Storia della Lega Lombarda/Prologo
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PROLOGO
Ragione e scopo di queste Storie — Gli Italiani abborrenti dalla unità materiale agognarono sempre a moltitudine d’individualità — Le loro Repubbliche giustificano la ragione di questa tendenza — Paragone di queste Repubbliche con le altre Monarchie — Che cosa sia la Patria — Come per la idea di questa aggrandisse l’italiano spirito; ed anche nel vizio conservasse la tempera romana — Paragone della Cavalleria germanica e dell’amore della Patria presso gl’Italiani — Del vario moto che questo impresse alla superiore ed inferiore Italia — Della difficile ordinazione delle varie patrie alla morale madre Patria — La Lega Lombarda fu l’aspirazione dell’individualità italiana a questo suo complemento — Della unità materiale e morale — Come il concetto della Patria trae necessariamente il popolo al soprannaturale — Come i popoli inconsapevoli di una Patria non si levassero dal naturale — La Religione nell’individuo Greco ed Italiano — Cristo in questo doppio individuo — La coscienza dell’individuo e la Religione creano la Patria.
Con grande riverenza e pietà io mi accosto ad una fortissima generazione di uomini, i quali pel virile animo che recavano ebbero a patria l’Italia, per la magnifica virtù de’ fatti, il mondo. Dico di que’ gloriosi Lombardi, i quali prevenendo i tempi, primi addimostrarono, dopo la barbarie, che cosa fosse la civile libertà, con qual prezzo si comperasse, e come si rompesse la materiale forza innanzi all’onnipotenza degli spiriti. Primi ad ammaestrare, primi a gustare il frutto di quel magistero; ma per la repentina perdita che ne fecero, forse ultimi a conseguirlo. Perciò quanta è la riverenza, a cui piega le menti la sola memoria di quella famosa Lega Lombarda, che fu così sapientemente ordita contro il Barbarossa, Imperadore Tedesco nel XII secolo; tanta è la pietà che ricerca i cuori per la iniquità delle civili sorti, che la seguirono. Argomento di gloria e di dolore, che io imprendo a trattare in queste storie, perchè la dolce commemorazione delle antiche virtù nostre rincori i domestici ad imitarle, gli stranieri a rispettarle. Questo supremo intendimento, con cui mi conduco a scrivere di que’ fatti, è raffermato dall’altro di chiarire molti, anche de’ nostri, le municipali gelosie degl’italiani popoli, le ire fraterne, e quel continuo appuntarsi ai petti le mani a disgiungersi, non essere naturale vizio, che disonesti e corroda il cuore di questa nobilissima gente; ma esuberante virtù, che soverchia la ragione dell’intelletto per l’impeto d’una volontà sempre alacre, sempre fisa nel bello, perciò degna di conseguirlo, degnissima di libertà. Laonde erudita che quella fosse dalla storia delle proprie sciagure, saprebbe come sia acconcia a quella unità di spirito e di potenza, per cui da ogni banda che venissero gli strani a toccarla, sentissero propellersi dal battere di un sol cuore geloso di libertà. Unità, che tardi conseguiscono le genti incivilite, non essendo questa nello adunamento del potere e delle pubbliche sostanze, non nella solitudine del governante, ma nell’adesione amorevole degli spiriti all’ordine, per cui il potere e le ricchezze rampollino per ogni dove, e corrano per tutto; e lo splendore del principato si diffonda, e non circondi la fronte dell’uomo, ma del popolo, e la virtù dell’unità del reggimento non offenda alle ragioni della moltitudine. Perciò que’ popoli che più mestamente piangono su la impotenza degl’Italiani (ipocrite e superbe lamentanze) a raddursi sotto l’imperio di un solo, sono veramente a compiangersi. Essi si tengono beatissimi di quella forza che gl’incatena men che uomini ad un sol trono, e non gustano la santa voluttà di un’avvenire. Noi disgiunti da vecchio infortunio, dall’infortunio che ci disgiunge andiamo a poco a poco attingendo la virtù che c’introduca per la speranza nell’avvenire; in cui conquisteremo la unità dello spirito, fossero anche mille i troni che torreggiano su questa terra.
