua riforma filosofica ebbe un gran successo; perché le riforme efficaci son quelle che prendono una forma meno lontana dal passato e dallo stato reale degli spiriti. Aggiungi la sua superficialitá, l’estrema chiarezza, la forma accessibile, quel presentar poche idee e nette innanzi alle moltitudini: si rivelava giá lo spirito francese volgarizzatore e popolare. La conseguenza naturale della riforma era questa: che l’uomo rientrava in grembo della natura, diveniva una parte della storia naturale. Posto che la filosofia ha la sua base nella coscienza, lo studio della coscienza o de’ fatti psicologici diveniva la condizione preliminare di ogni metafisica, come lo studio della natura diveniva l’antecedente di ogni cosmologia. Il mondo usciva dalle astrazioni degli universali ed entrava in uno studio serio dell’uomo e della natura, nello studio del reale. Per questa via modesta e concludente si era messo Galileo: di lá uscivano i grandi progressi delle scienze positive. Cartesio applicava alla metafisica gli stessi procedimenti della filosofia naturale, togliendola di mezzo al soprannaturale, al fantastico, all’ipotetico, e dandole una base sicura nell’esperienza e nell’osservazione. Ma i fatti psicologici erano ancora troppo scarsi e superficiali perché ne potesse uscire una soluzione de’ problemi metafisici; e l’Europa era ancora troppo giovane, troppo impregnata di teologia e di metafisica, di misteri e di forze occulte, perché potesse aver la pazienza di studiare i dati de’ problemi prima di accingersi a risolverli. Le «idee innate» e i «vortici» di Cartesio, la «visione in Dio» di Malebranche, la «sostanza unica» di Spinosa, l’«armonia prestabilita» di Leibnizio erano teodicee ipotetiche e provvisorie, che appagavano il pensiero moderno abbandonato a se stesso e attestavano il suo vigore speculativo. Ma l’impulso era dato, e fra quelle immaginazioni progrediva la storia naturale dell’intelletto umano, la scienza dell’uomo. Le Meditazioni di Cartesio, i maravigliosi capitoli di Malebranche sull’immaginazione e sulle passioni, i Pensieri di Pascal, dove l’uomo in presenza di se stesso si sente ancora un enigma, preludevano al Saggio sull’intelletto umano di Giovanni Locke, l’erede di Bacone, di una grandezza eguale alla sua modestia. Ivi la riforma cartesiana aveva la sua ultima espressione, il suo punto di fermata; ivi la filosofia trovava il suo Galileo, realizzava l’ideale del suo risorgimento, al quale fra molti ostacoli tendevano gli uomini nuovi, acquistava la sua base positiva, fondata sull’esperienza e sull’osservazione, sulla «cosa effettuale», come dicea Machiavelli, e col «lume naturale», come dicea Bruno, con la scorta dell’«occhio del corpo e della mente», come dicea Galileo, e leggendo nel «libro della natura», come dicea Campanella. Cadevano insieme forme scolastiche e forme geometriche; la filosofia usciva dal suo tempo eroico ed entrava nella sua etá umana; agli oracoli dottrinali succedevano forme popolari, e vi si affinavano le moderne lingue. La semplicitá, la chiarezza, l’ordine, la naturalezza divenivano le qualitá essenziali della forma, e n’era un primo e stupendo esempio il Saggio di Locke. Cosí la filosofia, nella sua linea divergente, dalla teologia giungeva sino all’opposto; dal soprannaturale e dal soprasensibile giungeva al puro naturale e al puro sensibile, giungeva al motto: «Niente è nell’intelletto che non sia stato prima nel senso». E non era giá un concetto astratto e solitario: era lo spirito nuovo, penetrato in tutto lo scibile, e che ora, come ultimo risultato, faceva la sua apparizione in filosofia. Anche la morale si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico e cercava la sua base nella natura dell’uomo; e non dell’uomo quale l’avea formato la societá, ma nell’integritá e verginitá del suo essere. Comparve un dritto naturale, come era comparsa una filosofia naturale; ed entrano in iscena Grozio, Hobbes, Puffendorfio. A quel modo che Campanella e Sarpi con tutti i riformati vagheggiavano la Chiesa primitiva nella puritá delle sue istituzioni, e in nome di quella attaccavano come alterazione e falsificazione l’opera posteriore de’ papi; i filosofi vagheggiavano l’uomo primitivo, nello stato di natura, e combattevano tutte le istituzioni sociali che non erano di accordo con quello. Il movimento religioso diveniva anche politico e sociale : l’idea era una, che si sentiva ora abbastanza forte per dilatare le sue conseguenze anche negli ordini politici. Sorge uno spirito di critica e d’investigazione, che non tien conto di nessun’autoritá e tradizione, e fa valere il suo scetticismo in tutti i fatti e i principi tenuti fino a quel punto indiscutibili come un assioma. Bayle è lá, con la sua ironia, col suo dubbio universale. Come Locke realizzava il «cogito», egli realizzava il «de omnibus dubitandum». E chi paragoni il suo Dizionario con le Raccolte italiane, può vedere dov’era la vita e dov’era la morte.