In tale sentenza sono stato condotto dal meditare che ho fatto quella omerica federazione delle città Lombarde nel XII secolo, nella quale non ho solamente trovato il furore che ministra le armi a difendere la patria dalla forestiera tirannide; ma quel maschio e riposato consiglio, per cui si propelleva il nemico con la virtù della mano, e diuturnamente si premuniva la patria per la virtù delle menti, creatrici di un diritto federale. Non dissero solamente i minacciati dal Barbarossa — Venite, uniamo lo sforzo, combattiamo — ma innalzando gli animi alla cima della civile sapienza, assunsero il sacerdozio delle leggi, e da quell’altezza predicarono — Venite, uniamo i cuori, edifichiamoci una patria — Io trovo essere stati uomini di eccellente virtù militare i vincitori di Legnano; trovo essere stati veramente Italiani i congregati a Pontida, legislatori della famosa Lega. Questi tramandarono a noi un prezioso documento dell’indole nostra; per cui vado persuaso, e spero molti con me, come la malizia delle italiane discordie non sia germoglio di perversa natura, come dissi, ma sviamento di rigogliosa virtù. Ora raffermando questa sentenza con la storia delle municipali discrepanze italiane, e della mirabile unione dei Lombardi, gli animi de’ presenti, ammaestrati dall’esempio de’ passati, sapranno onde alimentare la fiamma incorruttibile della speranza, non con le immagini della fantasia, ma con la sustanziale verità de’ fatti.
Gl’Italiani, a preferenza di ogni altro popolo, ebbero dai cieli una morale individualità oltremodo ricca, come quella materiale, per cui è tanto ricca e bella la patria loro. Essi non ne perdettero mai la coscienza; e perciò quasi paghi della medesima, non andò loro tanto addentro nell’animo il bisogno di una grande individualità sodale. Sgravati dai Barbari della imperiale Monarchia dei Cesari, il rifuggire da altra monarchia, o da altro mezzo, che li avesse per unità di reggimento congregati in un sol corpo di nazione, fu meno l’opera degli infuriati irrompenti settentrionali, che della loro propria indole. Nè l’esempio della monarchia longobarda potè educarli ad unità: che anzi furono le loro menti più fortemente colpite dalla moltitudine de’ Ducati e de’ Gastaldati longobardi, che dalla solitudine dei Re di Pavia. Per la qual cosa come incominciarono gl’Italiani ad uscire dalla immediata soggezione de’ Longobardi, per venire in quella più lontana de’ Tedeschi, appunto per la lontananza degli imperanti, ebbero agio di prendere forme ed ordine di reggimento, cui venivano più confortati dalla natura. Le città si divisero, si moltiplicarono i confini, e ciascuna ebbe leggi e maestrato a se, perchè ognuna si teneva in punto di sovrana. E siccome gli animi erano desti ed attenti, perchè nel paese circondato dall’Alpe e dal mare non fosse un centro, che attraendoli, li dispogliasse di quella sovranità; così nelle peculiari città fu gelosissima cura che non ve ne fosse un’altra, che scemasse nei cittadini la personale sovranità, che è nella libertà individuale. Quindi accanite guerre municipali per tutto il paese, democrazia nelle città.
Le molte Repubbliche, che sorsero nel nostro paese, sono il documento più bello della ricca individualità morale degl’Italiani. Piegarsi a monarchia è facile, difficile il reggersi a comune; ed una ordinata Repubblica fu sempre l’opera di una consumata civiltà. Perciò è una vera maraviglia vedere un popolo rotto, sgominato, affranto da straniera barbarie, sorgere confidente su le rovine della Monarchia dei Cesari, ed edificare Repubbliche. Io non dico che queste fossero immuni da’ vizî, fermate sempre su l’eterno fondamento dell’Ordine: le tempestavano al di fuori le razze forestiere, la febbre delle gelosie al di dentro. Ma dirò sempre, che raggiunsero il difficile scopo di crearsi una patria, d’infonderne il salutifero amore nei cittadini, d’impedire l’assorbimento di questa nel reggimento. Firenze, Milano, Venezia e cento altre città erano Repubbliche, quando tutta Inghilterra, Spagna, Francia, Germania erano monarchie. Gl’Italiani dal reggimento si sollevavano con la virtù dello spirito Romano ancor superstite, alla grande idea di una patria, e gli altri popoli morivano sotto la clava dello spirito germanico nella materiale idea di un Re. Questi non avevano patria. Il Carroccio de’ Lombardi, la campana del Comune in Firenze, che non trovo presso altra gente nel medio evo, chiariscono quel che affermo.
Coloro i quali si arrestano solo al compianto delle guerre cittadine, con cui si laceravano gl’Italiani, della feroce diuturnità degli odi, di cui è tanto lugubre la storia, a dimostrare la loro impotenza a raggiungere la perfezione dell’unità, o non videro, o s’infinsero intorno alla stupenda ampiezza con cui si svolgeva lo spirito italiano ristretto nei brevi confini delle molte e distinte individualità. I nomi di Firenze, di Genova e di Venezia, ebbero una doppia significazione di città e di potenze, da reggere sole al paragone delle grandi monarchie. Parigi, Tours, Londra, furono città e non altro; ma ciascuna di quelle città nostre fu uno stato, e stato poderoso; perchè nell’ambito delle loro mura viveva tutto concentrato uno spirito, e non la materia di un principato: esse vollero essere regine, e lo furono: e i grandi dominanti o per comporre trattati di pace, o per muover guerra con ciascuna di loro, si appressavano ad esse con tanta cautela, quante ne abbisognavano ad avvicinarsi a qualunque altro correttore di vasto reame. Quando l’Occidente si mosse sotto il vessillo della Croce ad aprire le porte dell’Oriente, innanzi alle quali era in piedi a guardarle la stupida Monarchia di Bizanzio, s’inchinò supplicante innanzi alla sola Venezia, perchè glie ne fornisse il mezzo. E quegli oratori francesi che a ginocchio piegato nella basilica di S. Marco chiedevano le navi e ’l senno Veneziano ad espugnare Bizanzio, confessarono all’universo mondo la stupenda individualità italiana. Venezia era una città, non tutta Italia. Per la qual cosa mentre le grandi monarchie si tenevano sublimi, e la sublimità loro credevano inattingibile dalla tempestata Italia, si videro non solo raggiunte, ma superate in vera potenza da una sola città. Vollero gli Italiani non una corona, ma cento; e l’ebbero.
Non erano solamente sovrane le città, perchè indipendenti; lo erano anche per la maturità del senno, con cui si reggevano, la quale mirabilmente risplende nel rapido progredire degl’Italiani nella via della civiltà in pace ed in guerra. Se in pace, la industria ed il commercio delle città marittime volgevano nelle nostre terre una vena di peregrine ricchezze, che ristoravano il popolo della perdita di quelle, che i barbari vennero a rubare in casa loro, rendevano più lieto il vivere ed ingentilivano i costumi. Se in guerra, avvegnacchè scomposte e non disciplinate sempre da santità di scopo immediato e di mezzi, pure avevano del Romano e del Greco per quel virile intendimento di non cadere ciascuna città dal seggio della peculiare sovranità. Intanto presso gli altri popoli la sola conquista, o meglio l’altrui spogliamento, era quello che li faceva più ricchi: nel dir popolo, dico il principe e le razze privilegiate, che prolificavano in seno al diritto feudale. Perciò questi schiavi in pace, e virtuosi in guerra solo nella difficoltà della brutale forza che superavano; quelli liberi, operosi in pace e virtuosi in guerra anche nella difficile abnegazione di se stessi. Questi raccoglievano il premio del valore nella vittoria, quelli tra le braccia della patria che liberavano. Essendo lo spirito degl’Italiani attento a vegliare il tesoro inestimabile delle municipali loro libertà, in questa vigilanza moralmente vivevano. Nel reggimento a comune tutti avevano gelosa la mente: si deliberava, si giudicava, si bandivano leggi, si libravano le pubbliche ragioni di pace e di guerra, si sperava e temeva per una patria.
Quella santa cosa, che si chiama patria, non è che il complemento dell’uomo sociale: perciò l’amore della medesima, lo studio a conservarla e ad ingrandirla era negl’Italiani l’amore di se stessi composti in società, era lo studio della propria perfezione, era la individualità, che si ripiegava in se stessa, e doppiamente viveva. Per la qual cosa tutte si svolgevano le forze degli spiriti; si addestravano nella palestra de’ pubblici negozî, ed acquistavano quella temperie di nervi, per cui si potettero levare nell’assoluto delle creazioni. Dante, Michelangelo, Macchiavello furono figli delle repubbliche, conceputi nella coscienza di una patria, e partoriti ne’ dolori o delle fazioni o di principesca tirannide. Tutto questo paese, che chiamasi Italia, chiudeva nel seno il germe a produrre que’ sommi, ma solo in quella parte si fecondò, in cui l’uomo pel reggimento a comune intendeva alla perfezione sociale nel culto della patria. Firenze ebbe un Dante; non l’ebbe Roma nè Napoli. Avvigorivano in Grecia i corpi nella lotta olimpica; in Italia gli spiriti negli studî della patria.