Che faceva l’Italia innanzi a quel colossale movimento di cose e d’idee? L’Italia creava l’Arcadia. Era il vero prodotto della sua esistenza individuale e morale. I suoi poeti rappresentavano l’etá dell’oro, e in quella nullitá della vita presente fabbricavano temi astratti e insipidi amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati, lasciando correre il mondo per la sua china, si occupavano del mondo antico e scrutavano in tutti i versi le reliquie di Roma e di Atene; e poiché le idee erano date e non discutibili, si occupavano de’ fatti, e, non potendo essere autori, erano interpreti, cementatori ed eruditi. Letteratura e scienza erano Arcadia: centro, Cristina di Svezia, povera donna, che, non comprendendo i grandi avvenimenti de’ quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo e Carlo, si era rifuggita a Roma co’ suoi tesori, e si sentiva tanto felice tra quegli arcadi, ch’ella proteggeva e che con dolce ricambio chiamavano lei «immortale e divina». Felice Cristina di Svezia! e felice Italia!
L’inferioritá intellettuale degli italiani era giá un fatto noto nella dotta Europa, e ne attribuivano la cagione al mal governo papale-spagnuolo. Gli stessi italiani aveano ormai coscienza della loro decadenza, e, non avvezzi piú a pensare col capo proprio, attendevano con aviditá le idee oltramontane e mendicavano elogi da’ forestieri. Giovanni Leclerc scriveva anno per anno la sua Biblioteca, una specie d’inventario ragionato delle opere nuove. E come si tenea fortunato quell’italiano che potea averci lá dentro un posticino! La lingua francese era divenuta quasi comune e prendeva il posto della latina. Un movimento d’importazione c’era lento e impedito da molti ostacoli e vivamente combattuto nelle accademie e nelle scuole, dove regnava Suarez e Alvarez, tra interpreti e comentatori. La Fisica di Cartesio penetrò in Napoli settanta anni dopo la sua morte e quando giá era dimenticata in Francia; e non si aveva ancora notizia del suo Metodo e delle sue Meditazioni. Grazio girava per le mani di pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo nome faceva orrore. Di Giovanni Locke appena qualche sentore. Un movimento si annunziava negli spiriti, quel non so che di vago, quel bisogno di cose nuove che testimonia il ritorno della vita. Pareva che il cervello, dopo lungo sonno, si svegliasse. I renatisti penetravano nelle scuole co’ loro «metodi strepitosi», come li chiamava Vico, promettitori di scienza facile e sicura. Definizioni, assiomi, problemi, teoremi, scolii, postulati cacciavano di sede sillogismi, entimemi e soriti. Il «quod erat demonstrandum» succedeva all’«ergo». Chiamavano «pedanti» i peripatetici, e questi chiamavano loro «ciarlatani». Sempre cosí. Il vecchio è detto «pedanteria», ed il nuovo «ciarlataneria». E qualche cosa di vero c’ è. Perché il vecchio nella sua decrepitezza e stagnazione ha del pedante, e il nuovo nella sua giovanile esagerazione ha del ciarlatano. Ciascuno ha il suo lato debole, che non può nascondere all’occhio acuto e appassionato dell’avversario.
La riforma cartesiana in Italia non produsse alcun serio progresso scientifico, com’è d’ogni scienza importata e non uscita da una lenta elaborazione dello spirito nazionale. Fu utile come mezzo di diffusione delle idee nuove. Le quali, cacciate d’Italia co’roghi, con gli esili, con le torture e coi pugnali, vi rientrarono sotto la protezione delle idee cristiane. La riforma era detta il «platonismo cartesiano», ed aveva aria di ribenedire la religione in nome della filosofia. L’Inquisizione, in quel movimento rapidissimo d’idee, preoccupata di Spinosa, aperto nemico, lasciava passare il nuovo Platone, che almeno non toccava i dogmi. I peripatetici invocarono l’Inquisizione contro i novatori, e i novatori rispondevano proclamando Aristotele nemico della religione. Cosí il movimento ricominciava in Italia col permesso o almeno la tolleranza di Roma. Ed era movimento arcadico, confinato nelle astrattezze e rispettoso verso tutte le istituzioni. Il movimento rimaneva superficiale; ma si diffondeva, guadagnava gli animi alle novitá, sopraffaceva i peripatetici, s’infiltrava nella nuova generazione, la metteva in comunione coll’Europa, preparava la trasformazione dello spirito nazionale.