Vivevano dunque gli Italiani, e troppo; perchè la ragione ancora ramingava tra le tenebre della barbarie, e non trovava il codice della civil temperanza, per cui la virtù disciplinata si accresce. Ma l’esuberanza, o meglio il disordine di quella vita giovò allo svolgimento dell’italiana individualità, che repentinamente dagl’incunaboli pervenne a virilità, tempestata a mo’ di dire alle spalle dalla furia delle passioni. Laonde nissun popolo amò ed odiò come l’Italiano: aveva il suo cuore fibre e sangue al concepimento dell’amore e dell’odio greco e romano: perciò stanco di guerre e sanguinoso, sulle rovine delle sue repubbliche trovò anche un trono ed una sovranità, che ancor gli dura, quella delle Arti. Imperocchè le Arti, come la poesia, la pittura, la scultura, l’architettura non sono che il culto del Bello per conseguirlo. Il Bello non si conseguisce come il Bene ed il Vero, faticando lo spirito per sintesi ed analisi di elementi, ma si conseguisce per subita intuizione, immagine della divina creazione, la quale non possono ritrarre che quei popoli, i quali son donati dai Cieli di una forte individualità.
Meraviglieranno molti che io ritragga in così bella luce l’indole di quegl’Italiani famosi anche per delitti. Ma io non discorro ora i loro fatti, nè li sottopongo al sindacato della ragione morale; io tocco delle condizioni del loro spirito in rapporto ai destini del proprio paese; il quale avvegnacchè terribile nel vizio, nel vizio stesso conservava certa grandezza, per cui il delitto di chi ruba per via, si distingue da quello di un conquistatore. Imperocchè quel sordo maciullare degli uomini che faceva la feudalità presso gli altri popoli era veramente schifoso, e l’animo rifuggente non era rattenuto neppure dalla sembianza della virtù. Al contrario gli strepitosi delitti degli Italiani involgevano sempre qualche cosa, che menava a virtù. E togliendo ad esempio la efferatissima morte del Conte Ugolino della Gherardesca morto per fame con due figli e due nepoti, chi ne legge i lacrimevoli casi, cui lo condusse lo scellerato tradimento dell’Arcivescovo Ruggiero, sentesi inorridire l’anima, e non può tenersi dal maledire l’italiana ferocia di quei tempi. Eppure ponendo mente al perchè di quella tragedia
- . . . . . . . . aveva voce
- D’aver tradita te delle castella,
cioè di aver fellonescamente posto in man de’ Fiorentini le castella di Pisa sua patria, l’animo è sublimato alla idea di una patria, che tradita non chiedeva meno che la morte, e morte per fame del suo traditore, a placarsi. Sotto le parole dell’Alighieri palpita una ragione tutta romana, che fu madre dei Bruti e de’ Catoni. La quale avvegnachè falsata dall’iniquo Ruggiero, tuttavolta aveva nelle sembianze tanta giustizia, da non far riputare stemperata punizione la morte di Ugolino.
So che alcuni profondono molto culto alla Cavalleria germanica, come quella che rendeva gli uomini capaci di molta virtù nella guerra; i fatti de’ quali pel singolare accordo che recavano di cortesia e fortezza, e per la meraviglia che destavano furono generatori di una novella Poesia. Ma da che quella sete di gloria? quell’andare in procaccio di pericoli, che superati per virtù del cuore e del braccio, rendevano un cavaliere la maraviglia del popolo? Non da altro che dall’amore donnesco, essendo la virtù militare, come più contrapposta alla mitezza muliebre, la più grata mercede a comperare un cuore di donna. Le corti di amore, i tornei ed altre di queste istituzioni germaniche esprimono chiaramente la idea che fecondava il cuore della Cavalleria a generoso sentire; vale a dire, una idea che nasceva e moriva nel personale individuo, e non raggiungeva la magnificenza dell’individuo sociale. Infatti ove non erano guerre a combattere, i cavalieri si chiudevano tra gli steccati di un campo, combattevano tra loro, spesso morivano pel benigno riguardo di una femmina che volevano possedere. Era dunque la virtù militare un bisogno prodotto dalla natura dell’individuo, ossia dall’amore donnesco, che è l’amore di noi stessi da conservarci nella specie. Perciò era una virtù plastica, che sempre racchiudeva il vizio della materia. Gl’Italiani non ebbero Cavalleria; le loro patrie infondevano ne’ petti la virtù. Su le mura di quella torreggiava una idea che innamorava tutti i cuori, a tutti si dava in premio, e li sorreggeva nella guerra. Il valore guerresco degl’Italiani era un bisogno non prodotto dalla natura dell’individuo personale, ma dall’individuo sociale, ossia dall’amore della patria, che è l’amore di noi stessi perfetti nel complemento della società. Perciò la virtù tutta estetica non involgeva vizio materiale, perchè purificata dalla santità della ragione, che come fuori dell’individuo, imperava dall’assoluta morale.
Adunque nel mondo germanico la virtù militare (poichè in quello non era altra palestra ad esercitare l’uomo, che la forza materiale) non era una ispirazione del cuore compreso della coscienza di un principio morale più nobile dell’uomo stesso, come semplice individuo. Infatti a muovere gli uomini a generosi fatti, fu mestieri collocarli sotto la influenza dell’amore, ed a rimeritarlo d’estrinseco guiderdone fu necessaria la costituzione de’ feudi. Un cavaliere che tornava dalla guerra, a premio di valore riceveva dal principe il dominio di un castello, il diritto di far provare la schiavitù a’ suoi simili. La natura del premio avviliva la ragione della virtù. Non troviamo che i tornati dalla battaglia di Legnano ricevessero feudi. Per essi non fu d’uopo dell’artifizio de’ premi, bastava la fortissima voluttà d’aver fugato il Tedesco, d’aver francata la patria: così il premio, e la virtù si sorreggevano a vicenda all’altezza del principio agitatore.
Queste cose che discorro degl’Italiani, particolarmente attribuisco alle città Lombarde, perchè non soffogate da presente monarchia, potettero addimostrare co’ fatti l’indole che recavano. La inferiore regione non ebbe tempo nè agio a questa dimostrazione, perchè subita, continua fu la oppressione del materiale spirito germanico, che dopo lo sregolato scorrazzare di Goti e Saraceni si affortificò nei principati longobardi, e nella monarchia normanna. Ma Italiani erano gli Abbruzzesi; i Campani, i Pugliesi, i Calabri; anzi questi, perchè immediati alla Grecia, e tramandatori per le loro vene a tutta Italia del greco sangue, più capace anima avevano al concetto di una patria. Ma compressa in essi la rigogliosa individualità, disperando la via della creazione pel culto del Bello, gemendo si posero per quella del Vero: primi gridarono la libertà della Ragione, primi crollarono la Monarchia di Aristotele; e non potendo su questa terra edificare una patria a se stessi viventi in società, n’edificarono una alla ragione di tutti, la Filosofia. Dante e Michelangelo a Firenze, Campanella e Telesio a Napoli.
Adunque la divisione degl’Italiani, e quello che chiamano spirito municipale moltiplicando le patrie nel seno della comune madre, moltiplicò le vie, per cui la vita dell’individuo liberamente corse, si rinfocò, si magnificò nel supremo scopo, a cui mettevano quelle vie, dico in una patria. Questa era l’opera di un popolo fornito di una individualità singolare, che precorre i tempi e le altre nazioni nel cammino della civiltà; ma non era ancora l’opera di un popolo, che è giunto a maritare la vergine ed aitante sua natura al dogma dell’unità morale. Questo difficile connubio non è consigliato che dall’esperienza degli umani casi, non si contrae, che per la coscienza dell’ordine, non si santifica, che dalla religione della sventura; poichè in questi tre principî siede ed aspetta la tarda civiltà de’ popoli. Ineducati ancora dell’esperienza, ineruditi de’ benefizî dell’ordine, gl’Italiani nel secolo XII non furono ammaestrati, che da’ civili infortunî, che da domestica e forestiera fonte si derivavano. Per la qual cosa quella che io chiamo religione della sventura, prematuramente santificò il connubio dei cuori coll’unità, che i Lombardi invocarono ed abbracciarono non nella calma dell’intelletto, che pensa la giustizia, ma nella trepidazione del cuore, che veglia la minacciata patria. Perciò corta fu la vita di quella unità, ma fecondissima di documenti a’ posteri.
La Lega Lombarda fu l’aspirazione dell’individualità italiana al suo complemento. Questa che io dico aspirazione, non era che l’espressione di una potenza accennante ad atto. L’atto completo si era la conciliazione della moltitudine coll’unità; termine finale l’ordine. Gl’Italiani troppo furiosamente avevano edificato il primo elemento; ed in questo troviamo la virtù delle individualità guarentite, col vizio della offesa unità. Nella fatica del primo elemento, avvegnachè ottima l’intendimento, troviamo l’impervertito spirito municipale, per cui l’altro elemento della unità fu cessato e vulnerato nel vivo; e non ne rimase agl’Italiani, che la potenza a conseguirlo. Questa potenza era tutta nella naturale relazione della moltitudine all’unità, e nell’atto degl’Italiani cultori della propria individualità; il quale, perchè buono, come ogni bene, tendeva al complemento, che solo può ritrovarsi nell’assoluta perfezione, dico nell’unità. Quella potenza fu sfolgorata di luce dalla Lega Lombarda, perchè gl’Italiani nella giustizia propugnata contro il Barbarossa videro l’ordine sul fondamento dell’unità, che a mala pena conteneva in ufficio la superba moltitudine. Io dissi videro, perchè l’ordine apparve solo e non fu palpabile, come gli Dei di Omero, che entravano nelle battaglie.
Trovo doppia essere l’unità, per cui la compagnia di un popolo può conseguir l’ordine: l’una materiale, morale l’altra. La materiale non nasce dalla coscienza delle parti componenti il corpo sociale, ma dall’arbitrio di chi, non si tenendo come parte nel corpo, si reputa più nobile, più forte del medesimo, intanto che da lui debba derivarsi la sua perfezione, ossia l’unità. Bastarda unità: essa uccide la individualità delle parti per vivificarle; soffoga il germe della loro perfettibilità, sostituendone una estranea; ruba l’azione, che è l’essenza della personalità; risolve in materia il ragionevole spirito dell’uomo, ed in una pazza contraddizione vanamente si affatica a produrre nel corpo la libertà col servaggio, colla morte la vita. Presiede questa materiale unità al mondo irragionevole, e bene sta; perchè la pianta e la belva necessariamente perfezionandosi, stupidamente si sottopone all’estrinseco principio che la perfeziona. Solo l’uomo destinato a liberamente perfezionarsi reca in se stesso il principio della sua perfezione, e non ne patisce uno estrinseco. I popoli barbari, nel petto de’ quali dormiva quel principio, ebbero mestieri dapprima della unità materiale, a conseguire l’ordine; ma l’unità fu imposta dalla mano di un uomo, non germinò dalla loro ragione, perciò fu forestiera, e l’ordine bastardo. Ma la ragione di que’ popoli contristata viveva: si mosse, progredì, e nell’ora della sua rigenerazione, investì la unità materiale, e coll’arma dell’analisi la disciolse; e si avvide, che gli elementi di che si componeva non era il popolo, ma un uomo: allora la coscienza della individualità creò la unità morale. Adunque nel comune de’ popoli questo è il processo delle loro condizioni sociali; unità materiale, analisi, unità morale.
L’unità morale nasce dalla coscienza delle parti, le quali formano tutto il corpo sociale. Queste sono al tutto vive, perchè scienti; sono fortemente agenti, perchè libere; sentono e palpano la propria individualità nell’azione in che si perfezionano. E poichè l’azione, avvegnachè incominciata, include il germe del bene in che si termina; non essendo il bene delle parti che nella unità morale, l’azione loro è la composizione di questa unità. Questa, a mo’ di dire, evapora dalla ragione degl’individui, è amata perchè propria; e quando si addensa nella coercizione delle leggi, è ragionevolmente rispettata. I Greci e gl’Italiani furono i soli, che nel principio della vita sociale, prevenendo la materiale unità, si misero all’opera di conseguirne una morale, perchè ne sentirono gli elementi in se stessi. Perciò non fu processo nelle loro condizioni sociali: essi furono, e sono nella sintesi delle proprie individualità, ossia nella unità morale. Essi composero, gli altri risolvettero per comporre. Essi peccarono del peccato della moltitudine, gli altri prima del sacrilegio della unità materiale, poi del peccato di moltitudine. Nell’analisi dell’unità materiale è la storia delle rivoluzioni, che comincia dal 1688 in Inghilterra, continua in America, si compie nel 1789 in Francia; nella sintesi delle individualità è tutta la storia Greca ed Italiana.
Un popolo che si solleva al concetto di una patria non per artifizio dei tempi e degli uomini, ma per la virtù della propria individualità, è già su la soglia del soprannaturale. Quel concetto è tutta opera dello spirito, e lo spirito non si arresta nella sua azione. La spiritualità della patria lo educa al soprannaturale, e l’abnegazione dell’individuo per cui è la patria dell’uomo associato all’uomo, lo ammaestra al sacrifizio, per cui è la patria dell’uomo associato a Dio.
Lo spirito che affaticato si posa sul venerando edifizio della patria, è sitibondo di Dio; perchè non può ristare nell’azione; e la morale dolcezza del guiderdone, che risponde all’abnegazione del cittadino, gli è stimolo a cercarne un’altro per l’abnegazione della ragione. Egli si tiene annobilitato e non invilito dal sacrifizio che ha fatto del suo individuo alla patria; perciò non teme di perdere o scemare il tesoro della ragione, sagrificandola all’idea di una patria che si dilaga nell’infinito. Per la qual cosa il dogma del soprannaturale fu un bisogno presso i Greci e gl’Italiani a preferenza degli altri popoli. Tutti dalla notizia dell’imperfezione del finito si levarono all’idea della perfezione dell’infinito. La fame, la sete, i morbi, la morte erano provati da tutti, e tutti cercarono nel dolore dell’imperfetto, ciò che non patisce la fame, la sete, i morbi, la morte, ossia il perfetto; non consolata di risposta la lor dimanda, essi vagarono col pensiero nell’idea negativa del non finito e del non imperfetto; la quale non essendo reale, perchè negativa, ebbero mestieri di renderla reale coll’artifizio della fantasia e dei sensi. Deboli d’intelletto a percorrere la serie delle cause, si arrestarono a quella che più immediata ad essi beneficavali di materiale benefizio. Nel Sole e nel fuoco, che mandava luce e calore, si arrestò la mente degli Assiri, come in causa prima di quel benefizio; perchè mancava la lena alla loro ragione investigante nell’ascensione dagli effetti alle cause. Come prima causa, fu identificata l’idea del Sole e del fuoco a quella assoluta di luce e di calore, ossia di ciò che è perfetto ed infinito in quanto a luce e calore: perciò essi imperfetti in questo, agognarono a quelle creature, e confessando la loro perfezione e la propria imperfezione, adoperarono mezzi ad inchinarsele propizie, a trasfondere il proprio essere imperfetto nel loro perfettissimo, non nell’assoluto, ma nella relazione della luce e del calore; in una parola, il Sole ed il fuoco fu uno Iddio, ed ebbe una religione. Il Sabismo fu la prima religione, ossia il culto degli Astri, perchè la luce era il primo elemento della vita. Dalla qual cosa è chiaro, che la successiva coscienza de’ naturali bisogni doveva ingenerare successiva moltiplicazione di Dei; e la impotenza razionale di colpire a priori l’imperfetto della propria natura, si manifestava nella moltiplicazione del perfetto. Così il culto si attribuì alla terra, al mare, alle piante, alle bestie, come satisfacenti ai naturali bisogni; e la gerarchia nella Teogonia di tutti popoli, fu ordinata secondo quella dei bisogni. Nulla di spirituale nella formazione delle religioni; nascevano spontanee dalla satisfazione de’ sensi. Popoli morti sotto il peso della unità materiale, non potevano alzarsi al disopra dell’individuo materiale: perciò la religione pienamente soddisfacendo ai materiali bisogni, era incatenata dai materiali confini.
I Greci avevano patria, vivevano per essa nella unità morale; perciò accolti come Iddii gli astri, la terra, il mare, quasi benefattori dell’individuo materiale, provarono il bisogno di altri Dei, benefattori dell’individuo morale. Questi non potevano essere bruti organici, o solamente animali, era mestieri che fossero razionali ossia altri uomini. L’uomo aveva la sua religione; chiedevane un’altra il cittadino. Ma la sola idea della razionalità non bastava a farli Dei; era necessario che fosse una razionalità già perfezionata, onde avesse potuto rifondere negl’imperfetti cultori la sua perfezione. Perciò gli uomini singolari per virtù di corpo e di mente, gli eroi vennero deificati. Ercole, che, come recita Senofonte, messo tra Minerva e Venere, la virtù e la voluttà, piuttosto a quella che a questa si appiglia, per cui addiviene un prodigio di fortezza, è il vero Iddio de’ Greci. In lui è il dogma dell’abnegazione, madre di ogni virtù; in lui la divinità del cittadino. Così la gerarchia nella Teogonia de’ Greci non è consigliata dai sensi, ma dalla ragione. In Giove il principio della sapienza, da Giove la sapienza simboleggiata in Minerva partorita dal suo capo. Negli Dei la virtù assoluta, ne’ Semi-Dei dapprima la virtù relativa ed imitabile, poi per l’Apoteosi resa assoluta agli occhi degli uomini. I Babilonesi gli Egizî confusero il culto de’ loro Dei con quello de’ loro Re; perchè la ragione del culto del Sole, delle bestie e dei Re era comune. I Greci non adoravano mai altro uomo prima che fosse stato deificato per l’Apoteosi, ossia prima che fossero certificati della loro virtù. A questa il culto, non all’uomo. Adunque la religione presso i Greci incominciò a rinsanguinarsi di certa moralità, perchè avesse potuto essere religione della patria. Questa la richiedeva, e questa gelosamente la vegliava. Presso gli altri popoli la religione non toccava che l’individuo; in Grecia informava la società. Il famoso consiglio degli Amfictrioni, che per ben due volte l’anno si assembrava a Delfo ed alle Termopili, ai tempi in cui la Grecia si reggeva in dodici monarchie, è una prova di quel che affermo. Ciascun principato vi spediva due oratori, uno deputato agli affari religiosi, uno ai civili. Nelle grandi imprese la religione non si scompagnava mai dalle fatiche della patria: ed Omero trasse dall’Olimpo gli Dei a guerreggiare su la terra, meno per la ragione poetica del maraviglioso, su di cui levasi la macchina di ogni Epopea, che per la profonda azione dell’elemento soprannaturale nella individualità Greca.
Ponendo mente al Sabismo ed alla Teogonia de’ Greci, è chiaro che la ragione umana avesse progredito, riscuotendosi dalla stupida adorazione del fuoco, a quella della virtù. Procedettero i Filosofi: robusti d’intelligenza, come Platone, Socrate e Pitagora, attenti investigatori del cammino dell’umano spirito presso gli altri popoli nella via della morale e del soprannaturale, consapevoli del sacerdozio che amministravano della sapienza, adunarono tutte le forze della ragione nello studio dello spirito, e della causa psicologica. Nella elevazione delle loro menti si allontanarono dalla materia, in cui concretizzava la plebe il soprannaturale, e si lasciarono dietro il volgo; il quale perdendo di vista l’alto intelletto di Socrate, lo gridò ateo, e per questo lo dannò nel capo. L’ingiusta sentenza fu una novella manifestazione dello spirito che progrediva nella coscienza della religione. Si riputò delitto l’ateismo, e indegno dell’umana società l’ateo. L’ateismo abborrito era argomento che anche il popolo incominciava ad abbandonare la moltitudine delle forme, ed a librarsi negli spazi dell’assoluto. Quello Ignoto Iddio che non aveva in Atene simulacro, ma semplice ara, accenna all’assoluto. Un tanto annunzio fu dato al mondo dai sapienti dell’Areopago. Trasecolati dall’inaspettata ecclissi del sole, che si abbuiò sul Golgota, s’alzò tra essi una voce temente o lo scioglimento del mondo, o il trangosciare dell’Autore della natura. Non dissero Giove o Saturno: quel Naturae Auctor fu il verbo della ragione che calcando la bassa materia, sublimandosi, chiedeva fecondarsi del Verbo del Signore. Ed il Verbo del Signore era già alle porte sul labbro di S. Paolo, che impaziente di annunziarlo (incitabatur Spiritus ejus in ipso) rispose ai chiedenti (volumus ergo scire) coll’annunzio del Cristo. Quello fu il primo incontro della Fede colla Ragione, che si abbracciarono nella greca individualità. I massimi degli Apostoli si locarono nel greco e romano individuo a riformare l’umanità. Paolo in Atene, Pietro in Roma.
Allora la vera Religione della patria fu determinata; cadde la putrida scorza delle forme, e lo spirito non più tentò, ma trovò il dogma del soprannaturale. Questo non fu più conseguenza, ma principio di quello della patria; ed il cittadino non poteva entrarne il santuario, a conseguire la sua perfezione sociale, senza recar nelle mani il chirografo della sua ascrizione alla patria dello spirito. Cristo aveva vinta e trionfata l’unità materiale, aveva edificata l’unità morale coll’abnegazione della Croce; e poichè personificò tutta l’umanità, tutta l’umanità si trovò una in lui. Egli fu il primo cittadino del mondo, egli fu il vero Padre della patria. Perciò la Grecia e l’Italia dovevano più profondamente penetrarsi dell’elemento Cristiano, ed a questo esclusivamente raccomandare i destini della propria individualità. La loro patria adunque doveva o come germe fecondarsi nel seno del Cristianesimo, o su di questo levarsi nell’ubertà della vita. Fu come germe nella Grecia conculcata dall’Islamismo; si sublimò per impeto di vita all’ombra della Croce, che s’inarborava nel ventiduesimo anno di questo secolo. Fu ancor tale nell’Italia tempestata da’ barbari, angustiata dallo spirito germanico; ma fu terribilmente viva nel XII secolo all’ombra del Pontificato, personificante il Cristianesimo edificatore della morale unità de’ popoli. Ecco dunque il doppio fondamento dell’unità italiana: la coscienza della individualità propria e la religione di Cristo. La coscienza può perdersi, la individualità non mai. La perderemo quando potran rubarci questo sole che tanto vitalmente ci scalda, che è tutto nostro. Si chiudano gl’Italiani nella propria individualità: ne suggellino l’ingresso con l’invincibile segno dell’unità, colla Croce, ed avranno una patria.